Che cosa significa andare a vivere all’estero per un lungo periodo, poi tornare indietro, sentirsi divisi a metà, amare quello che ritrovi, rimpiangere quello ti manca: dov’è casa? Nasce anche da questo disorientamento il nuovo album di Matilde Davoli, Home, in uscita il 5 novembre a distanza di sei anni dal precedente I’m Calling You From My Dreams.
Alle spalle due dischi con Studiodavoli, band co-fondata col fratello Gianluca De Rubertis, e altri due con Girl With The Gun, assieme a Populous, la cantante, chitarrista, compositrice, ingegnere del suono e produttrice pugliese nel 2012 ha lasciato Lecce per Londra, dov’è rimasta per quattro anni prima di tornare in Italia nel 2016, ed è stata questa esperienza che l’ha ispirata per questo suo secondo lavoro solista. Un album che ti accompagna in un mondo sonoro ricercato e avvolgente, in bilico tra dream pop, synth wave, nu jazz, fatto di ricche articolazioni ritmiche e melodie eteree, di sintetizzatori che dialogano con percussioni e sax, di un grande amore per le colonne sonore anni 60 e 70. E anche per Lucio Battisti, come mostra Il coraggio di provare, l’unica traccia in italiano, primo singolo nella nostra lingua, per Matilde, in cui la musica parte sognante per farsi via via più energica e stratificata, quasi a rappresentare la forza interiore che tutti noi abbiamo bisogno di accrescere e il suo rinvigorirsi nel momento in cui si decide di far sentire la propria voce.
Vi presentiamo in anteprima il video diretto da Niccolò Natali: protagonista, un’anziana signora che dopo aver ritrovato nell’armadio un vecchio vestito ricavato da un paracadute, durante un picnic con i nipoti in una pineta vicino al mare si ritrova immersa nei ricordi, in un’estate del dopoguerra, in compagnia di militari disertori. «È una storia che mi ha raccontato il regista, quella degli americani che dopo il secondo conflitto mondiale sono rimasti nel nostro Paese lasciando perdere la guerra e che in estate facevano feste con le ragazze del posto», spiega Davoli, che pubblica con l’etichetta Loyal To Your Dreams, di cui è cofondatrice.
Intanto una cosa: la vecchina nel video è fantastica…
È Caterina, la nonna del regista. Me ne sono innamorata anch’io, quando me l’hanno presentata.
Come mai hai deciso di cantare questo pezzo in italiano?
Non è stato nulla di calcolato. È successo che un giorno un mio carissimo amico, Gigi Chord, mio tastierista nei concerti, mi ha telefonato per chiedermi consigli su un breve loop musicale che aveva prodotto, ma su cui si era un po’ impantanato. Voleva una mano anche per la parte vocale e io, non appena ho sentito il materiale, ho pensato gli servisse un cantato in italiano. Sarà che sono abbastanza convinta che per ogni genere musicale, per ogni tipo di scrittura e di sonorità, ci siano delle lingue che funzionano di più e altre che funzionano di meno… Così ci abbiamo lavorato su, io ci ho sviluppato attorno una struttura, poi ci siamo scambiati le tracce un paio di volte per modifiche e aggiunte, e la canzone era pronta.
C’entra anche il fatto che ora vivi in Italia e hai voglia di ritagliarti uno spazio maggiore qui?
In realtà non so dirti se sarà l’inizio di un percorso in italiano. Ma perché no? Non escludo mai nulla, in genere seguo quello che mi viene.
Quando hai iniziato a lavorare all’album?
L’idea di questo disco è nata nel 2016, quando sono tornata in Italia da Londra, dove mi ero trasferita nel 2012. Poi, però, sono successe tante cose, il matrimonio, la casa, cose anche bellissime che però hanno fatto sì che non riuscissi a scrivere ciò che avevo in testa. Quindi per anni ho buttato giù idee, fino a quando mi è venuta Home, quella che oggi è la title track, e mi sono resa conto che il tema ricorrente di tutto ciò che mi ero appuntata fino a quel momento era legato al concetto del ritorno a casa. Perché non è facile, quando ci si allontana dal luogo dove si è cresciuti, trovarne uno dove sentirsi davvero a casa, e questo soprattutto quando si va all’estero, dove cultura e mentalità delle persone sono diverse. Però, allo stesso tempo, anche nel posto che conosci di più al mondo può mancarti qualcosa. Ma tornando al lavoro sul disco: alla fine a darmi la possibilità di sviluppare il tutto è stato, brutto a dirsi, il Covid.
La pandemia?
Sì, perché all’inizio, con il primo lockdown, ho avuto il tempo per mettermi seriamente a chiudere l’album. Già, ammetto che all’epoca, quando ci siamo ritrovati improvvisamente rinchiusi tra quattro mura, ho tirato un sospiro di sollievo: finalmente potevo dedicarmi a me stessa e ai miei progetti. Ovviamente non potevo immaginare quello che ci aspettava.
Visto che tutto è partito da Home, toglimi una curiosità sulla voce in quella traccia: non sembra la tua.
È la mia, l’ho semplicemente pitchata, ma so che non sembra così, c’è chi ci ha fatto delle scommesse, su questa cosa. Pensa che molti credevano fosse mio marito a cantare, visto che anche lui è un musicista e ha inciso dei dischi come Soul Island. Tra l’altro, da lì abbiamo fatto delle prove con la voce che ci hanno fatto scoprire che se lui si pitcha più su sembra me e se io mi pitcho più giù sembro lui.
Sì, in effetti in Home la voce sembra maschile: come mai questa scelta?
Ma sai, essendo ingegnere del suono, quando scrivo produco anche. Quando lavoro su un pezzo, scrittura, produzione, mix vanno sempre di pari passo, per cui mi diverto a cazzeggiare – passami il termine – con effetti e quant’altro. In questo caso volevo che Home si distinguesse all’interno della tracklist, perché per me ha un’atmosfera e un significato particolari.
Tutto è nato da questa traccia, dicevi. E a me quel tutto ha fatto venire in mente gli Air, specie quelli di 10 000 Hz Legend, e poi cose tipo Jazzanova, Kruder & Dorfmeister, Thievery Corporation, Cinematic Orchestra. Ci sta?
Beh, è un complimentone, in particolare gli Air sono un ottimo esempio perché sono loro fan dal primo album, il loro è un progetto interessante che amo e che si allaccia, tra l’altro, a quelle meravigliose colonne sonore anni ’60 e ’70 che per me sono un riferimento altrettanto importante: mi riferisco alle musiche di Ennio Morricone, Piero Piccioni, Alessandro Alessandroni, e di colui che considero il mio faro nella notte, Piero Umiliani, autore che ha sperimentato tantissimo con i sintetizzatori quando erano ancora strumenti d’avanguardia.
Hai studiato da ingegnere del suono, quand’è che questo lato del lavoro di musicista ti ha conquistata?
Da subito, dalla prima volta che sono entrata in uno studio di registrazione con gli Studiodavoli. Rimasi affascinata da tutto il lavoro che sta dietro alla registrazione di dischi, così inizialmente mi misi in testa di diventare tecnico del suono, cominciai a studiare in quella direzione per i fatti miei. In seguito ho deciso di iscrivermi a una scuola e, constatato che purtroppo in Italia non esistono facoltà universitarie in questo ambito, ho scelto quella secondo me più autorevole, il Sae Institute. Mi sono diplomata lì, poi ho fatto un po’ di tirocinio a Bologna al vecchio Alpha Dept con Francesco Donadello, grandissimo ingegnere del suono, dopodiché sono tornata a Lecce e ho cominciato a lavorare al Sudestudio, dove sono tornata ora dopo l’esperienza a Londra.
E a Londra, com’è andata?
A Londra mi sono avvicinata alla produzione di altri artisti, prima con Lucia Manca, che è anche una mia grande amica, poi con Indian Wells, Populous e altri. Poi, sai, essere ingegnere del suono o produttrice… A volte le due cose si confondono, una materia sconfina nell’altra, è un mondo bellissimo proprio per questo.
Un mondo tutt’oggi perlopiù maschile, o no?
Lo è, certo, e non capisco perché, dato che da tempo è tutto alla portata di tutti e tutte, lo dice una che questo percorso di studio lo ha avviato ormai 15 anni fa. Sicuramente è un peccato, che non così tante donne ricoprano questi ruoli tecnici, sono sicura che la sensibilità femminile potrebbe dare molto in questo campo, potrebbe dare qualcosa di diverso, sfumature differenti: quando ascolti un pezzo prodotto da una donna si sente.
Il motivo della scarsa rappresentanza femminile in questo ambito è noto, affonda le radici in una cultura patriarcale che ha fatto di tutto per distinguere ciò a cui dovevano interessarsi i maschi e ciò a cui dovevano interessarsi le femmine. Ciò detto, parlando di produttrici-musiciste che hanno inciso dischi in tempi recenti, vengono in mente Kaitlyn Aurelia Smith, Kelly Lee Owens, Laurel Halo…
Già, a volte si rischia di cullarsi nel vittimismo, mentre oggi le possibilità per intraprendere percorsi di questo tipo ci sono, è tutto a portata di mano. Più donne si butteranno, più l’ambiente diventerà sano e più ci saranno altre donne e in numero sempre maggiore che troveranno la via per esprimersi. Non so, io preferisco muovermi così: nella mia esperienza di cantante, musicista, produttrice e ingegnere del suono, specie quando ero più giovane, mi sono ritrovata in situazioni sessiste, però, a parte che se mi arrabbio so diventare una iena, quelle esperienze mi hanno aiutata a crearmi degli anticorpi che mi serviranno sempre. Perché le ingiustizie ci saranno sempre, magari di diverso tipo, magari agganciate ad altri temi, ma ci saranno.
Tornando all’album Home, lì mi pare che tu abbia cercato di giocare con il tuo sguardo da produttrice e ingegnere del suono con una forma canzone non certo tradizionale, anzi, ma che in alcuni punti – la title track, il singolo in italiano, la traccia di chiusura – un po’ emerge, si delinea. Una sfida tutt’altro che facile.
Infatti, no, non è facile. Quello che credo io è che il sound di un disco sia fondamentale, è come il vestito che ti metti addosso, quindi curare quell’aspetto maniacalmente è essenziale, ma non a livello estetico, bensì per arrivare alle persone in profondità. Non è semplice applicare quello che sto dicendo a una canzone, in genere chi ha studiato da sound designer tende a perdersi nei dettagli tecnici, però, ecco, dipende, e indubbiamente tentare quella strada è stimolante. Io l’ho fatto solo in parte, nel senso che nel mio album alcuni brani non hanno nemmeno il ritornello, altri hanno strutture totalmente scomposte. Penso necessiti di più di un ascolto, ma va bene, non mi piace il modo in cui si consuma la musica oggi.
Ossia?
Mi chiedo quanto possa essere sostenibile ascoltare e produrre musica con la rapidità e anche con la volatilità che vediamo oggi. Fare dischi costa e poi, se continuiamo così, che cosa resterà? Per me fare musica è una spinta che nasce da dentro, non faccio altro tutto il giorno, studio, mi ci dedico, cerco di imparare sempre qualcosa di nuovo. E ascolto: ascoltare un sacco di roba anche vecchia è imprescindibile per chi fa dischi, non puoi fare musica senza sapere che cosa c’è stato prima di te, ciò che c’era prima ti può regalare un mondo che poi puoi sviluppare ed evolvere in maniera personale. Per creare il tuo, di mondo.
I tuoi primi ascolti quali sono stati?
Verso i 15 anni quasi solo jazz e musica classica, perché mio padre ha una collezione di dischi enorme ed è appassionato soprattutto di quei generi. Tant’è che io per un periodo ho studiato anche il violoncello al conservatorio. Ma era già troppo tardi, avevo 17 anni, per cui è finita che sono approdata in altri lidi. Anche perché nel frattempo mi ero avvicinata al mondo del pop indipendente e dopo aver scoperto gli Stereolab mi si è completamente fulminato il cervello.
Sei stata a Londra per cinque anni, che differenza hai notato rispetto all’Italia, parlando di musica?
Ho notato che la musica nel Regno Unito è una cosa seria. Parlavo con un amico che ha un’agenzia di booking a Londra e mi diceva che da quando è arrivato il Covid lo Stato, nei periodi in cui la sua agenzia ha dovuto fermasi, gli ha dato tanto quanto quello che guadagnava quando l’agenzia funzionava. Il che fa capire come là la musica sia cultura non per modo di dire, è lavoro a qualsiasi livello e va preservata. Tant’è che il mondo musicale britannico adesso non è così moribondo come il nostro: qui eravamo fantasmi durante i lockdown e ora cerchiamo di sopravvivere come possiamo.