Massive Attack, intervista a Robert Del Naja: «Stiamo vivendo nel futuro nero di ‘Mezzanine’» | Rolling Stone Italia
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Massive Attack: «Stiamo vivendo nel futuro nero di ‘Mezzanine’»

Robert Del Naja racconta in esclusiva come è cambiato il suo mondo negli ultimi vent'anni, tra Salvini, i social media, Banksy e il senso di fare un nuovo disco

«Ciao, molto piacere di conoscerti», esclama Robert “3D” Del Naja. Come sempre è entusiasta di esibire le sue radici italiane, sporcando con il suo accento britannico le parole che da bambino gli insegnava il papà. Napoletano doc, è lui il responsabile della passione che da sempre lega il leader dei Massive Attack a Napoli e alla sua squadra di calcio. Da qualche settimana il gruppo fondato a Bristol 31 anni fa insieme Grant “Daddy G” Marshall e Andrew “Mushroom” Vowles è tornato in tour, passato dall’Italia con tre date a Milano, Roma e Padova.

Il live, cui seguirà il prossimo 19 aprile una riedizione speciale in triplo vinile, è la celebrazione dei vent’anni di Mezzanine, l’album che ha trasformato per sempre i Massive Attack, facendo sprofondare il suono di Bristol dentro un vortice di oscurità insondabile. A questo aveva portato la rinuncia allo stile che avevano contribuito a fondare, il trip-hop, abbandonato rinnegando se stessi, rischiando lo scioglimento, e dando l’addio a Vowles per gettarsi in picchiata dentro un suono abissale. Se nei lavori precedenti a Mezzanine c’era stata l’esplosione di luce di Unfinished Sympathy, il perdono di Protection o l’interconnessione universale di The Hymn Of The Big Wheel, allora entravano scena la paranoia di Angel, gli ego denutriti’ di Inertia Creeps, la disperazione di Teardrop o l’alienazione vivisezionata in Risingson. Quasi che lo scarafaggio in copertina suggerisse un racconto kafkiano messo in musica.

Foto di Babycakes Romero

Cosa provocò questo cambiamento?
Con il nostro primo album, Blue Lines, ci eravamo trovati per la prima volta ad avere gli strumenti per fare un disco, per cui ogni cosa di cui parlavamo in quel disco era condizionata dal desiderio di trovare uno spazio che fosse nostro, di fare qualcosa di significativo nella maniera più spontanea possibile, circondati da persone di cui ci fidavamo. Con Protection le cose cambiarono: all’improvviso eravamo una band con un contratto discografico, dovevamo fare un album seguendo un metodo, mettere ordine al nostro modo di lavorare, ma, allo stesso tempo, trovare una via diversa da quella che avevamo già percorso. Quel disco è stata un’esperienza durissima, sentivamo di essere cambiati come persone: personalmente scavare più a fondo dentro la mia storia e in quella della band, ed è quanto decidemmo di fare con Mezzanine.

Ma perché invertire così drasticamente una rotta?
Perché era arrivato il momento di spingersi oltre, di mettersi in gioco. Iniziai a campionare dischi punk e new wave per trovare un suono totalmente diverso da quanto avevo fatto in precedenza. La decisione di allontanarsi da tutto ciò che eravamo sempre stati, ovviamente, creò degli attriti insanabili nella band; dalla democrazia che eravamo sempre stati ci trovavamo improvvisamente in uno squilibrio di potere, due contro uno, e quella tensione ha influito profondamente sulle atmosfere del disco. 

Mezzanine uscì alla fine del millennio, in un periodo storico carico di tensioni politiche e sociali. Vedi somiglianze con i giorni nostri?
Il mondo in cui viviamo oggi è ancora più oscuro: il clima politico è soffocante, l’opera umana ha reso fuori controllo il cambiamento climatico, la società è sempre più confusa e complessa. Mezzanine era figlio di un periodo storico in cui l’Europa si era da poco riunificata dopo il muro di Berlino; oggi vedo che quelle divisioni si stanno ripresentando, seppur in forma diversa. Le disuguaglianze sono cresciute, i conflitti non sono mai finiti, mentre la crisi finanziaria ha alimentato il nazionalismo e la paranoia contro l’integrazione. Guardando la Storia era piuttosto prevedibile, come se ci fossero degli schemi che si ripetono regolarmente. Solo che oggi siamo otto miliardi di persone, quindi le cose sono ancora più complicate. 

Allora raccontavate di una società sempre più alienata, che sotto molti punti di vista oggi è del tutto realizzata.
La mia generazione è cresciuta in un’epoca, quella tra gli anni ’70 e gli ’80, dominata dalle divisioni sociali e razziali. L’odio era ovunque: per le strade, nei locali notturni, negli stadi con gli hooligan. Lentamente, all’inizio degli anni ’90, sembrava che le cose stessero cambiando. Con la nascita della club culture sembrava che le persone avessero imparato ad accettarsi reciprocamente: andavano ai party, prendevano un po’ di ecstasy e ballavano insieme fino all’alba. La scena rave non era la mandria di tossici e ubriaconi che hanno dipinto, in quegli anni si respirava davvero un senso di progresso e liberalismo come mai prima.

Poi cosa è successo?
Non a tutti andava a genio il progresso, l’idea che si potesse vivere in una società aperta. Quello che si stava creando nei club fu demonizzato e distrutto e oggi stiamo assistendo al ritorno del clima d’intolleranza in cui sono cresciuto, sfruttato da politici disposti a tutto per ottenere consensi. Oggi alle persone sembra accettabile che vengano ridiscussi i termini dell’accordo del Venerdì Santo (trattato che alla fine degli anni ’90 segnò uno stop nel conflitto in Irlanda del Nord, ndr), oppure i cori razzisti di Inter-Napoli.

Che effetto ti hanno fatto gli insulti a Koulibaly?
Era da tanto che non sentivo così tanti versi scimmieschi contro un giocatore: un comportamento del genere è stato reso accettabile proprio dalla politica, che sta normalizzando il razzismo. Finché chi guida un Paese continuerà a chiudere gli occhi davanti a episodi del genere, tutto ciò diventerà sempre più frequente. L’odio sta tornando ed è sempre più facile accorgersi che persone che credevi di conoscere ora la pensano come i gruppi di estrema destra. In questi ultimi vent’anni l’Europa si è concentrata esclusivamente sulla guerra al terrorismo islamico, ma la nuova minaccia sono questi gruppi che ci sono cresciuti in casa.

Foto Press

Secondo te se il tuo Paese tornasse alle urne per la Brexit, il risultato sarebbe diverso?
Difficile dire. Il referendum è stato un voto di protesta: la gente non era tanto convinta che le leggi dell’Eurozona minassero le loro libertà personali, quanto che l’unione fiscale abbia aggravato le disuguaglianza nel Paese. Le persone sono esasperate dopo la crisi economica del 2009, ma uscire dall’Europa non è la soluzione, anche fingendo di credere che il Leave significhi andarsene senza contraccolpi. Finché non rivedremo le nostre leggi finanziarie, finché ci sarà questo capitalismo le disuguaglianze non saranno risolte. Se una parte del PIL venisse distribuita nell’edilizia popolare, nell’educazione, nei servizi sociali e nel welfare la Gran Bretagna tornerebbe a crescere.

La working class uscirà male dal Leave?
Una cosa è certa: coloro che hanno votato Leave non avranno benefici. Storicamente i Tories non hanno mai fatto nulla per i più poveri, e non credo che cominceranno ora.

Che giudizio dai del comportamento del leader laburista Jeremy Corbyn?
Penso che sia anche una brava persona, ottimo nel fare opposizione, ma è sempre stato un euroscettico e sta spaccando ulteriormente un partito già troppo diviso al suo interno. Per questo credo non fosse l’uomo giusto per affrontare la Brexit, sia prima del referendum che dopo, quando e accaduto il disastro e sono iniziate le negoziazioni. Quello che sta accadendo oggi era prevedibile, frutto di una guerra civile portata avanti dal partito conservatore, in cui esponenti vicini all’estrema destra hanno sempre spinto per l’uscita dall’Europa. Theresa May è sempre stata una politica dal sangue avvelenato, si è dimostrata un’incompetente, non ha mai avuto vere chance di negoziare con Bruxelles. Ora ci troviamo a un passo dal baratro, con il partito conservatore che ha bisogno di un nemico contro cui scagliarsi, l’Europa, e il nazionalismo che sta tornando a infestare i giornali, come accadeva durante la Seconda Guerra Mondiale. Tutto ciò era prevedibile e mi vergogno molto a vedere quanto i nostri politici siano infantili e di come la Storia si stia ripetendo nel mio Paese.

Segui da sempre la politica italiana. Che ne pensi del modo in cui Matteo Salvini sta gestendo gli sbarchi?
È deprimente. Nel momento in cui fu rimosso dal potere, Gheddafi avvertì i leader europei che senza di lui ci sarebbe stata un’ondata migratoria, che non sarebbero riusciti ad affrontare. Aveva ragione. Oggi manca un accordo a livello europeo, che stabilisca una volta per tutte come affrontare la tratta di esseri umani e come punire chi specula sulla disperazione. Demonizzare i migranti incoraggiando il razzismo e la divisione ad ogni costo è ciò che in Gran Bretagna chiamiamo dog-whistle politics (un messaggio che suona innocuo per alcuni, ma rivolto a un altro gruppo di persone può risultare forte e talvolta pericoloso, ndr): populismo sfrenato che sfrutta la paura e le convinzioni della gente, senza cercare una soluzione al problema. I leader populisti, sedicenti anti-establishment – anche se sappiamo tutti che non lo sono – stanno giocando col fuoco: non sappiamo dove ci porteranno le loro decisioni da qui a 10 anni.

C’è un episodio che ti ha colpito in modo particolare?
Mi ricordo di aver letto di quel sindaco (l’ex primo cittadino di Riace Mimmo Lucano, ndr) che stava riuscendo a trasformare la sua città in un villaggio globale e a fare ripartire l’economia grazie all’integrazione. Il suo progetto è stato chiuso perché è stato accusato di aver cercato di combinare un matrimonio tra un suo concittadino e una donna nigeriana, ma lui voleva solo salvarla. Voleva farle ottenere la cittadinanza, e per questo è stato messo alla gogna: tutto questo è assurdo. Certi politici vogliono tenere divisi i popoli ad ogni costo, ci siamo già passati.

Qualche settimana fa Facebook ha compiuto 15 anni. Com’è cambiata la società con la nascita dei social media?
Penso che inizialmente l’arrivo dei social media sia stato positivo. Un luogo digitale in cui le persone di tutto il mondo potevano comunicare tra loro, in cui coltivare idee e attirare l’attenzione su tematiche sociali altrimenti sconosciute. In questi ultimi anni Facebook ha mostrato il suo lato oscuro. In molti casi è diventato una valvola di sfogo per l’odio e per il razzismo, i social hanno dato la possibilità agli utenti di perseguitare l’altro, fuori da ogni controllo, mentre sui social pullulano teorie cospirazioniste e fake news. Per non parlare della vendita di dati personali o il #10yearschallenge, che è solo un nuovo modo per ‘allenare’ le intelligenze artificiali al riconoscimento facciale. Tutte queste informazioni vengono passate ai governi: ora è possibile sapere cosa pensano le persone, come si comportano. Molti credono che non si debba avere paura dei social network, perché chi non ha niente da nascondere, le persone oneste, non devono spaventarsi se le autorità possono accedere in qualunque momento alle loro informazioni personali. Questa è una mentalità ottusa, roba da 1937.

Stai facendo un paragone con quegli anni?
Anche alla fine degli anni ’30 si credeva che una persona comune non avrebbe avuto problemi se la pensava in un certo modo, che non c’era nulla di male se chi era al comando veniva a conoscenza del tuo orientamento politico. Poi le cose sono cambiate, sappiamo tutti come.

Dopo lo scandalo Cambridge Analytica avevi deciso di chiudere la pagina Facebook dei Massive Attack. Da qualche mese, però, siete ritornati attivi: avete cambiato idea?
Usavamo Facebook soprattutto per parlare delle campagne di attivismo in cui siamo da sempre coinvolti, per sensibilizzare le persone su temi sociali per noi rilevanti. Non appena abbiamo saputo cosa si nascondeva dietro Facebook abbiamo deciso di cancellare la nostra pagina. Abbiamo deciso di riaprire la nostra pagina perché ora le persone sanno cosa condividere, sanno che i social non sono un genitore cui possono confidare tutto. Il primo passo verso la trasparenza è continuare a mettere in discussione i social e il loro modello di business, anche partendo dal basso come abbiamo fatto noi.

Foto press

Sono passati quasi dieci anni dal vostro album, Heligoland. Quando ne potremo ascoltare un altro?
Non saprei, non sono nemmeno sicuro che il formato disco sia ancora rilevante nella musica di oggi. In mezzo abbiamo prodotto due EP, che secondo me hanno avuto lo stesso effetto di un intero album: abbiamo pubblicato nuova musica, realizzato tantissimi video, suonato quei brani durante i nostri concerti. Ho avuto modo di collaborare ad alcuni progetti interessanti, con cui raccontare la società contemporanea come mai avrei potuto fare in un album di 10 tracce. Le persone non ascoltano più i dischi come negli anni in cui uscì Mezzanine, e credo che un lavoro come quello che ho fatto con Darren Aronofsky sul cambiamento climatico o con Thom Yorke sull’evasione fiscale nel Regno Unito abbiano riscosso molta più attenzione di quanta ne avrebbe riscossa un album.

E allora perché celebrare i vent’anni di Mezzanine? Qual è il significato di questo tour?
Con questo tour abbiamo deciso di realizzare qualcosa di completamente diverso da tutto ciò che avevamo fatto finora. Vogliamo raccontare come il mondo sia cambiato in questi vent’anni e come ciò di cui parlavamo nelle nostre canzoni abbia preso forma nella società attuale. Non si tratta di un’operazione nostalgica, ma di scavare quell’album nel suo dna: un viaggio anzitutto dentro i suoni e le atmosfere che lo compongono, ed è per questa ragione che sul palco porteremo anche i brani da cui estrassi i campioni per le canzoni di Mezzanine. È come se fossimo intrappolati in un loop temporale, da cui dobbiamo trovare il modo di uscire riflettendo su chi eravamo e cosa siamo diventati. Queste sono le domande che faremo a noi stessi e al pubblico, queste credo siano le ragioni per cui questo tour è interessante.

Hai suonato a Milano, città che ospita una mostra su Banksy. Sei passato a vederla? Sarebbe stato il colpo definitivo per chi pensa che dietro la bomboletta più ricercata della street art ci sia tu. 
Per fortuna ho una certa età e ho già visto tutti quei lavori (ride). Nell’arte contemporanea ogni artista è obbligato a diventare una merce se vuole fare carriera, e penso sia piuttosto buffo come stiano cercando di trasformare in un prodotto di consumo le opere di chi ha sempre dimostrato che il mercato dell’arte è obsoleto. Forse credono che basti mettere i lavori di Banksy dentro gallerie a pagamento per annullarne il messaggio, ma penso che così facendo amplificano soltanto il messaggio e danno risalto a un artista che ha sempre preso in giro chi vede le opere esclusivamente come un bene di consumo. È piuttosto divertente come le gallerie decidano volontariamente di essere prese per il culo.

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