Massimo Ranieri: «Non volevo portare 'Perdere l’amore' a Sanremo» | Rolling Stone Italia
Interviste Musica

Massimo Ranieri: «Non volevo portare ‘Perdere l’amore’ a Sanremo»

La rivalità con Morandi, l’amicizia con Charles Aznavour e Morgan, il sogno di condurre il festival, il nuovo album 'Qui e adesso', l'amore per il teatro. Il cantante si racconta

Massimo Ranieri: «Non volevo portare ‘Perdere l’amore’ a Sanremo»

Foto press

La chiacchierata con Massimo Ranieri parte ricordando Hollywood – Ritratto di un divo, musical che lo vedeva protagonista nei panni di John Gilbert, divo del cinema muto che, quando arrivò l’innovazione del sonoro, finì in disgrazia. «Non toccare quella ferita, ancora aperta perché quello spettacolo è durato poco. Ricordo le musiche di Gianni Togni e la regia di Patroni Griffi, di Peppino». Sì, perché oltre che un cantante e un conduttore, Ranieri è un uomo di teatro. È uno dei pochi esempi italiani di triple performer all’americana. In pratica può e sa fare di tutto. Uno così dovrebbe essere una star assoluta. Invece, non si capisce perché, è quasi sottovalutato. Ne abbiamo parlato direttamente con lui, persona simpatica, corretta, una vecchia volpe dello showbiz che sa bene come evitare tranelli e domande difficili.

Iniziamo a parlare del tuo ultimo lavoro discografico, Qui e adesso, che vede il produttore canadese Gino Vannelli come direttore artistico. Com’è iniziata la collaborazione?
Per la mia ammirazione verso di lui. Avevo un senso di colpa da anni.

Che tipo di senso di colpa?
Volevo ricantare questi brani, ma non ho mai avuto modo di farlo. Poco dopo averli incisi ho lasciato la canzone. Questi pezzi li ho registrati dal ’70 al ’74. E sono L’amore è un attimo, Per una donna, Immagina. Non ho mai avuto tempo di fare promozione.

Come mai?
All’epoca non c’erano due milioni di radio, ma solo la prima e la seconda rete nazionale. E ci davano anche molto spazio. Io, invece, ho iniziato a fare teatro con Peppino Patroni Griffi, nello spettacolo Napoli chi parte e chi resta di Raffaele Viviani. Da lì ho lasciato il mondo della canzone, di cui ho fatto parte dal 1969 al 1975. Mi sono dato al palcoscenico con Romolo Valli, Giorgio De Lullo, Strehler, Scaparro. Insomma, è stato un momento topico, è cambiata totalmente la mia vita. Volevo fare teatro e staccare con la canzone.

A cosa si deve questa scelta?
Beh in cinque anni avevo fatto quasi tutto: vinto due volte Canzonissima, due il Cantagiro, avevo partecipato a due Festival Europei e venduto circa nove milioni di dischi.

Tantissimo!
Eh, sì, se pensi che Rose rosse, all’epoca, vendette un milione e duecentomila copie. Adesso con duemila copie danno il disco d’oro e con cinquemila quello di platino. Pensa che Via del Consevatorio, che aveva venduto 350mila copie, fu il mio grande flop! (ride). Gli autori Giancarlo Bigazzi, Enrico Polito e Totò Savio si chiedevano come fosse possibile questa cosa, perché con Vent’anni, Rose rosse e Se bruciasse la città avevo venduto tra le 700mila e il milione e rotti di copie. Poi con Erba di casa mia mi risollevai.

Tu hai iniziato giovanissimo.
A 15 anni in tv, ma a 12, con il nome di Gianni Rock, facevo le feste di piazza a Napoli.

Ora quasi si scandalizzano se i ragazzini cantano.
Sì, ma c’è una piccola differenza.

Vale a dire?
Avevo fatto già molte lezioni di canto con il maestro Hejman, Dio lo benedica. Non potrò mai dimenticarlo: abitava accanto al bar dove lavoravo e prendeva mille lire a lezione. Ci andavo due volte a settimana, un giorno gli dissi che non sarei più potuto andare perché non avevo soldi, facevo il ragazzo del bar.

E lui?
Mi disse di non preoccuparmi, che le lezioni me le avrebbe date gratuitamente perché aveva intravisto delle qualità. E mi dava pure un piatto di pasta. Alla figlia diceva: «Ci fai un piatto di pasta che Gianni c’ha fame?». Capito? Poi mi esibivo nel bar, nei negozi dove portavo il caffè, mi sono fatto scuola da me fino a che, nel 1963, incisi dischi come Gianni Rock e andai in America con il grandissimo Sergio Bruni.

Dopo che successe?
Mi sono fermato e, grazie al maestro e professore di chitarra classica al conservatorio, Mario Ganci, venni a Roma col mio chitarrista, feci il provino e lui chiamò subito il produttore dicendo «C’è un ragazzino che ti può anche interessare». Andai in CGD in via delle Carrozze, feci un’altra audizione al pianoforte e mi mandarono a Milano davanti al grande Ladislao Sugar. Mi fecero un contratto e debuttai a 15 anni a Scala Reale, sulla prima rete Rai, con L’amore è una cosa meravigliosa.

Poi, nel 1969, è arrivata Rose rosse
Con Rose rosse è nato anche Metello che per me è stato uno shock.

Cioè?
Il regista Mauro Bolognini mi cercava in tutta Italia per provinarmi. Mi aveva visto in televisione al Cantagiro, al debutto di Rose rosse. Aveva già fatto audizioni a Jean Paul Belmondo e Pierre Clementi, ma non era convinto. Vide la mia faccia da operaio nel piccolo schermo. E chiese di cercarmi: secondo lui ero il suo Metello. Mi propongono questo film, ma non sapevo neanche chi fosse Metello. Insomma, sostengo il provino e vengo preso. Quindi per me Rose rosse rappresenta il brano che mi ha aperto la strada ai grandi registi: Giuseppe Patroni Griffi, Luchino Visconti, Franco Zeffirelli, giganti che ora non ci sono più. Adesso sono tutti nani.

Come andò con Metello?
Benissimo, vinsi il David di Donatello. Avevo messo punta del piede nel mondo del cinema italiano.

Che mi dici di Patata bollente?
Meraviglioso film diretto dal grande Steno. Mi ha dato la grande opportunità, già dalla lettura del copione, di essere portavoce di un messaggio di uguaglianza.

Come venne recepito?
Fu martoriato. Nel 1979 un operaio non poteva essere gay. La stessa sinistra lo massacrò perché racconta di un operaio che accoglie in casa un ragazzo malmenato da due mascalzoni. Nel corso del film scopre che il ragazzo in questione è omosessuale. Il Gandi, interpretato da Renato Pozzetto, è un uomo dall’animo buono, integro e integerrimo e, piano piano, resta interdetto, ma capisce – al contrario di quello che non comprende oggi l’ignoranza umana – che siamo tutti diversi. Va anche contro i suoi ideali, che scopre sbagliati a livello socio-politico, e accoglie il mio personaggio, Claudio, come un fratello. Fu una pellicola molto forte all’epoca ed è ancora di un’attualità pazzesca.

Ecco, cosa pensi della situazione attuale, visto che si sta parlando tanto anche del DDL Zan?
Credo che siamo ancora arretrati. Per me non esiste diversità. Che significato ha? Ognuno fa quello che si sente di fare, basta che parta dal cuore.

Ha suscitato molte polemiche il monologo di Pio e Amedeo sul politically correct e le intenzioni con cui si dicono parole offensive verso una categoria di persone.
A volte l’intenzione viene data con tenerezza, ma il problema è che il messaggio arriva pure ai ragazzini che magari dicono: «Se l’ha detto lui lo posso dire anch’io». Ai giovani bisogna fare capire la genesi di una parola: com’è nata, perché è nata, chi è stato il primo a dirla con un’accezione offensiva.

Torniamo al tuo progetto Qui e adesso. Quale brano ti rappresenta di più?
Quando l’amore diventa poesia, arrangiato in una maniera superba: mi ricorda la seconda partecipazione a Sanremo, quando avevo a 18 anni. Una canzone di voce. All’epoca, tra l’altro, essendo ragazzino, non conoscevo bene Mogol, che ha scritto il brano.

C’è anche Quando il sogno diventa inutile, scritta dall’indimenticabile Charles Aznavour.
Con Charles avevo un rapporto padre-figlio. L’ultima volta che l’ho visto, in Costa Azzurra, abbiamo preso un caffè. Era al pianoforte, mi ha detto che aveva composto questo pezzo e che me lo voleva regalare. L’ho fatta tradurre dal mio amico Gianni Togni e il risultato è molto bello.

Quanto ti manca Charles?
Mi manca la guida, il faro, perché me lo guardavo, me lo bevevo, questo piccolo grande uomo che sul palco era immenso, come Edith Piaf. Mi mancano i consigli, la sua sicurezza, la sua persona, la voglia di andare a bere un caffè da lui, sentire il suo «Massimo, ça va?».

Com’è nata la vostra amicizia?
Eravamo in una stessa trasmissione a Parigi, lui aveva sentito parlare di me, mi ha voluto conoscere. Siamo andati a cena insieme, grazie al suo manager italiano. Così è nata una bellissima amicizia, anche se non ci sentivamo tutti i giorni.

Un ricordo in particolare?
Oltre al fatto che amava il vino italiano, un giorno mi ha portato, con le macchinine da golf, tra i suoi ulivi di cui andava fiero. Così, per un suo compleanno, gli feci arrivare dall’Italia un ulivo con il biglietto “Spero non sfiguri tra i tuoi alberi meravigliosi”.

Torniamo al teatro. Patroni Griffi e Strehler cosa hanno rappresentato?
Peppino mi ha dato le chiavi per aprire la porta del teatro, Giorgio mi ha dato la patente. Peppino mi diceva «Tu hai da fatica’ co’ Giorgio», e io «Ma chi è ‘stu Giorgio?». E lui «Maro’ quanto sei ignorante: è uno che fa teatro adesso ed è ‘o chiù gruoss». Lo stesso De Lullo, mi invitava a lavorare con Strehler perché avrebbe potuto plasmarmi. Diceva che ero pregno, come una donna incinta. E poi, un giorno del 1980, Strehler mi chiamò.

E tu?
Pensavo fosse strano, non lo conoscevo. Ma da lì iniziò la mia padronanza con il teatro, perché Giorgio era ed è il teatro. Tutti dicevano mi avrebbe fatto crescere. E così è stato: ho fatto scuola, tanta scuola.

Hai voglia di tornare in teatro?
Molta. Siamo stati frenati dalla pandemia durante le repliche del Gabbiano di Anton Čechov per la regia di Giancarlo Sepe. A gennaio ci siamo fermati perché dovevo fare delle serate. E poi arrivederci e grazie.

Tu sei pro vaccino?
Assolutamente. Se ci vacciniamo tutti usciamo da questa tempesta devastante. Fra un mese faccio la seconda dose.

Passiamo alla tv. Non hai mai condotto il Festival di Sanremo…
Tutti gli anni fanno il mio nome, ma poi niente. Lo farei, è una cosa che mi inorgoglirebbe e manca nella mia collana di perle. Come dice Pino Daniele: i’ sto ccà.

C’è stato un momento in cui sei stato vicinissimo a condurre la kermesse?
Sì. Ai tempi di Mauro Mazza, che è stato un grande direttore artistico. Uomo capace di avere il coraggio e le palle di portare il teatro di Eduardo in televisione in prima serata. Un coraggio da leone e non finirò mai di ringraziarlo.

Come mai non andò in porto?
Non l’ho mai capito. Quell’anno lo fece il mio amico Gianni Morandi. Probabilmente, per quell’edizione, qualcuno più in alto di Mauro spingeva affinché lo facesse Gianni.

Ma questa rivalità con Morandi è vera o no?
Un tempo è stata vera, ma avevamo anche 45/50 anni di meno. Eravamo come Bartali e Coppi: una rivalità bella, ci spronavamo a fare meglio. Ogni volta che incidevo una canzone pensavo a cosa stesse facendo lui. Poi ci ritrovavamo al Teatro delle Vittorie per Canzonissima e ci divertivamo davvero tanto, passavamo i pomeriggi a giocare a scopa.

Quindi non era verissima, questa rivalità…
Ma no! Gianni è venuto pure in trasmissione da me, su Rai 3, e ci siamo messi a ricordare certi momenti.

Ti sei mai sentito sottovaluto? Sembra quasi tu faccia fatica a importi.
Sai perché?

Eh, perché?
Non riesco ad andare a bussare alle porte, tutto qua. Se un progetto lo penso adesso, va in porto dopo due anni, non dopo due mesi. Non sono uno che sgomita. Rispetto chi sta un passo davanti a me, perché magari è più intelligente. Credo ci sia spazio e tempo per tutti. Se uno vuole passare davanti, dico: «Prego».

Ho visto che a Porta a Porta, per il tuo compleanno, Morgan ti ha fatto degli auguri molto sentiti. Com’è nata la vostra amicizia?
Lui è un grande musicista e un intellettuale della musica, la sua immensa e sconfinata ammirazione verso di me mi colpisce molto. In due edizioni di Sogno e son desto l’ho invitato sempre perché è intelligentissimo, spiritosissimo, profondissimo e conosce tutto. E poi Marco è musica, è splendido.

Ma come vi siete conosciuti?
Per puro caso venne a trovare Mauro Pagani mentre registravo uno dei miei dischi napoletani. Mi disse che ero uno che cantava sul serio, lo ringraziai, e quando andò via dissi a Mauro che non mi aspettavo fosse così. Lo stesso Mauro sottolineò la sua sensibilità. Così, ogni volta che andavo a Milano lo chiamavo per un caffè, ma poi per i suoi mille impegni, non veniva mai (ride). Però l’ho voluto nel mio show Sogno o son desto. C’è un rapporto bellissimo che trasuda affetto da entrambe le parti. Lo penso spesso e quando lo vedo in tv mi fermo a guardarlo: provo tenerezza e verso di lui ho una stima infinita.

A proposito di tv. Non sei mai stato giudice in un talent show…
Mai. C’è un solo giudice ed è Lui, lassù. Io non giudico nessuno perché sono ancora giudicabile.

Ammazza che modestia!
Ma è la verità. Chi sono io per dire che uno è bravo oppure no? Potrei rovinare una carriera, un futuro. Ti rendi conto della responsabilità?

Ma ti hanno chiesto di fare dei talent?
Come no? E ho sempre detto: «no grazie».

Massimo Ranieri in studio con Gino Vannelli

Allora, sei bravo, talentuoso, modesto, parli bene di tutti. Qualche difetto ce lo avrai pure…
Sono così grazie a mio padre, un operaio dell’Italsider. Una persona discreta, dolce, simpatica e di un’onestà infinita, un grande lavoratore. Forse, paradossalmente, nel mondo in cui viviamo questo tipo di atteggiamento è un difetto. Ma va bene così. In un mondo devastato dalla prosopopea dell’io sono, ho sempre preferito quella dell’io sarei.

Quindi?
Io sarei Massimo Ranieri.

Ma almeno una delusione professionale l’avrai avuta…
Non le considero, perché poi fanno male. Il nostro mestiere è fatto anche di quello. L’ho imparato quando prendevo lezioni di tennis e buttavo la palla sulla rete. Il maestro mi urlava: «Dimenticala, non fissarti su quella palla». Non si deve pensare all’errore, ma solo se si fa del male. Mio padre diceva: «Fai bene e scuorda, fai male e piensace». Le delusioni fanno parte del cammino e ringrazio gli ostacoli che mi hanno fatto cadere perché sono quelli che mi hanno fatto crescere. A volte sono finito contro dei muri e mi sono fatto male, ma mi è servito per capire qualcosa. Grazie a Dio, le persone che mi ruotano attorno stanno lì con garza, cerotto e ovatta. Prima, però, bisogna guarire dentro. E a volte bisogna andare incontro al pericolo: io sto sempre in bilico sul burrone. Mi eccita.

L’ultimo pericolo corso?
Questo anno terribile mi ha obnubilato la mente. In realtà non riesco che a pensare a questo momento difficile, chiedendomi quando passerà, quando potremo lavorare di nuovo e avere contatto con la gente. L’unica cosa che mi interessa è uscire da questa impasse che si sta attenuando grazie alle vaccinazioni. Mi auguro che, entro ottobre/novembre, si possa entrare nei locali, abbracciarsi, riprendere la vita. Ridatecela, la vita. Non sai da quanto non vado a Napoli…

Ti manca?
A Napoli ho fratelli, cognati, sorelle, 19 nipoti e 21 pronipoti e sono anche trizio. Immagina che sofferenza non potere stare a casa, mangiare insieme e guardare la tv. Mi mancano le facce.

Qual è stata, invece, la tua più grande soddisfazione?
Il debutto con L’anima buona di Sezuan diretto da Strehler. Potrei dirti di Patroni Griffi, ma non avevo capito l’importanza, la chiave d’oro che mi aveva dato Peppino. Un’esperienza stupenda, anche se è stata travagliata.

In che senso?
Non stavo bene di voce, è stato meraviglioso,ma allo stesso tempo triste: sono andato in scena rauco – non sapevo ancora emettere bene la voce da attore – con una grande paura. Non ho assaporato il successo, quella volta. Invece con Strehler me la sono goduta. Vedere che a Parigi alla sua entrata si alzavano in piedi ministri, sindaci, vicesindaci, mi faceva gioire per lui che, in quel momento, rappresentava il grande teatro italiano.

E Perdere l’amore non è stata una bella soddisfazione?
A Sanremo ci sono andato perché Giampiero Artegiani, buon’anima, mi disse che mi avrebbe dato il pezzo solo se mi fossi presentato a Sanremo. E io gli dissi «No, io a Sanremo non ci vado».

Perché no, scusa?
Stavo lavorando, ero in scena con Rinaldo in campo.

Come ti sei convinto?
La canzone era davvero forte e accettai di andare al festival solo per fare ascoltare quel pezzo bellissimo alla gente. Infatti, dopo aver cantato, uscendo dall’Ariston, faccio al mio produttore del tempo: «Ok, fatto, ce ne andiamo…» E lui: «Ma che stai a dì? Tu devi ricantare dopodomani». E dopo essermi esibito nuovamente mi disse che saremmo dovuti rimanere ancora: potevamo rientrare nella terna.

Invece hai proprio vinto.
Ero frastornato, devo dire. Anche se la canzone che porto nel cuore non è Perdere l’amore Rose rosse.

Qual è?
Vent’anni. La interpretai a Canzonissima pochi mesi prima di compiere 20 anni. “Io credo che lassù, qualcuno aveva scritto già…” (canticchia) Mi emoziona sempre.

Ti parlerò d’amore, invece? Segnò la tua ultima partecipazione sanremese nel 1996.
Canzone molto bella, ma non ha avuto successo. Perché come al solito, finito di cantare, sono partito: debuttavo a Genova con Liolà. Mi sono preso una settimana di tempo, sono andato a teatro, ho fatto le prove e sono ritornato in scena. Pensa che, tornando a Perdere l’amore, sono stato l’unico vincitore che non ha partecipato a Domenica In il giorno seguente. Alle 5:00 del mattino stavo con la mia ex compagna, l’ho svegliata, mi sono messo in macchina, ho fatto una tappa a Roma. E poi a Napoli per festeggiare con la mia famiglia perché il giorno dopo debuttavo con Rinaldo in campo.

Senti, io ci riprovo: chi ti ha deluso tra i colleghi e su chi puoi contare?
Posso sempre contare su Morandi e Al Bano, compro pure il vino da lui. Di persone che mi hanno deluso ce ne sono tante, ma meno di quello che si possa immaginare. Quando si comprende la delusione per un pensiero distorto o un gesto, la si cancella, la si evita. E quella persona non fa più parte della tua vita perché non si è sulla stessa lunghezza d’onda, perché non è vicina ai tuoi ideali.

Nomi?
Non mi sembra carino.

Chi ti piace tra i giovani artisti di oggi?
Ascolto un po’ tutto, quando ho tempo. Mi piace molto Mahmood: ha una voce curiosa e testi bellissimi. Oggi, rispetto all’epoca mia, ci sono molti più cantanti, noi ci riconoscevamo. E poi io sono rimasto a Ornella Vanoni, Ornella è Ornella. La vedrò a metà giugno alla Milanesiana per parlare con lei di Strehler. Non vedo l’ora: è simpaticissima.

Hai da poco compiuto 70 anni. Se dovessi fare un bilancio che mi dici?
Sto diventando sempre di più come Giovanni Calone. Faccio questo mestiere perché, dentro di me, ho un bambino che ha voglia di giocare, di divertirsi ed è lui, piccolo com’è, a darmi la spinta da 55 anni. Mi ha detto di voler fare questo mestiere e io gli ho dato sempre ascolto. Oggi, però, voglio prendere un po’ più di tempo e assecondare a Gianni, anzi, a Giovanni.

Altre notizie su:  Massimo Ranieri