Massimo in Pericolo | Rolling Stone Italia
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Massimo in Pericolo

“Voglio solo una vita decente”, cantava due anni fa. Ora che ce l’ha, può pensare a un futuro lontano dalla strada. Eppure il nuovo album ‘Solo tutto’ sembra la colonna sonora di un film di Claudio Caligari: droga, sesso, palazzine, rabbia. E pensieri cupi, perché Alessandro Vanetti è un rapper spietato soprattutto con se stesso

Foto: Gabriele Micalizzi

Mentre gli altri rapper giurano di non-cambiare-mai, Massimo Pericolo la prende contromano: lui col successo è cambiato, eccome; non lo nasconde, anzi ci tiene a dire di avere «fatto i soldi», di essersi garantito «un futuro» lontano dalla strada, una stabilità economica, la casa di proprietà. Tradotto, Alessandro Vanetti da Brebbia – provincia di Varese, grande madre di ogni suo pezzo – non fa più la vita randagia del debutto di Scialla semper, disco di platino tutto rabbia e zero melodia, ultimo dei moicani (o primo dei controrivoluzionari) di una narrazione estrema di quartieri popolari, carcere, spaccio, tessere elettorali che bruciano e relative conseguenze, mentali e sociali che siano.

Questo secondo album, Solo tutto, è ancora un cumulo di droga e sesso e sangue e palazzine, certo, ma al contempo un percorso introverso in cui la produzione ruvida di Crookers dà campo aperto a una penna cruda e raffinata, introversa e riflessiva, attenta alla realtà che la circonda e con slanci cantautorali. Fra la cronaca nera di Fumo e il flusso di coscienza di Bugie, coesistono le anime di un ragazzo sensibile, con pensieri che sfiorano sociologia e relativismo. Lo noto anche mentre ci parlo: riflette a lungo prima di rispondere, è attento a ogni parola che ha scelto per i suoi testi, sorride se lo citi.

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Massimo Pericolo sulla digital cover di Rolling Stone. Foto: Gabriele Micalizzi

 

E non ha vergogna ad ammetterlo: il grido che chiudeva 7 miliardi – “Voglio solo una vita decente” – è stato esaudito, solo che adesso oltre all’hype di rito deve affrontare il rischio che la propria poetica si annacqui, che l’ispirazione e la rabbia svaniscano davanti al denaro, che alla strada si sostituisca la certezza borghese, che i vecchi fantasmi non se ne vadano poi davvero. Con la paura, insomma, di non perdere lo scettro di più puro dei puri, e che la gente non lo riconosca più. Esorcizza da sé: “Con qualche barra ho cambiato vita / non sono più quello di prima perché ora ho qualche prospettiva”.

Ecco, partiamo da qui: che è successo negli ultimi due anni?
È arrivato il successo, ed è arrivato che ormai quasi non ci credevo più. Quando ho conosciuto Phra (Crookers, nda) e ho firmato il contratto per Scialla semper ero in una profonda depressione, in cura. Perché da anni scrivevo, sognavo di combinare qualcosa con la musica, ci provavo, partecipavo ai contest… ma niente, mi ero rassegnato. La depressione mi ha colpito anche perché non sopportavo più la mia vita.

Poi?
Sembra superficiale da dire, ma è vero: sono arrivati i soldi. Ne ho guadagnati più del normale, e facendo quello che mi piace. Facevo una vita di merda, prima. Adesso non è più così.

Come ti senti?
Appagato a livello professionale, più tranquillo dal punto di vista economico. Senza l’acqua alla gola, insomma. Magari non ti aspetti te lo dica, eh, ma sono contento per esempio di avere un’assicurazione sanitaria: quest’anno mi sono operato in una clinica e sono stato rimborsato; non è una cosa da poco, per me. Prima non potevo permettermi una spesa del genere.

Foto: Gabriele Micalizzi

Ti sei chiesto perché è arrivato il successo?
Ho sempre saputo di essere bravo: semplicemente, è arrivato il momento in cui la gente se ne è dovuta accorgere. Mi ha dato una bella spinta inserirmi nel team di Phra, grazie al quale molti miei pezzi, che erano già su YouTube ma non se li filava davvero nessuno, hanno avuto un boom di visualizzazioni. Da una parte, credo che le persone ne siano rimaste attratte perché si rivedono nelle emozioni che ci metto dentro, nelle parole. A livello emotivo siamo tutti simili, e mi capita spesso che sui social qualche fan mi scriva proprio per dirmi questo, che si è ritrovato in un mio testo. Dall’altra parte, chi viene da una realtà anche diversa dalla mia resta affascinato da questi racconti di strada, di vita vissuta. Del resto, come uno è appassionato di film di fantascienza, può esserlo di queste storie.

Cito Casa nuova: “Quanto è difficile scrivere il secondo disco, soprattutto se col primo diventi ricco”.
Difficilissimo. Mi ero costruito una sicurezza a livello artistico, avevo trovato il mio posto nella musica, cioè rap disagiato, con Scialla semper, che in quella prospettiva raccoglieva le esperienze e il lavoro di una vita, sin dall’infanzia. E la gente ha capito chi fossi, da dove arrivassi. Quindi, il successo. Nel giro di un anno ho dovuto fare il secondo disco, con la necessità però di essere coerente a questa nuova realtà, tra l’altro vissuta pure a metà a causa della pandemia. Né sono un verginello, un dilettante. Non è stato facile raccontarla.

E non hai avuto paura che coi soldi potesse finire l’ispirazione?
Sì, ma questa è un’ansia più generica, che ho da sempre. Dai 16 anni in poi ho la paranoia costante di svegliarmi una mattina senza più talento. “Domani mi alzo e rappo come te”, dicevo in un pezzo (STAR WARS, nda). Se parliamo di rabbia, invece, non ho paura di perderla. Nel senso: non credo che il motivo del mio successo sia la rabbia in sé, ma l’emotività. Ho scritto anche pezzi tristi, riflessivi; non solo sfuriate. E poi mi incazzo ancora come una bestia, te lo assicuro.

Per cosa?
Soprattutto perché, nonostante sia famoso, la depressione c’è ancora. Per una vita mi sono detto: sei in difficoltà, hai avuto dei traumi, ci sta che non stai bene. Passerà. Ora invece sono ok, eppure la testa non va lo stesso. Ma in realtà è logico così: la depressione è una malattia, non è che passa da un giorno all’altro; uso le dovute proporzioni, però a un malato di cancro non è che chiedi “ma quindi, nonostante il successo, il cancro non ti è passato?”. Essere famosi non c’entra niente. E i soldi nemmeno. Quando non li hai, credi possano darti tutto; quando li hai, scopri che ti rendono ricco, cioè con tanti pensieri in meno, certo. Ma non felice.

Massimo Pericolo Foto: Gabriele Micalizzi

Foto: Gabriele Micalizzi

Dici: “La cosa peggiore di esser famosi è che si aspettano che ti comporti come se non lo fossi”.
È una semi citazione del film Joker, in cui il protagonista scrive su un diario che l’aspetto peggiore della malattia mentale è che la gente si aspetta ti comporti come se non l’avessi. Nessuno si aspetta che un paralitico cammini, ma che uno schizofrenico si atteggi in maniera regolare, spesso, sì. Perché si tratta di condizioni della mente, quindi meno tangibili. E lo stesso vale per l’essere famoso: uno crede sia una figata, in realtà ci sono pro e contro. Ma gli altri ne vedono sempre e solo una minima parte.

A te la fama cosa ha tolto?
La privacy. Io ho bisogno di solitudine: primo uscivo solo, giravo in macchina, andavo al bar e me ne stavo per i cazzi miei. Ora non lo posso più fare, anzi devo avere tutto programmato per rientrarci coi tempi, perché appena mi muovo qualcuno mi chiede una foto, un saluto alla cugina, un messaggio. Anche quando esco con gli amici, lo stesso. In un realtà di provincia piccola come la mia, poi, figuriamoci.

Mi ha colpito il fatto che tu non nasconda di essere cambiato, nonostante nel rap italiano sia una gara a chi cambia meno.
Per me cambiare vita e prospettive sul futuro è una conquista: prima che la gente mi accusi di averlo fatto, preferisco rivendicarlo io stesso, perché non me ne vergogno. E non credo che non cambiare mai sia positivo, anzi. Non dico di andare dove tira il vento, eh. Dico che quando non hai un cazzo ci sta che di domani non te ne freghi niente. Al contrario, quando hai la possibilità di costruirti un futuro, sei un cretino se resti in strada a sputtanarti i soldi.

Cos’è, quindi, la credibilità?
Credibilità è descrivere cose che effettivamente hai vissuto, che conosci. E io, avendo fatto una vita di strada, mi accorgo se il racconto del rapper che ascolto è vero o no. Vale anche per il cinema, dove spesso vedo autentiche buffonate sulla criminalità. Piuttosto mi piace l’iperrealismo, cioè quei film che raccontano la strada in maniera reale, perché chi li ha scritti magari viene proprio da lì. Amo L’odio, la sua (diciamo) versione italiana Non essere cattivo e Amore tossico, che è un film della madonna. Mi fanno sentire meno solo. E comunque, tornando alla domanda di prima, sono cambiato, certo, ma non significa che abbia perso i miei principi. L’amicizia resta fondamentale.

E poi, sei ancora a Brebbia.
La provincia non mi dispiace. Coi mezzi che ho adesso, me la posso persino godere. Da ragazzino volevo andarmene a Milano, per stare in un posto più stimolante, specie per me che facevo rap. Ma quel periodo ormai è passato, ora non me ne frega più niente, zero rimpianti. Milano l’ho conosciuta con questo lavoro e mi ha fatto apprezzare Brebbia, che non è solo cemento ma come tutta la provincia è, per esempio, anche boschi, laghi, condomini. Prima ero ingenuo, non me ne rendevo conto. Adesso ripenso persino con malinconia a quando organizzavamo dei rave nel bosco. C’è un po’ di magia in tutto ciò. L’ho capito col tempo.

Foto: Gabriele Micalizzi

Nel disco torni a parlare di carcere.
Non serve a niente. Serve prevenire la delinquenza, semmai. Intervenendo sulla disoccupazione, sull’educazione, nei contesti disagiati. Come può non essere un fallimento annunciato stipare un mucchio di disperati in quelli che chiamano quartieri popolari? Anche per quanto riguarda le forze dell’ordine, mi chiedo: sbirro, che facevi senza la mia delinquenza? Questo ragionamento è parte di un controsenso ampio. Se non sei malato, il dottore non lavora. Se non t’arrestano, l’avvocato resta a secco. E lo sbirro esiste per la criminalità. L’interdipendenza è un principio che dovrebbe spingerci all’empatia, consapevoli di essere l’uno legato all’altro. Invece no: ci dividiamo.

In ogni caso, zero credito alle istituzioni.
Zero, assolutamente. Ora che la mia vita è cambiata, pago parecchie tasse come artista, a partita Iva. E ci penso spesso: in cambio di cosa? Che mi offre questo Paese? Burocrazia, ospedali al collasso, la scuola che fa schifo. Tutto quello che le istituzioni producono è merda. Stiamo affrontando una pandemia, hanno ragione a dire di rispettare le regole, ma al tempo stesso lo Stato deve aiutare le persone che non lavorano da un anno. Al posto loro, sarei il primo a fare una rapina; come cazzo fai, sennò? Ripeto: le regole sono giuste, ma veniamo da una situazione di base in cui tu, in Italia, se le rispetti non vivi bene, anzi. Si puniscono i cattivi e non si premiano i buoni.

In Fumo racconti in prima persona la storia di uno che va a farsi giustizia, ma al momento di uccidere tentenna e alla fine viene ucciso lui. Ho pensato che fosse una metafora di come vedi l’Italia. Ma forse mi sbaglio.
Può starci, sì, anche se parliamo solo dell’ultima parte della canzone. Che è l’unica romanzata, visto che addirittura c’è la mia morte. Il senso non è proprio lì: piuttosto, Fumo racconta una dinamica di strada che appunto ho vissuto; di quando “la dai a credito”, qualcuno se ne approfitta e allora devi mettere giustizia perché quei soldi ti servono per mangiare. È uno stress. E scriverne mi ha aiutato a realizzare che finalmente ne sono fuori. Mi viene la pelle d’oca al pensiero di poterci tornare. C’ero dentro per bisogno. Giovane, incosciente, forte psicologicamente. Adesso, vedendo da fuori tutto ciò, la cosa mi spaventa parecchio. Ho una consapevolezza diversa.

Foto: Gabriele Micalizzi

Tiro in ballo due frasi da Bugie. La prima: “Vedo che la verità è soltanto un bluff, la sola verità è che non ce n’è”.
Vivere, per me, è come guardare un film: parti consapevole che è tutto finto, ma un certo punto ti scordi di questo ed empatizzi coi personaggi, ti spaventi, stai male. Per una sfiga dell’evoluzione, noi esseri umani abbiamo una coscienza, che non è diversa dalla capacità di un pesce di stare sott’acqua – nel senso: lui ha le branchie, noi la coscienza, sono solo caratteristiche differenti. Ecco: il problema è che la coscienza ci porta a voler attribuire un significato a ogni cosa, vita compresa. A cercare una spiegazione a tutto. Ma l’esistere come tale è il significato stesso della vita, senza trovarci altre chiavi di lettura. Quelle sono tutte cazzate che ci raccontiamo per sopravvivere.

“Preferisco chi si impicca a chi riscatta un fallimento facendosi una famiglia”.
Ho più rispetto per chi prende coscienza di quanto faccia schifo la propria vita fino a uccidersi, piuttosto che per chi si racconta stronzate per andare avanti. Sei solo, sei frustrato e allora sposi un’altra persona sola e disperata, per avere compagnia magari senza neanche rispetto e amore. Poi le cose vanno peggio e allora metti al mondo un figlio come se potesse salvare una famiglia. In realtà, rovini la vita anche a lui. Ogni genitore è responsabile di com’è il figlio, sia a livello psicologico, per l’esempio che gli dà, e sia a livello fisico. Cioè: se tuo figlio è brutto, è colpa tua (ride). Al di là di questo, procreare è arrogante, perché spesso non si pensa alle difficoltà che trasmetti ai figli. Per esempio, chi soffre di depressione dovrebbe pensarci a lungo prima di mettere al mondo un bambino, perché poi deve essere presente, mica scostante. È come chi si prende il cane per non stare da solo e poi guasta l’esistenza anche al cane stesso.

Non pensi mai di diventare genitore?
Penso con fascino all’idea di fare un piccolo me, come tutti. Ma poi realizzo che è solo narcisismo, voglia di guardarsi allo specchio. Mi rendo conto che molti la pensano in maniera diversa, ma io sono fatto così e non posso farci un cazzo.

Il rischio, a pensarla così, è deprimersi.
Lo so. Alterno euforia a sconforto, momenti in cui mi sento un figo ad altri in cui sono convinto che la vita non abbia senso. Solo che questa consapevolezza, alla fine, torna a galla anche quando sono felice, per ribadire che quella lì è la verità, che niente ha senso davvero. Quando sei depresso vedi le cose come stanno davvero.

Essere famoso ti ha portato nuove ansie?
Se non fossi mai diventato famoso, mi sarei rassegnato a una vita normale. Adesso ho paura che se il successo finisce, muoio con sulle spalle la figura di merda di avercela fatta e poi aver perso tutto.

La vita ordinaria non ti piace proprio, comunque.
Apprezzo chi riesce a vivere bene così. Io non sono fatto per avere un padrone, però mi rendo conto che c’è chi per indole è incline ad averne uno. Ma la linea è sottile: non pensando ci sia un libero arbitrio, alla fine siamo tutti sotto un padrone.

Foto: Gabriele Micalizzi

Che ruolo ha la droga nella tua vita?
Ha rappresentato una quotidianità, una normalità in cui ho vissuto a lungo. Ho visto gente rimanerci secca, così come sballarsi. Anche per questo andrebbe analizzata, non inquadrata solo per i suoi lati negativi. Può essere autodistruzione, certo, ma anche alternativa alla noia, puro divertimento. Il discorso è ricco di sfumature. Sicuramente, è un mezzo potente per evadere da contesti come il mio, anche perché è alla portata di tutti. A maggior ragione andrebbe quindi controllata, spiegata, studiata. Non certo proibita.

E l’amore?
Il rapporto con l’altro sesso è stato una vera e propria consolazione. Per questo non l’ho vissuto in maniera equilibrata, ma totalizzante. Come fosse droga: se c’è lei sto bene, se non c’è lei sto male. Nel mio contesto, è stato questo. Ma per altri, che magari vengono da situazioni diverse, con necessità diverse, capisco possa essere questione di rispetto, condivisione di spazi, sentimenti.

Il sesso?
Non ha lati negativi (ride). È un bisogno primario. E per me, tutto è condizionato dal sesso, da come ti vesti alla necessità di approvazione. Inconsciamente, qualsiasi cosa fai è per accoppiarti.

Parliamo di soldi.
Sono un bisogno, anche loro. Che deriva dall’esigenza di stare bene. Mi sento più realizzato, ora che ne ho. Posso aiutare mia madre, finalmente, nonostante lei in passato non sia riuscita ad aiutare me.

Ti hanno cambiato?
Mi hanno reso più creativo: posso assaggiare mille cibi diversi, fare vacanze in giro per il mondo, conoscere. Perché viene meno quel limite che ti auto-imponi per non soffrire quando non ne hai. Ti faccio un esempio: grazie a un documentario Netflix, ho scoperto che in Toscana c’è una macelleria famosa; ho organizzato una gita lì, siamo stati benissimo e alla fine, a sorpresa, abbiamo speso solo 50 euro a testa. Un cazzo, praticamente. Di certo non una cifra da ricchi. Ma se non avessi avuto i soldi che ho ora, non avrei mai neanche preso in considerazione l’idea di andarci. Perché pensavo che tanto non me lo sarei potuto permettere, in nessun caso. Col denaro scopri il mondo. E impari a spendere. Io non sono un tipo che sputtana i soldi: il mio primo pensiero è metterli da parte.

Foto: Gabriele Micalizzi

Quindi non è neanche vero che una vita più tranquilla ti fa scrivere peggio.
Non è quello che fa la differenza, quando scrivi. Conta come ti senti tu dentro la vita che fai. A me può piacere la mia vita di adesso e questo può essere stimolante per la mia scrittura. Non c’è niente di male. E ripeto, questa nuova vita mi dispiace meno di quella di prima. Sarei un bugiardo a dirti il contrario. Anche se ammetto che una volta, per certi versi, era più facile, nel senso che avevo la libertà di lasciarmi andare, di non pensare a niente. Ma perché vivevo male. Non prendiamoci in giro: quella in cui non hai riguardo per niente, che vita è?

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