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Mashrou’ Leila, arriva in Italia la band simbolo della Primavera araba

Nel 2011 sono diventati il simbolo dei chi cercava libertà nelle piazze. Ma non vogliono essere artisti impegnati: «Le canzoni non sono un'arma»

Musica ribelle: a volte è una metafora, altre è un dato di fatto. Ad esempio nei Paesi islamici, dove alcuni argomenti e sonorità sono da sempre tabù: se ascolti certe canzoni sei un outsider, se le scrivi e ci metti la faccia, rischi grosso.

Ma il gioco vale la candela, come dimostrano i Mashrou’ Leila, band nata all’università di Beirut che con il suo indie rock autoprodotto ha guadagnato milioni di fan, trattando argomenti scomodi per il mercato arabo – libertà, protesta, ma anche amore omosessuale, tema caro al frontman Hamed Sinno, dichiaratamente gay.

Dopo la copertina di Rolling Stone (Middle East, immagine qui sotto), conquistano il vecchio continente: anche se cantano in arabo il loro tour europeo è un trionfo, tanto che la data del 15 novembre alla Royal Albert Hall di Londra è sold out. Abbiamo incontrato Hamed alla vigilia delle tappe italiane.

La musica araba che arriva da noi sembra tutta lustrini e gorgheggi. Ma è davvero così?
C’è un’industria pop tradizionale molto radicata, ma ci sono anche ottime band indie: per scovarle bisogna scavare a fondo tra i blog.

Nel 2013 avete lanciato l’hashtag #OccupyArabPop, che è diventato virale e vi ha reso la band-simbolo della Primavera araba: qual era lo scopo?
Chiedevamo libertà di espressione, come gli hashtag che invitavano i cittadini a occupare le piazze. Il popolo li ha usati per scardinare il sistema e renderlo più democratico, abbiamo fatto lo stesso con la musica lanciando una campagna di crowdfunding per il nostro ultimo album, Raäsuk. Non volevamo una casa discografica: ci avrebbe imposto di omologarci per eliminare i fattori di rischio, anche se c’è un sacco di gente che vuole ascoltare la nostra musica.

Tutto il mondo è paese, insomma: sia da noi che da voi, l’industria discografica non ama le novità.
Esatto. Ovunque c’è gente che crea nuove sottoculture senza neanche saperlo, semplicemente facendo ciò che ama: quando l’industria si accorge che funzionano, cerca di inglobarle e controllarle. Noi non lo accettiamo.

Il vostro primo concerto è stato una jam all’università di Beirut, dopo il conflitto civile del 2008. Cosa vi ha spinto a organizzarla?
Sentivamo il bisogno di suonare per sfogare i sentimenti di quel periodo. Ma non puoi davvero cambiare le cose facendo musica; non puoi puntare le tue canzoni come un’arma contro chi non la pensa come te. Proprio per questo non vogliamo essere per forza una band impegnata, ci limitiamo a non autocensurarci e a batterci per le cause che ci stanno a cuore: politica, rifugiati, Aids, tossicodipendenza…

Dici spesso che le vostre canzoni non sono contro qualcuno o qualcosa, ma parlano semplicemente dei problemi dei vostri coetanei.
Sono problematiche universali. Il fatto che così tanti ragazzi in medio oriente si riconoscano nei nostri testi è davvero importante, per noi.

A proposito, perché hai scelto di dichiarare la tua omosessualità?
Nei Paesi arabi ci sono molte persone gay o transgender, ma spesso è considerato illegale, quindi nessuno lo dice. Da ragazzino mi sentivo meno solo vedendo che esistevano altri come me, fosse anche solo il personaggio di una sit-com americana. Ecco, vorrei fare sentire meno soli i ragazzi gay che mi ascoltano.

Tornando per un attimo alla politica, l’Isis sta minacciando già da un po’ di invadere il nord del Libano…
Cerchiamo di non pensarci troppo, anche se ovviamente siamo spaventati dalle notizie che arrivano. Il nostro è un Paese molto volubile, non sai mai cosa potrebbe succedere, ma sono sicuro che noi libanesi troveremo un modo di affrontare tutto questo.

Le date italiane dei Mashrou’ Leila:

6 novembre – Teatro Candiani di Mestre (Venezia)
7 novembre – Barezzi Festival (Parma)
9 novembre – Circolo Magnolia (Segrate, Milano)

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