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Marracash, il lato oscuro dell’hip hop

L’epoca d’oro del rap è finita? Forse. Fabio Rizzo non vuole parlare di politica o di amore. Di droga sì. E di ciò che è morto: centri sociali, Mtv, 99 posse...
Fabio Rizzo, in arte Marracash, fotografato da Giovanni Gastel

Fabio Rizzo, in arte Marracash, fotografato da Giovanni Gastel

A 18 anni, ho iniziato a fare rap perché non volevo essere né Nek né Laura Pausini. Anzi, volevo rappresentare l’alternativa a tutto ciò. In questi anni, però, il rap italiano è diventato come loro e come il pop commerciale e io non potevo più farne parte». Parole di Marracash. A fine 2013 doveva uscire il suo album Status (Universal). Poi è diventato inizio 2014, quindi primavera dello stesso anno. E, a quattro anni di distanza dall’ultimo King del rap (e nell’hip hop son davvero tanti anni), è uscito finalmente il 27 gennaio 2015.

Che cosa gli sia successo in quel periodo, per fargli decidere di interrompere i lavori dell’album, è intuibile dal primo brano che ha deciso di farmi ascoltare, Crack. Basi cupe, ossessive, potenti, curate da Blatta e Inesha, duo di dj-produttori catanesi. In rima butta un disagio ben poco velato: «Tutto mi fa venire voglia di fumare crack, le rane fanno cra-cra-cra».

Per rompere l’impasse, Marracash in questi mesi è anche volato a Londra dove è rimasto per tre mesi, nel pittoresco e multiculturale quartiere di Brixton, e ha fatto un lungo viaggio in Oriente, tra Cambogia e Thailandia.

«Stavo scrivendo i brani nuovi e a un certo punto mi sono fermato: è questo quello che voglio veramente fare? Ero nauseato da quello che vedevo attorno a me. E la colpa è di tutti: degli artisti, del pubblico, dei media. Di MTV, che non ha più il ruolo che aveva negli anni ’90 di scopritrice di band underground, e anche del tuo giornale: non esiste una vera critica in Italia».

Non pensi che la scelta di intervistare un artista piuttosto che un altro sia un modo di esercitare la critica?
No, non è quello che percepisco. Soprattutto se parlate di un artista solo perché è un personaggio. Comunque sono contento che il mio album non sia uscito nel momento d’oro dell’hip hop, 2012-2013. Certo, tutti hanno potuto godere di vendite alte, ma il rap italiano ne è uscito annacquato.

Quindi per te è arrivato il momento di salutare l’età dell’oro dell’hip hop italiano? Non lo ammette quasi nessuno dei tuoi colleghi…
Sì. Gli album di hip hop hanno iniziato a non schizzare più subito al primo posto in classifica. Tra poco svanirà come un’onda, come capita per tutto ciò che va di moda e che piace ai giovanissimi.

In molti sostengono che Status potrebbe determinare il corso dell’hip hop in Italia. Se il tuo album riuscirà a conquistare anche i tuoi coetanei potrà avere un seguito tutto il genere, se no vuol dire che è arrivato al capolinea?
Potrebbe essere, non lo nascondo. Di sicuro, senza volerlo, ho creato un’aspettativa incredibile. Su Twitter potrei annunciare di aver vinto il Nobel per la Pace e la gente mi scriverebbe: «Va bene, ma ’sto album quando esce?». Io aspettavo di aver finalmente qualcosa da dire e di capire come farlo. Per esempio, se hai 20 anni non puoi essere paraculo, fare le foto con la Panicucci o chiunque altro, e pensare solo ai soldi. Devi avere voglia di spaccare il mondo e di essere rivoluzionario! I motivi per cui è nato il rap in Italia sono andati perduti.
Cioè i motivi politici per cui facevano rap gli Assalti Frontali, i Colle der Fomento…

No, non mi riferisco a quella scena romana, ma alla prima rinascita dell’hip hop arrivata nel nostro Paese. Attenzione: io non critico il fatto che l’hip hop sia diventato pop, ma la mancanza di ispirazione. Torniamo al discorso di prima: se scrivi una canzone d’amore hip hop piena di banalità, in che cosa si differenzia rispetto al pop lacrimoso?

La politica è morta e non c’è niente da dire che non sia banale e noioso.

Non pensi che potrebbe essere utile se voi rapper tornaste a parlare di politica?
Ma stai scherzando? La politica è morta e non c’è niente da dire che non sia banale e noioso. Lo ha fatto Caparezza per anni, lo fanno i comici, giustamente. Tiriamo fuori i nomi: Fedez parla di politica e si scontra con i politici su Twitter, ma che senso ha?
Parlare di politica non significa per forza criticare chi la fa.
Sì, lo so. Però, vedi, se parlo del mio quartiere ed è una situazione che vivo dall’interno può avere senso. Oppure ieri sera ho visto Her, il film di Spike Jonze che racconta di tecnologie e profonde solitudini. Mi sembra più politico e rivoluzionario di tante parole inutili che vengono spese.
Eri partito dai centri sociali: adesso li disconosci completamente?
I centri sociali sono morti. Come è morta la MTV degli anni ’90 oppure gruppi come i 99 Posse.
A Milano, quindi, ora che posti frequenti?
Questo è un problema, è ancora Crack. Non so più dove andare, mi sento a posto soltanto in casa. Non ci sono più luoghi aggregativi dove godere di una cultura alternativa.
Nemmeno nella tua Barona? (il quartiere popolare milanese dove vive da anni, ndr)
Lì è tutta un’altra cosa, ho un rapporto privilegiato con le persone: mi fermano anche le vecchiette e non (solo) perché sono famoso. In Barona non ti accorgi che è arrivata la settimana della moda, per fortuna, e nemmeno che arriva Natale, perché non ci sono soldi per le luminarie. Comunque, nonostante tutto, Milano non mi dispiace, soprattutto rispetto ad altre città italiane è molto più creativa. Roma, per dire, è il simbolo dell’Italia immobile e che non ce la fa.
In questo album parli tanto di droga: dopo Crack, c’è anche Sushi e Cocaina.
Ne parlo solo perché rappresenta l’ossessione, la voglia di isolarti dalla realtà circostante e quindi di sparire. Ma Crack non è certo un brano che parla di droga. Ci sono situazioni talmente brutte da noi che ti fanno venire soltanto voglia di scappare. Prendi la telenovela Un posto al sole che mia madre guarda da 16 anni. Ma come si fa? È così brutta, così recitata male… La serie tv Gomorra, invece, avrà anche al suo centro la droga, ma non ti fa certo venire voglia di drogarti!

Ci sono situazioni talmente brutte da noi che ti fanno venire soltanto voglia
di scappare.

Tra i featuring dell’album ci sono Salmo, Fabri Fibra, Guè Pequeno, alcuni tuoi artisti del collettivo Roccia Music. E poi c’è Tiziano Ferro, un artista mainstream che non pare mai particolarmente a suo agio sotto le luci della ribalta. Non a caso, il vostro brano, dai richiami soul, si intitola Senza un posto nel mondo: avete diverse affinità o sbaglio?
Ci siamo scritti delle mail davvero significative, ci sono diverse situazioni che fanno soffrire entrambi e ci avvicinano. Io però non vorrei continuare a lamentarmi: chi lo fa, poi finisce per sembrare un frustrato.
Perché ce l’hai così tanto con i social network? Gli hai dedicato anche una canzone, Sindrome depressiva da social network.
Vedi, mi chiedo perché chiunque si senta in diritto di esprimere un giudizio sulla tua musica, senza averne le competenze. E quindi mi sono anche chiesto perché io debba regalare al mondo le mie impressioni. Per esempio, ieri dopo aver visto Her mi sono chiesto se andava la pena twittare quanto mi fosse piaciuto. E la risposta è stata no.
Con la tua etichetta Roccia Music come va? Sei riuscito a realizzare il collettivo di management che sognavi e che curasse tutti gli aspetti legati a un artista?
Sì, ne sono soddisfatto, anche se non ho certo trovato la gallina dalle uova d’ora. Ho scelto i miei artisti perché mi piacevano, ma direi che non sono per nulla commerciali.
Ma davvero non te ne frega niente di fare business o stai solo fingendo spudoratamente?
Ho capito una cosa: il business è una conseguenza, non il fine. A me piace occuparmi di musica e delle altre attività legate, compresa la mia linea d’abbigliamento KG, perché mi permette di esprimermi. Ma se ci pensi, a cosa serve fare soldi in Italia? Per poterti drogare di più e avere più fighe? No, grazie. Io voglio una cosa: amare e odiare. E farlo intensamente.

Questa intervista è sul numero di dicembre/gennaio di Rolling Stone.
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