Marky Ramone, veloce forte sincero | Rolling Stone Italia
Due impagabili minuti di rumore

Marky Ramone, veloce forte sincero

Intervista a un punk-rocker vero alla vigilia del tour italiano. I giorni con Richard Hell, il CBGB’s, la band che diventa famiglia, i Ramones che oggi sarebbero headliner dei grandi festival, il punk nel 2025

Marky Ramone, veloce forte sincero

Marky Ramone

Foto: Marky Bonetto

In un mondo dove le icone spesso svaniscono o si trasformano in simboli distorti di ciò che erano, Marky Ramone resta fedele a sé stesso. Leggenda vivente del punk-rock, batterista storico dei Ramones, ma prima ancora di Richard Hell e dei suoi Voidoids, porta avanti la sua missione: suonare veloce, suonare forte e soprattutto suonare sincero.

Oggi Marky vive tra New York e Castiglion Fiorentino, un piccolo paese in Toscana dove ha trovato una nuova casa e una nuova dimensione. Raggiunto con una rocambolesca telefonata su WhatsApp, ne è nata una conversazione in stile Ramones. Dai primi dischi ai ricordi al CBGB’s, dall’eredità musicale ai giovani fan di oggi, Marky condivide riflessioni lucide su una carriera fatta di rullate secche, giacche di pelle, famiglia punk e coerenza. Perché non è solo un vecchio batterista, ma uno degli ultimi testimoni viventi di un’epoca che ha cambiato il rock per sempre e che ha ormai perso quasi tutti i suoi protagonisti.

Con un EP uscito da poco e un tour che tocca ancora l’Italia, partendo il 9 luglio dal Circolo Magnolia di Segrate (MI), Marky ci ricorda ancora che due minuti di rumore sincero valgono più di mille compromessi.

So che sei in Italia in questo momento, ormai passi gran parte del tuo tempo qui. Come mai hai scelto proprio Castiglion Fiorentino?
Qualche anno fa ho partecipato a un evento dedicato a una persona scomparsa troppo presto e mi sono innamorato di questi luoghi. Poco tempo dopo ho acquistato una casa qui. È un posto tranquillo, molto diverso da New York. Vado avanti e indietro per non avere il tempo di impazzire in nessuno dei due luoghi, che sono decisamente antitetici. Mi piacciono l’atmosfera, la vista, la gente. Adoro il cibo. È tutto più semplice. È bello avere due vite: una in città, una nella pace.

Sappiamo perfettamente cosa dobbiamo aspettarci dagli show dei tuoi Blitzkrieg, però hai anche pubblicato un nuovo EP e hai una storia che va oltre i Ramones. Hai intenzione di regalare qualcosa da altre tue esperienze o rimarrai esclusivamente sul materiale classico?
Sì, ho pubblicato un EP in vinile con cinque cover, nello stile in cui trattavamo i pezzi altrui con la band e come ho fatto con What a Wonderful World per l’ultimo album di Joey Ramone. Ho scelto pezzi che amavo, come Octopus’s Garden dei Beatles o It’s Not Unusual di Tom Jones, e altri che magari non hanno mai fatto parte dei miei ascolti ma che si prestavano alla perfezione ad essere in qualche modo ramonizzati. Roba tipo Dean Martin e Frank Sinatra. È punk, veloce, divertente. È l’unica cosa che so fare. Però, per risponderti, gli show sono sempre gli stessi, com’è giusto che sia: 30 canzoni, tutti classici dei Ramones. Suonati come devono essere suonati.

Quindi i Beatles fanno parte della tua formazione musicale…
Conosci qualcuno che dica il contrario? Mente. Fortunatamente nel tempo la gente ha compreso l’importanza di Ringo, prima al massimo si diceva: «Eh, ma pure Harrison era un genio». Ringo era il miracolato. Per i batteristi punk, invece, era il vero genio dei quattro. A 12 anni ascoltavo praticamente solo i Beatles e la roba prodotta da Phil Spector. Però un po’ tutta la British invasion fu fondamentale, soprattutto gli Who, i Kinks e gli Yardbirds. Parlando di batteristi adoravo Buddy Rich e Dave Brubeck, ma mi sono appassionato subito al jazz, perché lì ho trovato musicisti eccezionali. Ho sviluppato il mio stile nel tempo, anche se molti credono che sappia solo pestare. Un po’ la maledizione di Ringo.

I Ramones sono passati alla storia, tra le altre cose, per la loro dedizione ai concerti. Fino alla fine avete suonato ovunque e senza sosta, senza curarvi di dischi venduti, capacità delle location o altro. In questo senso, per te è come se non fosse cambiato nulla.
Era l’unica cosa che potevamo fare e avremmo potuto farlo anche in seguito, ma i nostri album non vendevano e i costi erano troppo alti per proseguire a quei ritmi. Poi, pochi anni dopo, se n’erano andati tutti. Anche oggi non venderemmo dischi, però abbiamo raggiunto lo status di leggenda e credo che potremmo riempire con facilità i posti più grandi al mondo. È piuttosto triste. Io continuo a fare esattamente quello: suono dappertutto e per chiunque voglia sentirmi, anche in feste di qualsiasi tipo. Quando mi dicono se lo faccio per soldi mi viene da ridere e dico: «Amico, ma hai presente dove suono?». Mi piace farlo. È la mia vita. Non suono per soldi. Non chiamerei mai la mia band Ramones, sarebbe un insulto agli altri. Purtroppo, ci sono band là fuori con un solo membro originale che usano ancora il nome. Anzi, persino qualcuna che non ha nemmeno più nessuno di chi la fondò.

Marky Ramones Blitzkrieg - New York, New York (Official Music Video)

Non facevi parte della prima formazione dei Ramones, ma sei entrato ai tempi del quarto disco. Non tutti sanno però che intanto contribuivi a creare la loro stessa estetica con Richard Hell. Credi ci sia un ordine di importanza tra chi bazzicava il CBGB’s ai tempi?
Blank Generation ha avuto un’importanza pari a quella del debutto dei Ramones, è indubbio, ma in particolare dal punto di vista iconografico, perché poi i punk inglesi hanno fatto loro quel tipo di vestiario che in Europa è diventato sinonimo di punk. Ai tempi a New York nessuno seguiva un modo di vestirsi, io per dire ero più vicino a quello dei Ramones fin da principio, perché di quello disponevamo: un paio di jeans, una maglietta e delle scarpe da tennis. Poi c’erano i Dolls che si vestivano da donne, per dire. Eppure il giro era lo stesso, il pubblico era per lo più composto dagli altri musicisti e da qualche scoppiato come noi. Va detto che i Ramones al CBGB’s hanno fornito un’identità intorno a cui tutti potevano crescere. Richard poi ha fatto parte di gruppi fondamentali come Television e Heartbreakers, ma di fatto in solitaria ha fatto due album, i Ramones sono durati 22 anni.

Cosa ricordi della registrazione di Blank Generation? Com’era New York durante la prima ondata punk?
Era primavera-estate del ’77, agli Electric Lady Studios, quelli di Hendrix. Avevamo già inciso un EP l’anno prima con la Ork Records, ma di fatto eravamo degli squattrinati. Lavoravamo la notte per tagliare i costi, quando gli altri gruppi non c’erano e uscivamo la mattina quando gli altri andavano in ufficio a lavorare. Due o tre take per canzone, tutto fluiva. Non c’era nulla di simile a New York allora, noi eravamo gli sconfitti designati, in radio passavano quella cazzo di disco music e soft rock che ci rincoglioniva con brani che avrebbero potuto finire dopo due minuti, ma duravano un’infinità solo per via degli assoli. Noi volevamo tornare alla roba di Chuck Berry, Little Richard o Jerry Lee Lewis, canzoni da due minuti e mezzo. Dirette, sincere.

Ai tempi per te si trattava quindi solo di suono e ritorno alle origini, non aveva alcuna valenza culturale o di altro tipo?
All’inizio era solo musica. Non volevamo diventare celebri o altro, ci eravamo solo rotti le palle di quello che ci veniva proposto e capivamo che intorno a noi, dove eravamo cresciuti, non eravamo gli unici a pensarlo. Volevamo parlare di quello che ci trovavamo a vivere. Non c’era tempo per pensare, eravamo costretti ad agire dalla mattina alla sera. Chiaramente non sapevamo che sarebbe diventato un movimento culturale, non avevamo nemmeno i mezzi per comprenderlo. Poi lo è diventato, si è storicizzato e, come ogni cosa, nel bene e nel male è diventato molto altro. Altri sicuramente ci hanno fatto i soldi.

Foto: Fadil-Berisha

Vi siete sempre definiti una famiglia, ma sappiamo bene che all’interno della band ci sono stati sempre problemi, anche molto grandi. Tu come ti ponevi in quelle situazioni?
Quella della famiglia non era una favoletta o un cliché. Ti dirò che forse abbiamo rappresentato una famiglia, il primo vero nucleo che una persona conosce nella vita. Ogni membro della band aveva solo gli altri a cui fare riferimento, chi per un motivo, chi per l’altro. Quando sono arrivato nel 1978 ho capito subito che era quasi un gruppo di auto-aiuto. Poi chiaro che si litigava, anche pesantemente. Si litiga tra coppie, si litiga tra amici e si litiga tra fratelli. Però poi quando dovevamo suonare, suonavamo al massimo delle nostre possibilità. Nessun viaggio su auto separate o stronzate del genere. Insieme anche quando non ci si poteva sopportare.

Sei il batterista che ha suonato di più con i Ramones. Hai un album a cui sei più legato?
Road to Ruin, senza dubbio. Banalmente perché il primo che ho registrato, ma anche perché dentro c’è I Wanna Be Sedated, il nostro singolo più venduto. Poi End of the Century, che registrammo nella follia più assoluta con Phil Spector e credo che a livello di coerenza tra brani sia uno dei nostri dischi migliori di sempre. Di quelli precedenti al mio arrivo direi Rocket to Russia. Ma è come scegliere tra i figli.

Prima dicevi che forse oggi sareste headliner in grandi locali, ma avete annunciato lo scioglimento perché i vostri dischi non venivano considerati da media, addetti ai lavori e, di conseguenza, dal pubblico generalista.
Eravamo troppo diversi, le radio non ci passavano perché pensavano fossimo una gang o qualcosa del genere, che fossimo realmente pericolosi. I testi erano troppo diretti, non si comprendeva il lato ironico, che comunque era presente in maniera massiccia. A metà anni ’90, col fenomeno del nuovo punk in ascesa, anche i Pistols sono tornati insieme per racimolare un po’ di soldi. Noi abbiamo annunciato che, se non avessimo venduto abbastanza con l’ultimo album, avremmo mollato. Pensavamo fosse giunto il momento di raccogliere qualcosa, ma non andò così. Oggi, invece, molti album valgono oro. I Wanna Be Sedated ha appena venduto un milione di copie. Meglio tardi che mai.

Ramones - I Wanna Be Sedated (Official Music Video)

Anche perché poi venivate indicati dalle nuove leve come loro grande influenza. E non solo dal punto di vista musicale. Doveva apparire ancora di più come una beffa.
Abbiamo influenzato gente come Green Day, Offspring, Rancid, Pearl Jam. Musicalmente, abbiamo lasciato qualcosa di duraturo. In quanto all’immagine, era solo quello che indossavamo a Brooklyn o nel Queens, come ti dicevo. Niente moda, niente stilisti. Sono fiero dell’amore di Lemmy. I Motörhead, concettualmente, ci assomigliavano moltissimo.

Hai scritto un libro sulla tua vita. Qual è stata la parte più difficile da rivivere? C’è stato qualcosa di così doloroso da non essere riuscito a metterlo?
Ci sono state diverse cose difficili da trattare, come la fine della band, la morte degli altri e dei miei genitori, ma ho cercato di mettere tutto. La parte più difficile da scrivere è forse quella relativa al periodo della disintossicazione. È stata dura, ma era importante raccontarlo per aiutare chi affronta gli stessi problemi. Tutto nel libro è vero. Mio padre diceva: «Di’ la verità, perché ci devi convivere».

Hai rimpianti?
Solo uno: avrei voluto smettere di bere un po’ prima. Non mi drogavo, non fumavo. Solo birra, ma senza fine. Ma l’importante è esserci riuscito.

Sei molto attivo sui social, non a caso il pubblico ai tuoi concerti è composto più da giovani che da gente della tua età. Cosa pensi del punk di oggi?
Servirebbe più originalità. Tatuaggi e pose non bastano. Tutti suonano uguali, stesse batterie, stessi fill, stessi assoli veloci. Ma mancano sentimento e novità. Servono suoni freschi.

La vera differenza tra il punk newyorkese e quello inglese stava nel discorso politico? Oggi credi ci sia troppa o troppo poca politica in musica?
In Inghilterra il punk era estremamente politicizzato, A New York, volevamo solo divertirci. La città era un casino: scioperi, senzatetto, violenza. Noi suonavamo per far stare bene la gente, non per dire a qualcuno come farla stare meglio. Se gli artisti moderni vogliono fare politica, va bene. È una loro scelta. La musica può informare. Ma io voglio che la gente si diverta, perché oggi c’è già troppa negatività. Ho sempre parlato di temi che mi stanno a cuore, ma non ho mai riempito i miei brani di quei tempi. Io ho capito di poter essere perfetto per intrattenere la gente per un paio d’ore e credo sia altrettanto importante. Ci sono band che lo fanno, e va bene così. La gente le conosce e le segue per quello.

Hai mai creduto che la musica potesse cambiare il mondo o magari lo credi ancora?
Certo che sì. Può aiutare la gente a stare meglio o a prendere coscienza di certe cose e, quindi, potenzialmente di rendere migliore il posto in cui vivono. Ma io sono un musicista, non un politico. Ognuno fa la sua parte.

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