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Mark Ronson e il fantasma delle notti passate

Spaccarsi le ossa piegato sui piatti, mettere i dischi per Biggie, imbucarsi nei club con Sean Lennon, incontrare Michael Jackson, farsi e disfarsi agli aftershow. Il dj e produttore racconta in un nuovo libro e in questa intervista i suoi folli, esaltanti, incredibili anni ’90 a New York

Foto: Sacha Lecca per Rolling Stone US

I fantasmi delle notti passate infestano le strade di New York. Mark Ronson li vede ovunque. A Tribeca ad esempio c’è quel che rimane del New Music Cafe, dove lui poco più che ventenne fece il grande salto diventando il dj di punta a una festa chiamata Sweet Thang. Lì leggende di Brooklyn Jay-Z e Notorious B.I.G. l’hanno sentito mettere i dischi e lì è diventato il dj a mettere Hypnotize prima dell’uscita ufficiale. È sparito, è diventato qualche anno dopo un ristorante di ostriche. Ma Ronson ricorda tutto.

«Arrivavo al club e vedevo le persone in fila, eccitate per la serata che avrebbero vissuto», ricorda oggi il dj diventato produttore. Sera dopo sera, ha capito qual è la differenza fra chi si gode semplicemente una serata fuori e la gente della notte, e lo scrive nel suo memoir Night People: How to Be a DJ in ’90s New York City.

Oggi, Ronson è entrambe le cose. Cinquantenne, marito e padre di due figli, porta quei ricordi nelle ossa, letteralmente: ha dolori cronici al collo e le articolazioni infiammate dopo tante notti passate ricurvo sui piatti. «Mi basta sentire Put Your Hands Where My Eyes Could See di Busta Rhymes per tornare in un club che si chiamava Rebar, tra la Sedicesima e l’Ottava. Riesco persino a sentire la puzza di birra sul pavimento. La musica, più di altre forme d’arte, resta nel corpo perché il basso e i suoni ti scombussolano in qualche maniera le molecole del corpo».

Avrai tantissimi ricordi legati a locali che hanno chiuso o che sono cambiati.
Il libro parla di molte cose. Del djing, dell’uscire a far festa, degli alti e bassi di questo stile di vita. E poi parla della New York anni ’90. Somiglia, se vuoi, a una storia di fantasmi, perché è una New York che non esiste più, soprattutto a Downtown. Era molto diversa all’epoca. Alcuni di quei club hanno aperto e chiuso cinque volte, anche solo nel corso dei ’90, quando facevo il dj.

Il New Music Cafe è stato il primo posto in cui ho messo i dischi. Ci veniva Biggie. Ricordo la prima volta che portò Jay-Z, che aveva fuori solo due canzoni a suo nome. Lui era il principe di New York, Biggie era il re. Cose incredibili per un 21enne come me che si trovava davanti la gente che vedeva solo sulle copertine dei dischi. Ogni volta che passo davanti a quell’edificio emergono tutti i ricordi legati al posto, indipendentemente da cos’è diventato adesso. Ho vissuto anche a Los Angeles e a Londra, ma ogni volta che sono stato a New York, non ho mai abitato a più di dieci isolati da lì. Ha sempre fatto parte della mia vita. Il libro finisce con me che cammino per Downtown con mia figlia di 2 anni con me nel marsupio BabyBjörn e guardo tutti questi luoghi chiusi e cerco di ricordarne i nomi. Ogni volta che passo lì davanti sento una scossa, tipo elettricità statica sulla maglia. C’è qualcosa di speciale.

Succede che riconosci qualcuno, ma non riesci a ricordarne il volto o il nome? Ci sono persone con cui avresti voluto restare in contatto?

Avrò intervistato 150 persone per il libro, sapevo che attorno a me succedeva un sacco di roba eccitante, ma per la maggior parte del tempo ero chiuso in quella cazzo di postazione. Alcuni club erano fatti in modo strano, per cui ero relegato in un angolo, non vedevo nulla. La notte che è arrivato Biggie ho sentito un’energia, era come se i bisbigli fossero diventati assordanti. Allungavo il collo nel disperato tentativo di vedere dov’era. Frank, che stava alla porta, mi ha raccontato questa storia incredibile: Biggie è arrivato con 50 persone e avevano addosso di tutto. Frank ha detto alla crew di Biggie di lasciare quella roba in auto, parlo di pistole, spade, chissà cosa. Ma Biggie era un figo incredibile. Sapeva che non sarebbe riuscito a far entrare subito tutti i suoi 50 ragazzi, quindi è rimasto lì per un’ora con un grosso rotolo di banconote e le sfilava dandole a Frank via via, ogni cinque minuti per far entrare uno dei suoi. Ha aspettato finché tutta la sua crew non è entrata. Volevo raccontare quella scena nel modo più vivido possibile e per farlo ho parlato con chiunque fosse al club quella notte. Così, scrivendo il libro, mi sono riavvicinato a molte persone di quell’epoca ed è stato bello. Però sì, ci sono persone che incrocio per strada e penso: «Lo conosco… o no? O forse veniva solo a ballare?». È un po’ una storia di fantasmi.

Una delle scene migliori di Night People è quando metti Hypnotize per la prima volta in un club. Com’è stato?
Una follia. Parte del motivo per cui ho scritto il libro è che c’erano ragazzi che veniva da me e chiedevano: «Eri a New York negli anni ’90?». Succedeva cinque, sette anni fa, prima che Tyler, The Creator e altri rendessero omaggio a quel periodo. Mi chiedevo perché quei ragazzi fossero fissati coi ’90. Io c’ero e pensavamo fossero fighissimi gli ’80, non i ’90. Poi ho capito perché col senno di poi sono affascinanti e importanti: è l’era del Wu-Tang, di Biggie, dei Tribe Called Quest, di Lil’ Kim. Anche Missy Elliott e Timbaland, che venivano dalla Virginia, Pharrell e Chad Hugo, venivano tutti nei club, venivano a New York per fare i dischi. Ah, e c’era anche quel tizio, Jay-Z. New York era l’epicentro di tutto, un posto super eccitante. Biggie ogni tanto veniva perché stavo suonando io su Canal Street. Un promoter della Bad Boy Records, visto che avevo la serata più calda del martedì, si presentò con un acetato, un vinile fresco di stampa appena uscito dalla fabbrica. Lo si poteva suonare solo una decina di volte prima che si distruggesse. Venne e mi disse: «Ho il nuovo di Biggie. Non posso dartelo, ma puoi suonarlo adesso. Poi lo devo portare a Funkmaster Flex». L’ho messo su, ho ascoltato un pezzetto in cuffia e l’ho lanciato. Il club è esploso manco fosse stato colpito da un meteorite. C’era qualcosa di sacro, di speciale. Forse era già passato una volta in radio, ma buona parte di quelle 400 o 500 persone non lo aveva mai sentito prima. Quando la canzone è incredibile come quella, senti le molecole della stanza cambiare. È stato un orgasmo collettivo da 500 persone.

Cosa ti ha spinto a scrivere il libro?
Temevo che tenendomi dentro quelle storie per troppo tempo le avrei dimenticate. Il libro è dedicato a Blu Jemz, il mio grande amico morto quattro o cinque anni fa. Faceva il dj in un posto chiamato Le Bain. Dopo che è morto, Le Bain ha voluto organizzare una festa con me come dj. Me ne stavo seduto in camera circondato da tutti i vinili e pensavo: ma perché li tengo ancora, questi dischi? C’era qualcosa di significativo per me in quei vecchi 12 pollici hip hop. Hanno il potere di evocare storie.

All’inizio del libro c’è un momento in cui racconti la tua prima esperienza in un club, quando Keith Haring ha fatto entrare di nascosto te e Sean Lennon all’Area.
C’era questo club incredibile a Downtown negli anni ’80 chiamato Area, era il punto di incontro tra mondo dell’arte, dell’hip hop e non solo. Non so se ci abbia fatto entrare di nascosto, tipo sotto il cappotto, ma avevamo 12 anni e di certo non potevamo stare lì. La mamma di Sean, Yoko, era amica di Keith. Ricordo solo che mi sono trovato in questa stanza molto buia, con un tappeto polveroso, correvo tra gli adulti, facevamo cose che non avremmo dovuto fare per via quell’energia che danno i nightclub. Non stavo scolando cocktail o roba del genere, ma l’aria era elettrica.

Descrivi il trasferimento di Sean come la tua prima grande delusione, e lo scrivi con un tono  dolce. Che significato ha avuto condividere quei ricordi con lui?
Visto che il libro parla soprattutto di club e cose del genere, mentre scrivevo mi dicevo: ma chi se ne frega della mia cazzo di infanzia? Passiamo direttamente alla roba dei club. Poi ho capito che dovevo dare un minimo di contesto, perché sono cresciuto in una famiglia un po’ matta. I miei genitori erano, che Dio li benedica, degli animali da festa. Da bambino, in Inghilterra, mi svegliavo nel cuore della notte e trovavo 50 adulti in casa. Mi svegliavo per andare a scuola alle 7 del mattino e mio padre era ancora lì a giocare a scacchi con, cazzo ne so, Daryl Hall o qualcuno del genere. Quando ci siamo trasferiti a New York dopo il divorzio dei miei, mia madre ha sposato un musicista, il mio patrigno Mick (Jones, dei Foreigner, ndr), quindi le cose non sono granché cambiate. Ho capito che la mia attrazione per la notte non era nata per caso. Fa parte del motivo per cui il libro si chiama Night People: esplora proprio questa idea. Cosa ci spinge verso la notte?

E Sean?
Facevo musica con lui, era il mio migliore amico da bambini. Poi lui è andato in un collegio esclusivo in Svizzera lasciandomi lì a chiedermi: e ora che cazzo faccio? Ho messo su un’altra band, suonavamo solo a feste liceali e nei bar di Bleecker Street. Volevo fare un grande concerto al New Music Seminar, un festival di una settimana che si teneva a New York dove suonavano tutte le band più importanti. Sono andato da un tizio che organizzava le serate e gli ho chiesto di farci suonare. Il problema è che avevamo un nome pessimo: Whole Earth Mamas. E lui: «Come si chiama la tua band? Mother Earth Garden Bistro o qualche stronzata simile? No, non potete suonare». Gli ho detto che avrei portato il mio amico Sean Lennon. Così il concerto l’abbiamo fatto, ma è stato un disastro. Mi sono sempre sentito in colpa perché in un certo senso avevo “venduto” Sean per ottenere quell’ingaggio. Mi sono reso conto di non avergli mai raccontato questa storia. «È vagamente familiare», mi ha detto Sean, «e ti voglio bene, siamo amici». Mi ha perdonato.

Quando nel 2000 il New York Magazine ti ha messo in copertina chiamandoti “The King of Spin”, nell’articolo Sean raccontava della volta in cui siete stati insieme a Michael Jackson. Il modo in cui lo racconta lui è molto diverso da come lo descrivi tu in Night People.
Davvero? Che dice Sean?

Dice che Jackson in città per il tour di Bad, e avete registrato una melodia, poi trasformata in una canzone che avete fatto sentire a Roberta Flack, o una cosa del genere. Tu scrivi che Michael Jackson voleva tirare palline di carta bagnata.
È vero. Michael Jackson era amico di Sean, perché Sean era Sean Lennon. Sean era brillante e spiritoso, aveva un magnetismo incredibile. La gente era attratta da lui, aveva un sacco di amici fighi. Ricordo che Steve Jobs veniva a casa e diceva: «Devo far vedere a Sean questo nuovo computer che ho progettato».

Dunque, Michael Jackson era in città per il tour di Bad, dormiva a casa di Sean al Dakota e correva su e giù per il corridoio. Voleva solo tirare fuori dalla finestra dei soggies, grossi pezzi di carta igienica bagnata. Sean abitava al settimo piano. Non li lanciava addosso alle persone, ma finivano sull’asfalto facendo un rumore tipo bombe. Ok, tutto molto divertente, pensvo, ma io voglio una cazzo di hit da Michael Jackson, è l’unica cosa che mi interessa. Già allora ero avevo la mentalità del produttore. Sean e io dicevamo: «Michael, Michael, cantaci una linea di basso!». E l’ha fatto, con la sua gestualità e le mani che scattavano ha iniziato a cantare una linea di basso. Lui scriveva così, non annotava nulla, ma faceva venire qualcuno e gli cantava tutte le parti. Almeno così dicevano.

Il giorno dopo siamo andati nello studio del mio patrigno e abbiamo registrato la canzone. Erano praticamente sette minuti di Michael che canta la linea di basso. Ripensandoci, mentre scrivevo il libro, pensavo: ok, probabilmente ci ha dato un avanzo di Smooth Criminal. Ma comunque, restava una linea di basso di Michael Jackson. Abbiamo aggiunto degli ottoni, dei campioni di fiati anni ’80. Quella sera siamo andati al concerto di Michael, ci ha portato Roberta Flack, che viveva nello stesso palazzo di Sean. Mi rendo conto che queste storie suonano assurde… Comunque, Sean le ha fatto sentire la canzone: «Roberta, ascolta questa cosa che abbiamo fatto. Michael ci ha dato la linea di basso!». Dopo tre minuti ha detto: «È sempre la stessa roba, ma anche James Brown faceva così. Non si sa mai». Cercava di essere gentile. Poi, dopo un altro minuto, ha schiacciato “eject”.

Foto: Sacha Lecca per Rolling Stone US

Ci sono passaggi nel libro in cui piazzi nomi pazzeschi in situazioni incredibili.
Non ho raccontato a nessuno a scuola la cosa di Michael, perché sapevo già, a 13 anni, che i compagni mi avrebbero odiato. Come quando all’inizio del libro incontro Q-Tip e DJ Premier in un negozio di dischi. Erano delle divinità. E poi, verso la fine degli anni ’90, Q-Tip ed io diventiamo amici e facciamo del djing assieme. E DJ Premier, il mio eroe come produttore, entra in cabina mentre suono il primo disco che ho prodotto, quello di Nikka Costa, e dice: «Cos’è ’sta roba?». Ero sicuro che stesse per dire: «Chi ha fatto questa cosa? Chi ha copiato il mio stile? Che cazzo è ’sta merda?». E invece ha detto: «Questa roba spacca». Per tre minuti è stato lì a muovere la testa. Anche solo avere quelle esperienze, a quell’età, è una gran fortuna.

Dici che persone più grandi di te della scena pensavano che non ti eri fatto le ossa perché la tua ascesa è stata molto rapida. Poi però hai avuto la tua rivincita quando volevano togliere Kid Capri e mettere te a fare il dj.
Ho iniziato a 18 anni, suonavo cinque sere a settimana, con devozione e ambizione. A 21 o 22 anni, Puffy aveva già cambiato il volto di New York. Non si poteva non parlarne. Fingere che non esistesse e che Puffy non avesse contribuito a cambiare New York, e perfino la mia carriera, sarebbe stato insincero, anche se non avevo molti rapporti diretti con lui. Venivo assunto dalla sua gente, e sapevo che finché lui ballava andava tutto bene (Ronson ha aperto per Kid Capri al 29° compleanno di Sean “Diddy” Combs al Merchants Exchange di Manhattan, nda).

C’è stato un periodo a New York in cui sono arrivati Jay-Z e Damon Dash. Tutti quei club downtown, che erano ritrovi esclusivi e noiosi per modelle, improvvisamente si sono incendiati e ospitavano tantissime feste hip hop. E io c’ero. Il più grande dj prima della mia epoca era Stretch Armstrong, e dopo di me è arrivato DJ AM. Dal 1997 al 2001 circa è stato il mio momento. Era incredibile suonare insieme a Grandmaster Flash, Funkmaster Flex, DJ Enuff e Kid Capri, leggende. Sai, avevo quasi dimenticato tutto, sul serio, perché poi ho fatto un sacco d’altra roba. Ho bevuto molto, ho fatto uso di droghe e il mio cervello a volte è un po’ offuscato. Ma tornare indietro e rivivere tutto quanto m’ha fatto pensare: cazzo, era davvero figo.

Com’è stato ripensare ai momenti più pesanti? C’è una scena in cui hai 20 anni e pensi che ti sta per venire un colpo.
Ci sono tante cose che ricordo bene, altri ricordi sono più vaghi, ma quelli in cui credi di stare per morire ti restano impressi. Ero ambizioso e quindi riuscivo a tenere le mie nottate sotto controllo, almeno fino a un certo punto. Non ero mai fatto durante i set. Ci tenevo troppo. Ma alle 4 del mattino, quando si accendevano le luci, andavo agli afterhours –non tutte le sere – ma sì, a sballarmi e fare festa. Ho iniziato ad avere degli attacchi d’ansia pazzeschi. Anche per la mia storia familiare, facevo uso di droghe, ma mi venivano subito sensi di colpa, vergogna e ansia. Ricordo una notte, degli amici avevano della roba, ce la facemmo tutti e mezz’ora dopo ero sicuro di avere un infarto in corso. Il giorno dopo ho scoperto che era talco.

Sapevo che era una cosa psicosomatica. Non avevo intenzione di rendere il libro personale. All’inizio pensavo di scrivere solo sul djing e su quell’epoca. Poi ho pensato che non potevo intitolarlo Night People e non parlare delle ragioni che ci spingevano ad uscire di notte. Non tutti uscivano per drogarsi, a qualcuno interessava solo la musica, ballare. Ma molti di noi uscivano perché dentro avevano qualcosa di rotto. La notte ti dava un’armatura in più, uno swag, chiamalo come vuoi. Se la tua vita di giorno era incasinata, potevi lasciarti tutto alle spalle e vivere la notte. Nel libro cerco di dire che ci sono persone che si godono una serata fuori e c’è la gente della notte. Ma le persone che ho conosciuto e che in quel periodo sono diventate la mia famiglia erano tutte, affettuosamente, un po’ sbandate e con qualcosa di rotto dentro.

C’è anche del dolore. Prima di decidere di mettere tutto in un libro, ti è capitato di ricordare queste storie con gli amici?
Dato che ogni capitolo riguarda un’epoca diversa, con persone diverse, mi sono detto: quando arrivo a un capitolo chiamerò quella tale persona. Ma mentre scrivevo due o tre persone a me molto vicine in quel periodo sono morte. Il libro è dedicato ad AM e Blu Jemz, che è stato la miglior night person che abbia conosciuto. Aveva un’etichetta che si chiamava Night People e il suo spirito è nel libro. Fatman Scoop, DJ Neva, ci sono dj meno noti come il mio amico Paul Nice, Mister Cee, tutta gente che appare e scompare nel libro e che era viva quando ho cominciato a scriverlo. C’è ovviamente qualcosa di triste in tutto questo. Ma spero che, in qualche modo, vengano celebrati e ricordati attraverso la loro musica, quello che hanno fatto e magari anche da questo libro.

C’è una scena in cui racconti che durante un dj set hai messo su una traccia più lunga della media solo per poter andare a vedere Missy Elliott e Timbaland con Aaliyah in studio. E prima che la traccia finisse, sei corso di nuovo in console a mixare.
Quando ho incontrato Aaliyah per la prima volta a uno shooting per Tommy Hilfiger aveva già fatto One in a Million, uno dei miei dischi preferiti. Non riuscivo nemmeno a guardarla. Anche per uno abituato a certi giri, lei sembrava venire da un altro mondo. Non era una che conoscevo nei club di New York e che per caso era diventata famosa. Era dolcissima, irradiava un’energia incredibile. Abbiamo iniziato a parlare e più tardi abbiamo fatto le foto. C’è quella in cui lei è dietro la console. Durante la pausa pranzo è venuta da me e voleva giocare coi giradischi. Così si è messa a scratchare. Credo ci sia una foto di quel momento. Ricordo di aver pensato che volevo farle mille domande su Missy e Timbaland. Avevo iniziato a fare dei beat, non avevo idea di cosa stessi facendo, ma per me loro erano degli eroi. Lei rispose semplicemente: «Sono tranquilli», come se parlasse di una zia e di uno zio e non di due geni.

Così sono diventato amico di Aaliyah e ci siamo rivisti altre volte. Una volta stavo suonando al Manhattan Ballroom. Dalla balconata vedo due omoni con una ragazza in mezzo. Era lei. Mi dice: «Vado in studio». Quello dove lavoravano Missy e Timbaland era nello stesso edificio. Mi fa: «Vieni su!». Guardo in pista: 300 persone ballavano, ero pagato per suonare, non potevo mollare tutto. Così le dico: «Vorrei, ma non posso». Lei se ne va, poi si volta e mi lancia uno sguardo tipo: «Ma che stai facendo?».

Allora metto il disco più lungo che avevo, qualcosa di Donna Summer o Diana Ross. Non importa se non sarà sufficiente, mi dico, non posso perdere quest’occasione. Corro su e lei mi porta dentro lo studio, anche se per poco. Era la mia prima volta in uno studio così grande e moderno. Timbaland era su una StarTech con un beat a un volume assurdo, Missy sul divano. Aaliyah si siede accanto a lei e le canta una melodia nell’orecchio. Ricordo di aver pensato: «Questa è una follia». Resto tre minuti e poi corro giù. Appena in tempo. Nessuno si è accorto di nulla. È incredibile pensare che persone che sembrano ancora così presenti – Aaliyah, che a New York vedi ovunque sulle magliette, con la sua musica che ancora oggi più rilevante che mai – non ci siano più. Tutti vorremmo che fosse qui. Chissà cosa farebbe. Ma per quanto è grande la sua eredità, sembra ancora qui.

Sei comparso nel video di More Than a Woman di Aaliyah. Cosa ricordi delle riprese?
Ricordo solo che indossavo degli occhiali da sole un po’ pacchiani, ma che allora pensavo fossero fighissimi. Era stata Aaliyah a chiamarmi e dire che mi voleva nel video. Non avevo voglia di volare a Los Angeles solo per un giorno, ma sapevo che sarebbe stato bello vederla. Credo sia stato una o due settimane prima dell’incidente aereo. Sono ovviamente grato di averlo fatto, perché è stata l’ultima volta che siamo stati insieme.

Com’è stato rivivere la musica di quel tempo?
La musica è stata quasi la mia migliore amica, nonché lo strumento per creare questo libro. Alcuni ricordi risalgono a 30 anni fa. E per questo possono essere confusi, ma la musica fa qualcosa al corpo. Quando cercavo di ricordare dei momenti, ascoltavo un brano degli A Tribe Called Quest o di Busta Rhymes e subito mi tornavano in mente: ah sì, ero in quella stanza, c’era quel tizio che fumava guardandomi quando ho messo su il disco, e poi gli è caduto il bicchiere perché aveva alzato le mani… I dischi erano importanti. Non ho inserito le storie con le celebrità come esca per attirare lettori, ma perché erano parte di quelle notti. Ma la musica era la cosa più importante.

Qualuno dirà: «Dov’è Amy? Dov’è Gaga? Dov’è Bruno? Cos’è questo cazzo di libro di Mark Ronson?». Ma quest’opera parla di un periodo precedente al successo, prima che diventassi una celebrità, almeno fuori da una piccola cerchia newyorkese. Volevo che fosse incentrato sulla musica. Ricordo un dj che disse una cosa divertente: «Quando provo a spiegare a mia nonna cosa faccio, lei capisce solo il dj dei matrimoni o Calvin Harris». Ma c’è anche una via di mezzo, ed è quello che ero io allora: un dj che lavorava, che suonava perché amava la musica, aveva bisogno della paga e intanto gestiva richieste assurde, proprietari di locali strafatti e gente ubriaca. Lo facevo perché lo amavo. Alcune sere tornavo a casa con in corpo un’energia pazzesca, altre mi sentivo solo come non mai. Ho cercato di trasmettere anche questa sensazione.

C’è un nuovo album in arrivo? Un seguito di Late Night Feelings?
Ci sto lavorando, quindi spero di sì.

Quanto hai pensato all’eredità che lasci o a tua figlia più grande che un giorno leggerà queste storie?
Non ci ho pensato fino alle ultime pagine del libro, poi mi sono chiesto: è una cosa che vorrei lei leggesse? Penso che da adolescente dirà qualcosa come: «Mio padre è noioso, non ascolterò né leggerò nulla di suo». Ma non so. Adesso è ossessionata dalla musica. Ha un piccolo giradischi coi suoi 45 giri. Ama metterli su ed è affascinata da quel mondo. Ma no, non sto certo cercando di crescere una crew di dj.

Da Rolling Stone US.

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