Mark Knopfler mai più in tour: intervista | Rolling Stone Italia
La fine di qualcosa

Mark Knopfler mai più in tour: «Non mi sento un musicista, ma un autore di canzoni»

Perché in ‘One Deep River’ fa musica geolocalizzata. Perché il periodo tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60 lo affascina. Perché non trae più la sua identità dalla chitarra. Perché ha venduto all’asta un centinaio di strumenti. E perché non lo vedremo più in concerto. L’intervista

Foto: Murdo MacLeod

Si alza, s’avvicina a piccoli passi alla libreria che ha alle spalle, prende la grande riproduzione di un’opera e me la mostra. Non è la foto in cui suona coi Dire Straits che intravedo dall’altra parte dello schermo di Zoom, ma un quadro talmente realistico da sembrare una fotografia. «È di George Shaw, bello vero?». È un’ordinaria scena di periferia, una strada con alcuni lavori in corso e delle transenne rossastre, tipica dell’approccio naturalistico di Shaw alla raffigurazione di scorci suburbani. Anche la musica di Mark Knopfler è in parte così: una fotografia di storie marginali, poesia in cose piccole e periferiche.

Lui sta a Londra, io a Milano. Non gli sto a spiegare che qui i lavori in corso sono sinonimo di umarèll, anche sono convinto che ne riderebbe con me. Da tempo in età da pensione, Knopfler sta ricalibrando l’attività musicale in base agli anni che ha, agli acciacchi, alla voglia di fare e non fare. Non è mai stato un rocker alla Bruce Springsteen, la sua musica non è mai passata attraverso il corpo. Gli bastavano le dita. È stato però un musicista che coi suoi assoli ha introdotto al rock un paio di generazioni d’appassionati. Il punto è che a 75 anni (li compierà ad agosto) non si considera neanche più tale. «Non mi sento un musicista, ma un songwriter».

Lo si capisce ascoltando il suo ultimo album One Deep River, che è pacatamente folk e decisamente orientato allo storytelling. Il rock se l’è messo alle spalle. Non gl’interessa eccitare il pubblico con assoli epici, che oggi non riuscirebbe neanche più a replicare con le stesse verve e destrezza. Vuol raccontare storie. E sono buone: ricordi di quando viveva a Newcastle, vedi la copertina che raffigura il ponte sul fiume Tyne, storie di musicisti che non sono rockstar ma onesti lavoratori, città sull’orlo del boom, malviventi e intrattenitori d’altri tempi, ultimi treni da prendere, metaforicamente e non. C’è anche un pezzo sulla rapina al treno del 1923 dei fratelli DeAutremont che s’intitola Tunnel 13 e ha una chiusa formidabile e poetica: col legno dei luoghi dove avvenne il massacro ci hanno costruito la chitarra che suona nella canzone (non è vero, ma è bello pensarlo). Il senso della storia, minuscola e maiuscola, non gli è mai mancato.

Sono cose musicate in uno stile elettro-acustico nato dal dialogo mai interrotto tra quest’inglese che era fuori moda già nel 1978 e la grande tradizione americana. Da quando ha chiuso coi Dire Straits, Knopfler ha sempre raccontato storie piccole e spesso radicate nel passato. Oggi però i ricordi sono più forti e tornano più spesso, il desiderio di starsene in disparte non è mai stato così marcato. C’è tanta Newcastle in quel che fa. Ha riletto per beneficenza Going Home, lo strumentale tratto dalla colonna sonora di Local Hero che è diventato la signature tune della squadra di calcio del Newcastle United. Ha girato una serie col conterraneo Brian Johnson. E ora c’è quest’album in cui racconta di quand’è partito in direzione Londra con l’idea (non così matta evidentemente) di suonare un giorno con Bob Dylan. Non lo rammenta con l’eccitazione di chi sta per imbarcarsi in una grande avventura, ma con la lieve malinconia di chi si mette alle spalle un luogo, delle persone, una vita.

Foto: Murdo MacLeod

Qualcosa sta finendo, pure oggi. Questo viaggio nella memoria, senile ma non patetico e mai votato alla nostalgia (stiamo pur sempre parlando di uno che s’è sempre rifiutato di rimettere assieme i Dire Straits nonostante le offerte milionarie) s’accompagna a un cambiamento radicale nella professione. Lo spartiacque è rappresentato suppergiù dal Covid. Ha cambiato stile di vita e un paio di mesi fa ha venduto all’asta 120 chitarre, incassando circa 10 milioni di euro. Può permettersi il lusso di possedere una sala d’incisione vecchio stile e la usa per produrre con musicisti fidatissimi e di talento indiscutibile le sue canzoni, roba da raffinatissimo club del disco. Vuol star vicino alla famiglia. Fa ovviamente una vita più piccola rispetto a quella che faceva ai tempi dei Dire Straits, quando andava in tour per un anno e passa. Non ha più l’età, il fisico, la voglia.

Nel 2019 alla fine d’un concerto a Barcellona ha detto che quello era «un bel modo per dire addio». Restare forzatamente a casa causa Covid l’ha ulteriormente convinto che la vita on the road non fa più per lui. Lo ribadisce in quest’intervista. E va oltre: non solo è convinto che non andrà più in tour, potrebbe non tenere più nemmeno un singolo concerto. Chi l’ha visto l’ha visto. Per anni molti fan hanno sperato che prima o poi avrebbe fatto qualcosa coi Dire Straits o che almeno avrebbe recuperato quello stile nei dischi solisti. Non ce n’è né per l’una né per l’altra cosa, pare proprio finita.

Sarà pure acciaccato, ma nella sua voce non c’è traccia di malinconia. S’accende quando parla dell’Inghilterra di fine anni ’50 e ’60, ha un rapporto sereno col passato e coi Dire Straits, un po’ mi spiazza quando dice che il tour migliore col gruppo è stato l’ultimo, «avevamo il sistema di amplificazione migliore, la band era grandiosa, i musicisti coprivano ogni stile con gli strumenti, potevo fare cose folk oppure coi fiati, insomma avevamo tutto». Ha ricordi felici legati a Milano, prende in giro noi italiani dicendo che rispetto ai primi tour dei Dire Straits «siete diventati più civili», aggiunge che ha imparato a bere meglio a Verona, «ora so che vino ordinare in un ristorante italiano». Quando cerco di farlo immalinconire all’idea che un’epoca si stia chiudendo, mi prende per il culo. Ci lasciamo ridendo.

Partiamo da One Deep River. Avevi in testa un suono, un concetto, un’idea di album?
No, alla base di tutto ci sono sempre le singole canzoni. Mi metto al loro servizio. Sono un po’ come figlie che fai del tuo meglio per crescere mandandole nelle scuole migliori. Nel caso delle canzoni, le affidi ai musicisti che le possono far crescere bene, non a quelli che vogliono mettersi in mostra. Questo faccio: mi sottometto alle canzoni che scrivo.

Dividerei quelle del disco in due tipi: quelle da cantastorie quasi letterato, ambientate nel passato, e quelle autobiografiche. Comincerei dalle seconde e da Watch Me Gone che parla della tua partenza da Newcastle in direzione Londra, quando cercavi di farcela come musicista.
Sono i pensieri che mi vengono in mente quando torno a Newcastle, vedo il ponte sul Tyne, penso alla ferrovia e alla strada che portava giù a Londra. Sono i pensieri di chiunque lasci il posto dov’è cresciuto pieno di sogni impossibili, o nel mio caso non così impossibili, sperando di farcela altrove. Può essere Londra, Parigi, New York o Milano, poco importa.

Il tono è agrodolce. Te ne vai dalla città per diventare musicista, eppure c’è una tristezza, hai un peso sul cuore. È perché ti mettevi un pezzo di vita alle spalle o per una ragazza?
Entrambe le cose, ma soprattutto per via di quel che devi sacrificare per farcela. C’è un prezzo da pagare, scegli una vita in cui sei costantemente in viaggio, diventi un traveling man.

È una storia connessa a quella della vecchia Go, Love?
Ma certo, la storia è sempre quella: si va e si torna da casa, e quando si torna lo si fa per ripartire.

Foto: Murdo MacLeod

Quando avevi una trentina d’anni, evocavi in Tunnel of Love i ricordi legati alla Spanish City che si trova a Whitley Bay, a pochi chilometri da Newcastle. Oggi ne hai quasi 75: l’età t’ha reso ancora più nostalgico e pensieroso?
È un buon punto di vista e credo che in parte sia così, è vero che i pezzi sul passato sono diventati più frequenti, ma credo sia dovuto anche alle letture che ho fatto sulla Gran Bretagna di fine anni ’50, inizio anni ’60, un periodo estremamente interessante in cui è cambiato il tessuto sociale. M’affascina anche per quel che accadeva nel settore dell’intrattenimento, che è poi uno dei temi di un EP in cui ho riunito altri quattro pezzi tratti dalle session a tema fiere, luna park, boxing booths (si intitola The Boy e uscirà il 20 agosto per il Record Store Day, nda). Ho sempre fatto canzoni del genere, pensa a 5:15 am sul minatore che torna a casa dopo il turno di notte e s’imbatte nel cadavere d’un uomo crivellato dai colpi dentro a una Jaguar Mark X. C’era in atto un cambiamento radicale nella vita notturna inglese. Dopo la rivoluzione di Castro la malavita che gestiva il gioco d’azzardo all’Avana s’è trasferita prima a Londra e poi s’espansa in tutta l’Inghilterra. E insomma, era un periodo di cambiamenti epocali.

C’è quest’altra canzone nel disco che s’intitola Two Pairs of Hands e ha uno shuffle alla J.J. Cale. Per qualche motivo m’ha ricordato Southbound Again, il pezzo dei Dire Straits del ’78 in cui cantavi “I don’t know if I’m going or leaving home”…
Esatto non c’è niente di nuovo, le cose di cui canto sono le stesse di allora.

Ma dopo averla lasciata hai più comprato casa a Newcastle?
No, mai, ma ogni volta che attraverso il Tyne provo le stesse identiche sensazioni. È una città particolare, superato il ponte ti trovi subito nel cuore della città e vicino a St. James Park, lo stadio. L’allenatore della squadra di calcio è il lavoro più importante della città, anzi di tutto il nord ed è una sensazione incredibile sentire la gente che intona la mia Going Home allo stadio. Tornando a Southbound Again, all’epoca stavo cercando di mettere nelle canzoni un po’ della mia geografia personale. Non le strade degli americani, ma le mie, quelle inglesi.

In un certo senso il Tyne è il tuo Mississippi.
Sì, perché ascoltavo le canzoni americane, ma volevo raccontare i posti in cui vivevo. M’interessa scrivere del carattere inglese, delle persone di qua. Detto questo, le storie americane ambientate sulla Route 66 o sul Mississippi esercitano un fascino inesauribile su di me, non mi sono ancora liberato da quelle suggestioni, così come di quella della musica americana, che è potentissima. Col risultato che nel mio inconscio convivono le due cose, i due immaginari, l’Inghilterra e gli Stati Uniti.

Ti consideri una persona nostalgica?
Non so bene cosa sia la nostalgia. So che ci sono posti che ti fanno sentire nostalgico e so anche che se ti lasci andare e ti abbandoni troppo alla nostalgia, finisci per andare in una sola direzione e questo non m’interessa. Devi cercare un equilibrio.

Foto: Murdo MacLeod

In Two Pairs of Hands ti descrivi mentre sei sul palco, con una band di fronte al pubblico, e ti senti un giocoliere. Ascoltandola m’è venuto in mente quando m’hai detto che stare nei Dire Straits era diventato come stare in un circo.
Sai cosa? Stare in un band era grandioso, ma adesso faccio un altro mestiere. Sono un songwriter, che è una cosa diversa dall’essere un musicista.

È strano sentirlo dire da te, che tra gli anni ’70 e ’80 eri considerato un guitar hero.
Ma sai, un musicista è uno che ha una relazione stretta con lo strumento. Di più, trae la sua identità da quello strumento ed è una cosa bellissima da vedere, solo che io non sono più così. Mi vedo come un autore di canzoni ed è un mondo completamente diverso. In un certo senso la mia musica si è deteriorata. Passo più tempo a scrivere testi che imbracciando la chitarra. È uno dei rischi del mestiere.

Non è questa una delle grandi differenze fra la prima e la seconda parte della tua carriera? Sei diventato più autore che musicista.
È così ed è una dimensione che oggi trovo più interessante. M’interessa solo scrivere belle canzoni e cercare di mettere in un disco. Anzi, sai cosa mi dà soddisfazione? Sentire qualcuno della mia band dire che gli piace una nuova canzone che gli faccio sentire. È tutto qui: voglio che alla gente piacciano le mie canzoni. Poi ok, se gli piace pure il chitarrista va bene (sorride).

In Black Tie Jobs c’è un assolo incredibilmente corto.
Ho voluto farlo apposta così.

Funziona ed è questo il punto.
È una specie di esercizio per dimostrare a me stesso che posso fare un assolo di tre note al posto di trecento (ride).

Una volta hai detto che, per via delle mani che peggioravano, suoni sempre più come un idraulico…
È così.

In che modo il tuo modo di suonare è cambiato nel tempo a causa di incidenti, del passare del tempo o di qualsiasi altra cosa?
Mmm, non so, forse è solo pigrizia. Non mi è mai piaciuto fare barré e queste cose scomode che devi fare con le dita quando suoni. Non ho tempo per roba del genere e quindi prendo la scorciatoia dell’idraulico e cioè afferro lo strumento come se stessi per picchiare su un chiodo, finendo per suonare gli accordi a metà. Tutta roba che un insegnante di chitarra sconsiglierebbe. Direbbe: è tutto sbagliato, ok suona bene, ma è sbagliato (ride).

Ahead of the Game non è la prima canzone in cui canti dei musicisti come lavoratori. Viviamo immersi nella cultura delle celebrità e ci scordiamo che alla fine quello del musicista è anche un mestiere. Come quello dell’idraulico, per riprendere la tua immagine.
Ma certo. To stay ahead of the game significa che te la stai cavando bene, che riesci a avere un ingaggio tutte le sere e la cosa in qualche modo sta funzionando, che hai un pubblico. E ha del miracoloso, specie oggi. Non è facile e perciò capisco quando ogni tanto i musicisti sentono il bisogno di prendersi una pausa, per ricaricarsi ed essere in grado di continuare. È molto impegnativo. È difficile, difficile, difficile.

Alcune di queste canzoni sono piene di ricordi: hai mai pensato di scrivere un libro come ha fatto John Illsley con La mia vita nei Dire Straits?
No no, non sono in grado di scrivere nemmeno la lista della spesa. Sarebbe sbagliato, non è quello il mio mestiere.

Potesti farti aiutare da un co-autore che conosci da tempo e di cui ti fidi…
No, non mi interessa. Il punto è che provo troppa ammirazione per gli scrittori, quelli veri, quelli che sanno scrivere sul serio. Mi sentirei come uno che sta facendo il compitino, non uno che scrive in modo poetico.

Foto: Murdo MacLeod

Porterai il disco in tour?
No, sento di essere più utile alla mia famiglia rimanendo a casa e scrivendo. C’è una cosa che quest’album ha dimostrato e cioè che posso passare più tempo a casa a scrivere e poi andare in studio e fare il disco. Sento che è un modo più produttivo di impiegare il tempo. A causa della pandemia ho finito per scrivere di più, mi sono ritrovato con più canzoni da offrire alla gente. Quando sono on the road invece mi riduco a scrivere nelle prime ore del mattino o tra un concerto e l’altro o tra una città e l’altra. Non è l’ideale. Di sicuro scrivere canzoni nel bel mezzo della notte è un modo per non dormire abbastanza (sorride).

E in futuro andrai in tour?
Non credo. Sento che è giusto finirla qui e dedicarmi alla scrittura.

Neanche un tour d’addio?
No, niente farewell tour.

Ma tornerai a fare qualche concerto, anche sporadicamente?
Non lo so, non sento di doverlo fare. Intendiamoci, è una cosa che mi è piaciuto tantissimo fare, ma in questo momento preferisco che le cose restino come sono. Ho lo studio a pochi chilometri da casa, non devo viaggiare per registrare. In studio da solo o con la band non ho mai avuto una giornata no. Le cose vanno bene così.

Vendere le chitarre all’asta è stato anche un modo per chiudere una fase della tua vita?
In parte è così e in parte l’ho fatto perché era giusto che quelle chitarre trovassero nuove case, nuove canzoni, nuovi amici. Perché la vedo così, le chitarre sono come delle amiche. Volevo che qualcuno togliesse loro di dosso la polvere.

E insomma tra la vendita delle chitarre e la fine dell’attività live mi sembra che stia finendo qualcosa…
Sei un ragazzone cresciuto, dai, non metterti a piangere (ride).

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