Marco Pancaldi, come ti plasmo i Bluvertigo | Rolling Stone Italia
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Marco Pancaldi, come ti plasmo i Bluvertigo

Crea il sound della band, la lascia a un passo dalle major, per Morgan è «un genio». Ci ha parlato della «tavernetta Castoldi», dei discografici «ignoranti», dello «stupro» della musica e di una possibile reunion

Morgan e Marco Pancaldi

Morgan e Marco Pancaldi

Foto: press

Marco Pancaldi non è solo un chitarrista visionario, è anche il fondatore dei Bluvertigo che se n’è andato prima della firma con una major. È il musicista che ha plasmato il suono della band quando lo studio di registrazione era la «tavernetta di casa Castoldi» e la chiamavano simpaticamente «Studio Bellugi». Vive defilato, coltiva paesaggi sonori, costruisce strumenti, suona «non musica per non ascoltatori» e guarda il presente con sguardo critico: «Quella di oggi non è musica. È uno stupro», premette in questa intervista mentre siede in un bar della sua Monza dopo aver ordinato un macchiatone alla cannella. Le soundscape alle quali è abituato? Nel mainstream le sente omologate, iper-prodotte, incapaci di trasmettere urgenza.

Il rapporto con Morgan resta il nodo centrale: creativo, inevitabile, irrisolto: «Siamo stati noi due i produttori l’uno dell’altro», rivendica parlando di Acidi e Basi, primo disco della band, che è stato un «album a due teste» costruito sul contrasto dei provini lo-fi già maturi e le levigature in studio. Castoldi lo considera «un genio», Pancaldi ricambia sostenendo che «lui è un musicista di grandissimo talento». Ma sottolinea anche che negli ultimi lavori del gruppo aveva sentito tutto molto meno coeso, addirittura «meno Bluvertigo».

E la reunion? Possibile. Ma a certe condizioni: «Buttando il cuore oltre l’ostacolo, si potrebbe fare», ammette. Salvo aggiungere che il mercato, le logiche discografiche e una certa insofferenza personale rendono il ritorno insieme una «costellazione di elementi molto complessa». In questa lunga chiacchierata ci racconta gli esordi, Sanremo Giovani del ‘94 con Iodio, le «vessazioni delle case discografiche», il rapporto con Franco Battiato, e cosa significa restare fedeli a un’idea di musica quando il resto del mondo chiama “innovazione” tutt’altro.

Andy, Marco Pancaldi e Morgan nel Ground Lift Studio, Milano 1994, registrazioni per AEB. Foto: press

Andy, Marco Pancaldi e Morgan nel Ground Lift Studio, Milano 1994, registrazioni per AEB. Foto: press

Chi è oggi Marco Pancaldi?
È una domanda molto intrigante, anche se è difficile rispondere. Diciamo che, da chitarrista, quando mi capita di essere esposto a quella che oggi viene identificata come musica, cioè quello che il mainstream ci rimanda, mi è totalmente impossibile raffrontarmi se uso i termini e il modo di pensare alla musica con cui sono cresciuto.

Che tradotto?
Io sono diventato musicista perché esposto, come tutti quelli della mia generazione, a delle espressioni musicali, dei dischi e dei concerti di musicisti di livello immenso. Ho iniziato a strimpellare la chitarra a 12 anni e il mio primo amore è stato Edoardo Bennato. Quindi il Marco Pancaldi 14enne sapeva già tutti i suoi pezzi a memoria, suonava il kazoo, l’armonica a bocca e la chitarra dodici corde. Bennato aveva un elemento di grande spontaneità nella costruzione dei dischi, che erano molto acustici, molto suonati e un modo di cantare informale e urlato, decisamente diverso dalla musica prodotta negli anni precedenti.

Hai lavorato come consulente della Noah Guitars, la liuteria milanese con cui hai progettato gli strumenti NUNoah e la lap-steel in alluminio per Ben Harper. Ma rispetto alla musica registrata e suonata dal vivo?
A parte il disco Beyond Jupiter del 2020, ho una mia attività di live, seppur di nicchia. Sia in situazioni concertistiche, come alla Villa Reale di Monza per una mostra sulle streghe, che all’interno delle scuole di yoga. In questo caso vorrei far passare il messaggio che, al fianco degli strumenti tradizionali, è interessante questo lavoro con strumenti elettronici. Il risultato è più spiazzante, ma con la chitarra elettrica è innovativo e, praticando yoga, i due mondi si sposano bene. In più ho un finto duo con Lorenzo Pierobon, i d-saFE, di house concert con musica improvvisata e l’uso più materico della voce. Abbiamo pubblicato un primo disco e lo definisco “un non gruppo che suona non musica per non ascoltatori”. Un trio che di volta in volta si completa con altri artisti, che siano elettronico, di clavicembalo o un poeta declamatore.

Sei anche uno dei fondatori dei Bluvertigo. Qual è stata la scintilla?
I primi Bluvertigo nascono da un’idea centrata su Morgan-Pancaldi, con la partecipazione di Andy. Anche se per un breve periodo Morgan ha elaborato del suo materiale da solo e io lo aiutavo a organizzarlo, il nucleo comunque è questo trio. E il sistema era: Morgan scriveva musica e testi, abbozzava una parte di stesura, e dopo, in particolare nei primi tempi, io aggiungevo parecchie chitarre. Più di quante si sentano nel disco Acidi e Basi, perché c’è molta roba nascosta anche dentro. Il tutto organizzato nella tavernetta di casa Castoldi a Monza, rinominata «Studio Bellugi».

Morgan di Acidi e Basi ha detto: «È un album a due teste, la mia e quella di Pancaldi».
Dal mio punto di vista, oltre alle chitarre ho portato una competenza da fonico, anche se non lo sono come professionista. Però con me abbiamo cominciato a registrare e mixare bene i pezzi, ho cominciato a usare un sistema allora avveniristico, mentre oggi ormai è rudimentale, di sincronizzazione con otto tracce. Quindi sette tracce analogiche e una sincronia midi. Per quanto fosse “brutto, sporco e cattivo”, Acidi e Basi ricalca bene quel tipo di lavorazione. Quando poi siamo andati in studio i provini esistevano da un anno e mezzo.

C’è stato bisogno di molto lavoro in studio o quei provini erano già buoni?
Quando hai cullato un progetto per tanto tempo e vai in studio, puoi ricostruire in modo formale alcune parti scritte, come le ritmiche e le acustiche davanti a un microfono migliore, ma tutto ciò che è stata l’ispirazione di un momento, dalle chitarre in feedback all’assolo fuori di testa, alla fine la tieni. In più, un gruppo esordiente non poteva stare giorni ad aspettare l’idea in studio. Quindi abbiamo sincronizzare il multitraccia analogico, una macchinetta vergognosa a cassette, e trasferito tutto in digitale. Lo abbiamo mixato al Metropolis, che era uno studio milanese molto bello dove registravano Fabrizio De André e Mauro Pagani. Rimarcare questo contrasto tra i suoi levigati da studio e un certo sound lo-fi serviva a dare una serie di livelli sonori che nel disco funzionano. Infatti il suono, anche se da un punto di vista formale è pessimo, diciamo che nei pezzi era talmente espressivo che mantenerlo era il male minore, invece di registrarlo meglio ma senza ispirazione.

Come lavorava il “bicefalo” Castoldi-Pancaldi nella composizione?
Morgan era l’autore, mi passava una struttura molto libera e molto vuota, io ci aggiungevo tante chitarre, Andy completava con sax e cori, e io mixavo i provini. Quindi, quando dico di essere il co-produttore di Acidi e Basi, credo di dirlo serenamente. Non è mai stato detto per molti anni, poi lo ha rivelato Morgan in un incontro online con il paroliere Alberto Salerno. Avevamo questa logica: Morgan scriveva l’intelaiatura dei brani, i testi e le armonie, mentre io mettevo le chitarre, per cui siamo stati noi due i produttori l’uno dell’altro.

Cosa ricordi di quel periodo creativo?
Marco aveva 20 anni e io 26. Mi ricordo distintamente che è come se ci fossimo seduti di volta in volta sulla sedia del produttore alternandoci a turno. Lui ha scritto testi e armonie, che sono l’intelaiatura dei brani, mentre io inserivo le chitarre con molta libertà. Poi c’era un’inversione di ruoli quando dovevo mixare i provini e farlo cantare, quindi diventavo io il produttore. Alla fine, aprendo una digressione, i dischi di Roger Waters senza David Gilmour e viceversa non sono belli come quando, pur odiandosi, li hanno realizzati insieme.

Era il modo migliore, almeno per degli esordienti?
Lo vediamo negli ultimi 20 anni, in questa economia devastata di dischi autoprodotti dall’artista, dove viene coinvolto un produttore e se a un certo punto dice che secondo lui qualcosa non è buono. Una volta, quando pagava la casa discografica, il produttore era un leveraggio, cioè, come si diceva allora, era il difensore dei diritti del pubblico e della casa discografica per rendere il tutto, alla fine, sufficientemente intelleggibile. Se invece il produttore è un dipendente dell’artista, quando dice che non va bene quello che sente, l’artista cambia il produttore e il disco rimane con dei problemi.

I Bluvertigo a Le Scimmie, Milano 1996

I Bluvertigo a Le Scimmie, Milano 1996. Foto: press

Morgan ti riconosce dei meriti anche per il secondo disco, Metallo non Metallo, benché tu non facessi più parte della band da qualche anno.
Morgan dice cose molto lusinghiere e molto vere. Quando ho partecipato alla trasmissione su Sky, nella serie 33 Giri dedicata a quel disco, ho detto che la grossa differenza tra Acidi e Basi e Metallo non Metallo è che nel primo ero nel progetto fin dall’inizio. Non l’ho mixato, infatti non sono completamente soddisfatto del risultato finale, però mi riconosco in tante scelte. In Metallo non Metallo, invece, è diverso. È vero che furono usate molte chitarre registrate nei provini di Acidi e Basi, come diversi pezzi che erano di quel periodo, solo che in studio hanno risuonato dei brani, io non sono andato ai mix dopo aver lasciato il gruppo, e quindi l’utilizzo dei piani sonori non rispecchia pienamente il mio gusto. È un disco che mi piace, ma la mia partecipazione si sente decisamente lontana. Suonare in un disco è diverso se hai responsabilità di produzione, perché vai a mixare e hai una tua posizione. Puoi litigare e arrivare a dei compromessi, ma difendi le tue idee. Diverso è se suoni delle chitarre, anche molto belle, e poi affidi tutto il tuo materiale ad altri che lo tagliano, lo montano, lo abbassano o lo alzano. Per me è difficile riconoscerne la paternità.

Anche perché hai un modo molto personale di suonare la chitarra.
È un modo informale. In parte lo era allora, oggi ancora di più. Difficilmente suono delle parti che altri aprono e chiudono. Come dice Morgan, io ragiono per soundscape, paesaggi sonori, quindi se pensi in questo modo, e di conseguenza registri quel tipo di tracce, e poi nel mix c’è chi non lo capisce o non lo condivide, rischi che il lavoro venga mutilato. Mi hanno chiesto di suonare in dischi come turnista, ma lo faccio solo alla condizione di inviare lo stem, il mixato stereo dall’inizio alla fine: se ti piace lo usi, se non ti piace non lo usi. Ma se lo usi che non ti venga in mente di cambiarlo.

Fondi la band, la porti a un passo dalla firma con una major e poi la lasci. Come mai?
È vero, stavamo firmando con la Sony e ho lasciato la band. Il percorso di un gruppo esordiente italiano negli anni ‘90 era molto periglioso. Il primo disco lo abbiamo prodotto noi, il lavoro in tavernetta era così maturo che non c’era bisogno di un produttore che ci dicesse cosa cambiare. Considerata la qualità del materiale consegnato già pronto, paragonato al livello di disattenzione e di poco supporto da parte delle case discografiche che abbiamo ricevuto, è stata una grande sproporzione. Ci siamo trovati a pubblicare il disco e a suonare nelle birrerie. E quando è arrivata la Sony non avevo più motivazioni a seguire quel percorso.

Quindi non è stata una questione artistica?
No, perché avremmo potuto fare altre cose molto belle. Ma il modo di lavorare nella musica in Italia nel rapporto con i discografici, i manager, gli impresari era diventato per me insopportabile. Ho visto all’interno della discografia dell’epoca un nonnismo che era pari a quello nelle caserme militari. I discografici avevano un atteggiamento pessimo. Erano nella maggior parte dei casi, salvo eccezioni, di un’ignoranza abissale dal punto di vista musicale. Non sapevano guidarti in un percorso. In più l’atteggiamento nei confronti dell’esordiente era vessatorio, mentre le stesse persone erano sgradevolmente prone verso gli artisti di successo.

Descrivi un ambiente desolante.
È quello che ho vissuto io, anche se per poco. Di conseguenza gli stessi musicisti si comportavano così con quelli meno famosi, per poi essere appiccicosi con quelli famosi. Questo mi aveva schifato a tal punto che non avevo più interesse a continuare.

Negli anni successivi, quando i Bluvertigo hanno avuto riconoscimenti e successo, hai mai pensato di tornare?
L’unica volta in cui ho dichiarato che mi sarebbe piaciuto esserci è stato nel 2014 per il rocambolesco concerto di reunion di Rimini. Mi hanno invitato e ho sentito una sorta di “ricorrenza”, come la chiamerebbe il filosofo russo Uspenskij che ha raccontato la figura di Gurdjieff. Per vari motivi, che sono un ventaglio di condizioni, dal piacere al guadagnarsi da vivere con tutte le sfumature intermedie. Ho vissuto quella reunion molto positivamente. Anche perché, finalmente, avevamo una situazione organizzativa con le condizioni base per andare in giro a suonare. Poi nelle altre date del tour non sono mai rientrato nel gruppo e mi hanno gestito come una sorta di strano turnista. Tanto che a un certo punto qualcuno, di cui non farò mai il nome, mi ha detto: «Fai troppo feedback». E gli ho risposto: «Per forza, l’ho inventato io».

La notorietà non ti è mai mancata?
Sono convinto che il successo è l’aspetto che corrompe di più l’essere umano in assoluto. Scherzando ho detto che detesto quello che adesso si racconta come musica. Infatti rettifico: non è musica quella di oggi, è uno stupro. Ed è triste che i bravi artisti tentino di adeguarsi a qualcosa di orribile. La peggiore sfida che mi potrebbe capitare nella vita è che qualcuno mi potesse chiedere di fare il giudice di X Factor. Cosa che, data la mia bassa notorietà, è un problema che non si pone.

Ricordi quando hai annunciato alla band che l’avresti lasciata?
È stata una serata indimenticabile. Un gruppo musicale ha dei connotati di famiglia e di azienda. Quando cominci a suonare insieme succedono cose importanti e si creano forti legami. Neanche troppo raccontabili, perché non sai davvero come raccontarli. Poi far funzionare un gruppo vuol dire che lo devi mantenere da un punto di vista economico. Questo è uno dei motivi per i quali mi sono sganciato. Avevo fatto delle proposte di autoproduzione, per costruire un nostro studio e non legarci troppo alle case discografiche. Diciamo, per fare un esempio, il percorso che hanno fatto i Subsonica. Un gruppo che mi piace, anche per la loro capacità di gestirsi, prodursi e organizzarsi. Ma con i miei compagni non era possibile farlo.

Cos’è successo nella famosa «serata indimenticabile»?
Non era una comunicazione arrivata dalla sera alla mattina. Da mesi ero stufo e proponevo una via differente che ti ho appena raccontato. Avevo proposto anche di fare dischi ma non concerti dal vivo, anche perché era difficile suonare le chitarre come le suonavo, avevo difficoltà persino io. In generale era un modo per trovare una via alternativa. Tra l’altro ho lasciato a gennaio ‘96, quindi sei mesi dopo la decisione, continuando a suonare live perché non volevo bloccare il percorso del gruppo. Quella sera è stato solo formalizzato qualcosa di già deciso.

Bluvertigo - Iodio - Segnali di fumo 1995 (incompleta)

Il giornalista Andrea Scanzi, dopo una polemica con Morgan, ha detto che all’epoca in Italia c’erano molte altre band più interessanti dei Bluvertigo.
Sono una persona molto polemica a livello individuale, ma credo di essere in una posizione talmente defilata che non penso cambi molto il mio giudizio. Comunque, ancora oggi e dopo tanti anni, mi capita di incontrare musicisti, in particolare chitarristi, che mi dicono: facevate cose bellissime e in Italia eravate degli alieni. Se a livello quantitativo i Bluvertigo non sono stati rilevanti, in termini qualitativi non li liquiderei così facilmente. Un giorno sono andato a un seminario del chitarrista Adrian Belew, che ha suonato con King Crimson, Frank Zappa, David Bowie, Talking Heads, Nine Inch Nails e altri. Entro nell’auditorium, mi siedo e a un certo punto un giovane mi dice: «Pancaldi, ho iniziato a suonare perché ti ho visto in tv a Segnali di fumo». Gli ho risposto: «Mi fa piacere, ma devo dire la stessa cosa a quel signore là». Che era Adrian Belew.

In seguito hai collaborato con Franco Battiato, Mauro Pagani, Nada e Alice.
Nel periodo subito successivo ho fatto diverse cose a cui sono affezionato. Anche con Roberto Colombo, produttore storico dei Matia Bazar. Mentre con Franco Battiato, probabilmente, li considero i miei lavori migliori che ho realizzato in musica.

Cos’hai trovato in Battiato che ti ha permesso di esprimerti al meglio?
Parlare di Battiato è complesso. Ero un ragazzino che lo ha scoperto con L’era del cinghiale bianco e quando è uscito Patriots sono andato al Palasport a sentirlo. Mi sono ritrovato a suonare per uno dei miei idoli. L’incontro umano con Battiato, insieme a Mario Sgalambro, è stato l’aspetto più bello, anche rispetto a quello musicale. Franco era un uomo di grandissima ironia, mentre io un precisetti e in studio mi complicavo la vita. Non amo scrivere tutto, cercando di mantenere una forte spontaneità. Per questo odio questa musica fatta al computer tutta uguale. Un giorno, per suonare qualcosa di speciale, faccio impazzire il fonico. E Battiato, che aveva capito, mi disse: «Marco, ricordati che il meglio è nemico del bene». Un’altra volta, quando abbiamo registrato Auto da Fé, che ha una chitarra a velocità allucinante, visto che tutto l’album Gommalacca è programmato con l’elettronica, nella parte prima della strofa ci ho messo una ritmica acustica talmente veloce che non facevo in tempo neanche ad aggiustarmi il plettro. La faccio una volta, sento che stiamo finendo, si apre l’interfono in cuffia, io sto per dire che avevo capito come farla e di rimandarmela, ma in quel momento interviene Battiato: «Perfetto, la copiamo nelle altre parti e andiamo a mangiare».

Tutto il contrario della ricerca di perfezione odierna.
Battiato con i testi aveva un rapporto conflittuale, ma appena ha avuto come interlocutore Sgalambro si è liberato di tante altre scelte. So che loro si confrontavano molto, tanto che è impossibile dire chi ha scritto cosa. Ma ha sempre detto: «La musica per sua natura è metafisica e non avrebbe bisogno di parole». Esiste un piano superiore che noi abbiamo bisogno di razionalizzare su un piano più terreno. Quindi tutti ci confrontiamo con il problema di razionalizzare. I sentimenti con le persone, però, sono difficilmente verbalizzabili.

Marco Pancaldi

Marco Pancaldi. Foto: press

Il tuo disco solista, Beyond Jupiter, è stato definito progressive, ambient, yoga. A me è sembrato che il suono abbia l’ambizione di replicarsi all’infinito nello spazio.
È assolutamente così, mi fa piacere che tu me lo dica. Perché è la sintesi perfetta. Normalmente c’è uno scollamento tra la fruizione e parte tecnica. Soprattutto per uno come me che ha due binari. Ho un rapporto molto tecnico con la strumentazione. Mi costruisco le chitarre, modifico i pedali e l’elettronica con consapevolezza estrema. Ma quando suono mi astraggo. È come una forma di meditazione. Quando le macchine funzionano bene, allora mi affranco dalla questione tecnica e vado da un’altra parte. Spesso il modo in cui ottieni qualcosa è diverso. Invece quello che mi hai detto è la dimensione musicale, astratta e spirituale, ma anche più brutalmente meccanica.

Come lo hai realizzato tecnicamente?
Ho suonato in un sistema che finisce in due looper, in una versione moderna di quello che facevano Brian Eno, Robert Fripp e ancora prima Terry Riley. Mando i miei suoni in modo differenziato in questo sistema di ripetizione, poi ci sono due canali decorrelati, uno sinistro e uno destro che non hanno sempre la stessa durata, e dopo un certo numero di secondi quello che ho suonato viene ributtato in gioco e rigenerato. Un po’ come quello che banalmente viene definito looping. Io la chiamo “risacca sonora”. Perché quando allunghi enormemente i tempi di ripetizione non li apprezzi più come se fosse un’eco o un delay, c’è un tempo per cui diventa quasi subliminale. Poi aggiungo una riverberazione separata delle ripetizioni. Per cui la tua fruizione corrisponde al cento per cento al modo in cui è costruita quella musica.

Quali sono gli sbocchi di questo tipo di musica?
Abbiamo fatto un esperimento con un’amica che lavora per la Rai. Nel 2020 aveva realizzato Blob di mezz’ora, un sabato sera di luglio, tutto dedicata allo spazio con alcuni brani di Beyond Jupiter. Funzionava molto bene. Anche il collegamento con l’immagine cinematografica sarebbe bello, ma quello è un mondo che funziona al contrario. Non vogliono costruire immagini sulla musica, ma viceversa. Si può fare, solo che il lavoro con i loop ha tempi di intervento molto lunghi. E il fascino di questo modo di fare musica è anche la sua limitazione.

Non mi dirai che anche tu non hai apprezzato l’exploit dei Måneskin?
Ti dico due cose sui Måneskin. Il rock, nella sua forma genuina, prima di ammaestrarsi perché acquistato dal mainstream, nasce come esigenza di rivolta. E non si può fare solo con capezzoli e cerotti. Quello che ho sentito è materiale iper-prodotto, ma credo che il fascino del lavoro di un produttore sia  di avere un diamante grezzo per aiutarlo a crescere. Loro sono talmente prodotti che è difficile esprimere un parere. Non rimane niente dell’espressione genuina. Qualunque disco, anche nell’epoca d’oro, era prodotto. È tutta una costruzione. Ma, come nei film, in alcuni la voce o gli occhi dell’attore o la visione del regista qualcosa ti trasmettono, mentre in altri film no. In questo caso ho sentito un appiattimento, oppure non c’era tanto materiale da valorizzare.

Quali sono i tuoi riferimenti musicali?
In ordine sparso Robert Fripp, Adrian Belew e tutte le emanazioni di King Krimson, anche quando hanno suonato con i Talking Heads e Brian Eno. Livio Magnini ricorderebbe che la mia influenza più evidente è Andy Summers e avrebbe ragione. Aggiungerei anche Brian May, che si sente nel mio modo di suonare ascoltando attentamente. E non posso dimenticare David Gilmour. Tanto che, quando suono ancora oggi, devo fare attenzione a non farmi contagiare dalla “gilmourite”.

Marco Pancaldi e Morgan

Marco Pancaldi e Morgan. Foto: press

Torniamo ai Bluvertigo. Ogni tanto circola la voce di una reunion, lo stesso Morgan ha fatto intendere che ci potrebbe essere la possibilità, ma poi tutto tace.
Non so granché, non sono mai rientrato nella band. La mia motivazione nel 2014 era che avevo risentito la voglia di cimentarmi con un palco di certe dimensioni e la libertà di suonare le mie cose. Per come suono io, bravo o non brano, se ho una organizzazione adatta posso funzionare. Da turnista, cioè in un contesto formalizzato, faccio fatica. Se ascolti bene i Queen, quando arriva l’assolo di chitarra è più forte della voce di Freddie Mercury. L’effetto psicoacustico del disco avviene quando entra Bryan May e persino il cantante fa un passo indietro. In Italia si può fare?

Visto che siamo a poche settimane dal Festival, tu hai partecipato con i Bluvertigo a Sanremo Giovani nel 1994 con il pezzo Iodio. Siete arrivati terzi tra i gruppi e avete mancato di un soffio l’ammissione perché era riservata ai primi due classificati.
Non era ancora uscito il primo album. Il discografico aveva mandato alla commissione il brano e Mauro Pagani, che ne faceva parte, l’aveva sentita e ci aveva voluto. Noi, con l’incoscienza dei 20 anni, siamo andati a suonare ed eravamo abbastanza terrorizzati. Eravamo dei giovani snob, che ascoltavano David Sylvian e Robert Fripp, e ci siamo trovati all’Ariston che consideravamo il tempio di Al Bano e Gianni Morandi. Ma c’è da dire che noi nel terrore riuscivamo a dare il meglio. Ricordo un’ora di soundcheck, che serviva al regista per capire le inquadrature. Siccome eravamo tutti “conigliette di PlayBoy” in quel periodo, ognuno ha provato a mettersi in mostra con il regista per indirizzarlo su chi inquadrare. Abbiamo suonato sei-sette volte Iodio e io ho dato il peggio di me.

In che modo?
Lanciandomi in virtuosismi assurdi, tanto che il chitarrista dell’orchestra, Silvano Chimenti, che fino ad allora conoscevo solo come un musicista in smoking che non si scomponeva mai, ma negli anni ‘70 aveva suonato cose memorabili nel progressive, quando finimmo il soundcheck venne a complimentarsi e in romanesco mi disse: «Ammazza ahò come hai suonato».

Morgan, che non regala complimenti verso molti musicisti, ti ha definito «un genio». Invece chi è per te Marco Castoldi in arte Morgan?
A lui è sempre piaciuto essere un po’ iperbolico. Come disse Robert Fripp, in una band si stabiliscono connessioni profonde, anche quando non vorresti. Tra la persona che ho frequentato assiduamente in quel periodo, ma che ora non frequento da anni, anche rispetto alla sua immagine pubblica, c’è una notevole differenza. Ma credo che capiti per chiunque ha un determinato successo. Detto questo, è oggettivo che Morgan sia un musicista di grandissimo talento. Poi l’ascoltatore ignorante di musica, che si ferma all’esteriorità, spesso non ha gli strumenti per apprezzarlo.

In un incontro pubblico con il chitarrista Livio Magnini, dov’eri presente, sembrava che tutti i componenti della band fossero pronti a tornare insieme, tranne uno.
Che sarebbe Morgan, giusto? Non saprei rispondere, le loro dinamiche sono molto complesse. Negli ultimi anni, con quello che è stato pubblicato hanno mostrato una dinamica poco coesa. Mi sembravano addirittura poco Bluvertigo, forse più aderenti solo alla sensibilità di Morgan. Per questo faccio davvero fatica ad accostare quel materiale all’originalità iniziale della band.

Siamo a Monza, la vostra città, se passasse da qui Morgan per caso e ti chiedesse di tornare nella band e di registrare nuova musica, cosa gli risponderesti?
Ne abbiamo parlato diverse volte negli ultimi tempi, anche se il mercato non si presta. In più lui è pieno di impegni di varia natura e io ho un livello di insofferenza molto elevato verso le logiche della discografia. Ti direi che, buttando il cuore oltre l’ostacolo, si potrebbe anche fare. Ci siamo già detti che dovremmo provare a fare un disco in due. Ma anche questa, visti i soggetti in campo, è una costellazione di elementi molto complessa e non saprei quando mai potrebbe sbrogliarsi.

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