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Marco Fracasia, il «nonno indie» di 21 anni

Adora gli LCD Soundsystem e fa musica fuori da questo tempo. Canta in modo indisciplinato e scrive canzoni viscerali, che sembrano sempre sul punto di esplodere. È uscito il suo primo EP: l’intervista

Foto: Ludovica De Santis

In copertina campeggia una casetta disegnata a mano. Solo questo, niente di più, eppure dietro a quelle poche linee c’è un mondo: quello di Marco Fracasia, giovane cantautore piemontese, e di un EP d’esordio intitolato Adesso torni a casa perché nato in un’abitazione in quel di Rivoli, fuori Torino. «Si tratta della casa di mia nonna, che dista una ventina di minuti da dove vivo con i miei ed è su due piani», racconta il 21enne. «Lei è la mia nonna paterna, si chiama Nunzia e avendo 86 anni al piano superiore non ci va mai, così ho deciso di farci il mio studio: dentro ho strumenti, synth, computer e tutto quello che mi serve per fare musica».

Targato 42 Records e anticipato dai singoli black midi e Ipersoap, il disco non è che un primo biglietto da visita per Marco, ma c’è qualcosa che colpisce in queste sue prime cinque tracce di cui firma musiche e testi, arrangiate e prodotte con Marco Giudici: un immaginario sognante ma sfacciato, sostenuto da un sound tra lo-fi, indie e dream pop, condito da un’elettronica alla LCD Soundsystem, la band di James Murphy per la quale Fracasia nutre un’ammirazione quasi maniacale. Per sua stessa ammissione: «Degli LCD amo il culto per gli strumenti musicali e il fatto che siano molto diretti nelle canzoni, per cui se in un pezzo ci sta un suono sporco va bene così, non sarà puro perché c’è sempre una componente frequenziale, però ce lo teniamo. E questa roba qui sono io. Senza contare che sono una delle poche cose che mi emozionano davvero. Ma nel senso che se ascolto alcuni loro brani in certi momenti scoppio a piangere. Mi è capitato di recente mentre ero fuori col cane con Oh Baby. E in altre occasioni con All My Friends, New York, I Love You But You’re Bringing Me Down, Christmas Will Break Your Heart. Purtroppo non li ho mai visti live, ma a luglio suoneranno a Londra e ci andrò, devo fare il passaporto. Nel frattempo mi sono comprato Shut Up and Play The Hits, il documentario sul loro concerto del 2012 al Madison Square Garden, e a volte passo intere notti a guardarlo».

Questo il lato nerd di Marco, ma ascoltando Adesso torni a casa si percepisce che al di là delle influenze la sua è una scrittura intima, viscerale, che lo porta ad andare sempre da qualche altra parte rispetto ai suoi stessi ascolti, a dare vita a canzoni che banalmente catturano perché suonano vere, complice anche uno stile vocale tutt’altro che impostato, un modo di cantare un po’ sbilenco, traballante, che pare costantemente sul punto di deragliare, ma che proprio per questo trasmette un calore che trattiene. «Questi brani sono venuti fuori in maniera spontanea in momenti in cui ero arrabbiato e mi sentivo sotto pressione, magari mi svegliavo al mattino con un’idea in testa e senza nemmeno accorgermene dopo poco avevo la canzone in mano», dice Marco, precisando che il titolo dell’EP rimanda anche a questo: «Il fatto è che quando esco e vedo le persone, mi rendo conto di alcune cose che non sopporto e alla fine ho solo voglia di tornare a casa. Non so, è che non mi trovo mai bene, sarà che nella testa ho delle idee diverse dagli altri, ma dopo poco voglio sempre tornamene indietro, nel rifugio dell’orso (ride)».

Tale senso di inadeguatezza – se così vogliamo chiamarlo – è fonte d’ispirazione e fulcro tematico di un mini album dai testi evocativi, la cui forza risiede in una sintesi comunicativa in bilico tra sensibilità e sfrontatezza. “Per pensare un viaggio servono le palle, i coglioni, l’incoscienza”, recita l’incipit di Adesso torni a casa. “Hai provato a imitarli, ma nessuno ha capito e ti senti come fossi da solo”, canta Fracasia in black midi. “Il mondo mi ha sparato in testa, sparato alla tempia”, continua in Ipersoap. «In Solfeggio dico anche “siete tutti stupidi, sono l’unico sano” e il motivo è semplicemente che voglio farmi i cavoli miei, voglio fare solo quello che mi piace», commenta lui. «Può essere che quando avrò 30 anni, leggerò queste parole e me ne vergognerò, ma per ora è così, alla fine il mio non è che lo sfogo, anche se detesto questa parola, di un… di un giovane adulto? Cosa si è a 21 anni? Di un 21enne arrabbiato, comunque».

Qualcuno potrebbe vederci un’attitudine punk. «Me lo hanno fatto notare in parecchi e in effetti in passato una band punk di quelle fallimentari l’ho avuta, ma non c’è nessun rifiuto o disagio in quello che faccio, è solo questione di sapersi adattare non rompendo le scatole e facendo le cose come si vuole. Non so come spiegarlo, ma il punto è che se con i miei amici mi va di mangiarmi una pizza per strada e sedermi a terra lo faccio, così come una volta, con il mio ex gruppo, ci siamo sbucciati un salame sul palco e ce lo siamo mangiati. E lo stesso accade con la musica, tant’è che nel mio EP non c’è un ritornello, non c’è una parte che si ripete a ruota. Anche l’artwork l’ho fatto con la matita dopo aver preso una tela da dipingere da Tiger, nonostante non abbia mai dipinto in vita mia».

Si lega a questo anche un certo fastidio per alcune dinamiche sottese alle piattaforme di streaming. «Detesto che un brano abbia più ascolti di un altro solo perché sta dentro a una playlist, preferirei che la gente arrivasse alla mia musica dopo aver fatto delle ricerche, più liberamente. Poi so bene che adesso funziona così, ma devo ancora capirlo, questo meccanismo. Sarà che dentro di me ho un quarantenne, ho appena comprato l’ultimo album degli Spiritualized. Sì, è così, sono il nonno indie che ascolta i Tortoise in macchina. Non è che abbia nostalgia di un passato che non ho vissuto, no, non sono uno che va in giro a dire che la trap gli fa schifo o cose del genere, è più come ci si pone che non mi piace. Cioè, non mi va di fare la storia su Instagram dove annuncio che sono finito nella playlist tal dei tali, m’interessa solo che le cose siano vere, pure, oneste, genuine, sane».

Parla così, Marco, alle spalle un pezzo di strada con i Baobab!. Si capisce che non ha nessuna voglia di essere etichettato, catalogato. «È che ho ancora tanto da scoprire, questo EP rappresenta solo una piccola parte del potenziale che spero di esprimere in futuro». Si tratta di crescere senza tradirsi, in fondo, ma tenendo i piedi ben piantati a terra. Anche studiando: «Tre anni fa mi sono iscritto al Conservatorio Verdi di Torino, imparare mi stimola, magari m’invento ogni tipo di scusa per evitare le lezioni di storia della musica, ma a tecniche compositive vado volentieri: conoscere gli aspetti tecnici è fondamentale se vuoi avere consapevolezza della materia che stai maneggiando, di ciò che fai quando sei in studio. Non è un caso che il primo e l’ultimo pezzo di Adesso torni a casa siano in 6/8, è una cosa pensata. Idem per il rullante in black midi: non è lì per gli LCD Soundsystem, perché voglio il rullante come la drum machine che hanno loro, ma perché magari a un esame di composizione ho usato tanto il rumore bianco e allora mi sono detto “prendiamo un campione di questo e mettiamolo nel provino”, e poi “cavolo, sta bene”, e poi “anche James lo usa!”. La musica è idea, pensiero, e quando riesco a chiudere una canzone mi sento soddisfatto. Poi ci sono giorni in cui questo EP non mi convince e altri in cui penso che sia la cosa più bella del mondo, ma l’importante è che mi rappresenti: io sono proprio così».

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