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Manuel Agnelli, ‘Lazarus’ e la musica di oggi, «che è necessaria anche se non vi piace»

In vista della prima teatrale di 'Lazarus', Manuel Agnelli ci ha spiegato il suo rapporto con David Bowie e perché, proprio come lui, pensa che essere al sicuro è l’ultima cosa da desiderare

Foto: Laila Pozzo

“Turn and face the strange”, che potremmo tradurre liberamente con “girati e affronta l’ignoto”, non è soltanto un verso tratto da Changes di David Bowie – manifesto della stagione 2022-2023 di Emilia Romagna Teatro ERT/Teatro Nazionale – è anche ciò che Manuel Agnelli fa ogni volta che sembra percorrere una strada sicura, ormai in discesa. Dall’uscita dal mondo indie, nel quale era una icona, agli arrivederci che spesso somigliano a degli addii a X Factor, dove era riuscito a utilizzare la tv rimanendo tutto sommato sé stesso, così con gli Afterhours che, ci ha spiegato, sono «un progetto di artisti con un bagaglio di esperienze molto diverse che ogni tanto si ritrovano e fanno cose». E si potrebbe andare avanti a lungo scorrendo la sua biografia.

Forse anche per questo atteggiamento, più che per la sua notorietà, il direttore di ERT Valter Malosti, che in proposito riveste i panni di regista, ha scelto lui come protagonista di Lazarus, l’opera considerata «il regalo d’addio di David Bowie al mondo» che andrà in scena per la prima volta in Italia al Teatro Bonci di Cesena dal 22 al 26 marzo (e ancora Modena e Bologna per proseguire in una lunga tournée). E Agnelli, nonostante non abbia mai lavorato a teatro come attore, non ha potuto fare a meno di accettare, proprio per continuare a voltarsi e affrontare l’ignoto.

Lo abbiamo incontrato a margine della conferenza di presentazione, e ci ha spiegato il suo rapporto con Bowie («che passa attraverso l’energia»), così come tanto altro: dalla scena indipendente che oggi «è diventata roba per collezionisti di francobolli» alla musica attuale che, a differenza di Francesco Guccini, non considera inutile («il suo è un parere da vecchio»), passando per Sanremo («è tornato a rappresentare il mercato musicale») al rapporto con la figlia Emma («mi fa rivivere certe esperienze, ma è anche un tranello»), fino a confessarci una cruda sintesi di ogni questione: «Chi vince scrive la storia, anche se non ha sempre ragione».

Manuel, durante la presentazione dello spettacolo hai detto: «È la prima volta che recito a teatro, mentre invece nella vita lo faccio sempre». Cosa intendevi?

È una battuta, ma è vero che a tutti noi capita di interpretare dei ruoli nella vita. Da quando andiamo dal direttore di banca a chiedere un mutuo a quando siamo interrogati a scuola o dobbiamo affascinare una ragazza che ci piace. In questi casi siamo più o meno efficaci. Quando invece ci dicono cosa siamo costretti a interpretare è molto più difficile. Ormai a 57 anni nella vita sono abituato a recitare diverse parti, a teatro invece per me è ancora un altro sport.

Anche rispetto al cinema, che in qualche modo hai frequentato?
Decisamente più difficile del cinema. Nel teatro non si può rifare o correggere. È persino più difficile della vita dove, se sei fortunato, a volte te lo permettono.

Si è parlato di come Bowie ha affrontato la morte, cioè sublimandola con l’arte. Tu con l’album degli Afterhours Folfiri o Folfox, uscito nel 2016, hai compiuto qualcosa di analogo ispirandoti alla scomparsa di tuo padre. È stato anche questo un punto di unione con Lazarus?
Qualcosa che ci unisce è sicuramente l’energia. Bowie era protagonista delle canzoni che scriveva, mentre nel disco il protagonista è mio padre, una terza persona, non io. Sicuramente il voler vivere la morte, anche se sembra una contraddizione, è quello che ci unisce. Cioè il non lasciarsi schiacciare passivamente da quello che succede, che è il grande messaggio di Bowie. Per me era inevitabile, non ero io a morire e quindi ho dovuto vivere quel passaggio in maniera obbligatoria, comunque credo che l’energia reattiva possa essere il nostro fattore in comune.

Manuel Agnelli e Valter Malosti. Foto: Laila Pozzo

Nella musica abbiamo assistito alla quasi sparizione della scena indie. È un bene o un male?
Se è un bene o un male è indefinibile. È un bene che non ci siano più steccati, ma è anche un male perché non ci sono più filtri. Oggi possiamo accedere a qualsiasi cosa ma questo non ha migliorato la qualità della musica che ascoltiamo. I ragazzi possono accedere a moltissimo materiale al quale io non potevo accedere, ma tutto questo ha ucciso il mistero che avvolgeva certi artisti. Ci sono pro e contro. Cosa è meglio? Non spetta a me dirlo, ma sicuramente alle future generazioni.

Il 13 marzo hai compiuto 57 anni, come affronta questo passaggio un artista arrivato alla tua maturità?
Io ho vissuto molto bene in passato il riconoscermi in un gruppo sociale, mi ha aiutato a definire la mia personalità, cosa volevo veramente e poi anche a liberarmi da quel gruppo sociale, cioè l’indipendenza, quando è diventata una gabbia con regole sempre più restrittive. Ma non posso negare che mi abbia aiutato tantissimo a sviluppare la mia personalità e la mia idea di musica. Nello stesso tempo mi dispiace che non esista più una realtà alternativa al mercato globale e a un certo tipo di società. Oggi non ci sono più quelli che rivendicano l’appartenenza all’underground e quello attuale è diventata una scena di maniera, dove è importante suonare in un certo modo, ascoltare un certo tipo di dischi, che produce contenuti sciocchi e stupidi, sopratutto per un adulto. Si è trasformata in roba per collezionisti di francobolli, con tutto il rispetto per i collezionisti di francobolli.

Ampliando il discorso, poco tempo fa Francesco Guccini ha definito la musica che sente oggi inutile più che brutta. Sei d’accordo?

No, questo è un parere da vecchio! Da una persona che ha giustamente rivendicato la sua grande epopea, perché è stato un grandissimo, ma che dimentica che quando è arrivato il punk molti adulti pensavano la stessa cosa: disgustoso, senza senso, non sanno cantare e suonare. Ma si veniva da anni di prog, quindi se non avevi capacità tecniche incredibili sullo strumento non potevi suonare e il punk ha liberato una serie di energie. È stato necessario, così come la musica di oggi. Può non piacerci, ma è necessario che ci sia.

Nel 2009 con gli Afterhours hai partecipato a Sanremo portanndo Il paese è reale. Quanto è cambiato il Festival di oggi in poco più di un decennio?

È cambiato molto. Oggi, per quanto possa non esprimere il massimo della qualità musicale, è tornato a rappresentare quello che succede nel mercato in Italia. Rappresenta la musica italiana. Fa schifo? Però la rappresenta molto bene. Quando è stato creato era il festival della canzone, poi per anni è diventata una kermesse televisiva, secondo me fallendo l’obiettivo, e involgarendosi. Ora può non piacerci cosa rappresenta, ma è una fotografia. Anche se non bella, lo è e quindi ha un senso.

Grazie al tuo lavoro con loro a X Factor e poi a Sanremo e all’Eurovision i Måneskin sono esplosi in tutto il mondo. Come te li immagini tra dieci anni?
Degli splendidi trentenni…

E gli Afterhours tra dieci anni?

Degli splendidi quasi settantenni…

Ma come si possono definire oggi gli Afterhours?
Un progetto musicale di artisti con un grosso bagaglio di esperienze molto diverse che ogni tanto si ritrovano insieme e fanno cose che solo in questo contesto potrebbero fare. Dal punto di vista espressivo è un progetto molto vivo. Certo, sono lontanissimi da una band di studenti che vive 24 ore su 24 le stesse esperienze. Per noi non è più così da un sacco di anni.

Di certo sarà stata una esperienza forte collaborare con tua figlia Emma, che ha duettato con te nel brano Lo sposo sulla torta.
Devo prima di tutto stare attento come padre a non vivere sue esperienze come se fossero mie, ma fargliele vivere direttamente. C’è un confine da mantenere. È molto invitante vedere che mia figlia sta provando alcune delle esperienze che ho vissuto io, ma paradossalmente con più consapevolezza. Le fa rivivere anche a me, me le rinfresca, ma è anche un tranello. Non voglio essere io a indirizzarla per poi riviverle. Lei è speciale per me, essendo mia figlia, ma ultimamente sono molto orgoglioso che anche chi non era nelle mie squadre a X Factor mi cerchi per collaborare, da Casadilego a gIANMARIA. Per me è bellissimo, vuol dire che, anche se giovanissimi, hanno riconosciuto che posso essergli utile per crescere.

David Bowie disse: «Essere al sicuro è l’ultima cosa che voglio. Voglio andare a letto tutte le sere dicendo “se non dovessi più svegliarmi, posso almeno dire di avere vissuto da vivo”». È questo il tuo atteggiamento alle forme d’arte che cerchi di frequentare anche rischiando, da ultima il teatro?
Sì, io ho fatto musica per fare quello che volevo nella vita, non per farlo nella musica. Per me esiste prima la vita e poi la musica. Sono poco artista in questo senso. Non vivo per l’arte, uso l’arte per la vita. Ma è anche un patto pesante, perché dipendo dalle forme artistiche che per me sono vitali.

In Lazarus Bowie canta: “Proprio come il bluebird (l’uccellino azzurro simbolo di libertà, nda) / Ora non è proprio uguale me? / Oh, sarò libero / Proprio come quegli uccellini / Oh, sarò libero / Non è proprio come me?”. È un po’ come il pennacchio di Cyrano. Qual è il tuo simbolo di libertà, se ne hai uno?
Non ne ho, perché finirebbe per diventare una bandiera e quando la diventa si trasforma in gabbia. Sono contro le bandiere. Quindi non ne voglio avere, almeno di così esibite.

Chiudo con una domanda marzulliana, ma che potrebbe generare una risposta valida per ogni questione: chi vince ha sempre ragione, chi perde ha sempre torto?
Per me chi vince scrive la storia, anche se non ha sempre ragione. Quindi chi perde deve per forza subire la storia del vincitore.

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