Mai più senza l’etno lo-fi degli I Hate My Village | Rolling Stone Italia
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Mai più senza l’etno lo-fi degli I Hate My Village

L'EP del supergruppo è stato registrato in presa diretta, «per catturare il momento». È musica sporca, con influenze afro ed elettroniche. Leggete qui per scoprire tutto, anche cos'è il 'Gibbone' del titolo

Mai più senza l’etno lo-fi degli I Hate My Village

I Hate My Village

Foto: Paolo De Francesco

«Vedi, questi sono i limiti della tecnologia, alla fine finisce sempre per farti impazzire». Con Adriano Viterbini scherziamo sui limiti tecnologici (in particolare sui limiti delle chiamate WhatsApp di gruppo) perché continuiamo a perdere la linea con Fabio Rondanini. «La tecnologia è infame perché non è mai impeccabile, uno pensa che lo sia ma invece è imperfetta, come noi essere umani tra l’altro». E come il suono dell’ultimo EP degli I Hate My Village, aggiungo io. Inciso su un registratore analogico a quattro tracce in presa diretta, per un feeling ricercato, sporco, analogico – umano appunto. Quattro tracce pubblicate da Tempesta International: Yellowback, Gibbone, Ami e Hard Disk Surprize.

Il progetto del chitarrista romano fondatore dei Bud Spencer Blues Explosion e del batterista di Calibro 35 e Afterhours con Marco Fasolo e Alberto Ferrari (quest’ultimo non è presente nel nuovo EP, ma sarà in tour col gruppo, ndr) è arrivato alla sua seconda uscita: Gibbone segue l’omonimo album di debutto del 2019. Adriano mi spiega come «questo EP è arrivato un po’ da sé. Avevamo fatto degli esperimenti su questo registratore a cassetta prima della pandemia e sia Fasolo che Fabio ci avevano intravisto un potenziale. Poi riascoltando tutti insieme effettivamente ci siamo resi conto che valeva la pena di pubblicarle, è anche un modo di fare molto contemporaneo. Per dire, ci sono etichette africane che registrano interi dischi su WhatsApp. Ci affascinava usare tecnologie alternative per catturare il momento e la performance per quello che è, non per quello che diventa producendo a posteriori in modo estenuante».

Un suono che si mantiene all’interno della cifra stilistica del progetto, tra ispirazioni africane e suoni abrasivi quasi punk, ma che va anche in direzioni nuove. «Yellowblack, il singolo e brano d’apertura, ha anche questa funzione qui, di ponte tra il primo disco e questo secondo lavoro. In Gibbone esploriamo territori diversi, quasi ambient, etno lo-fi». Aggiunge Fabio come «quello dell’EP era forse il miglior modo di far uscire questi brani, forse di difficile collocazione all’interno di un album più esteso». Quindi c’è già tanto altro materiale pronto, per un album vero e proprio? «Con Adriano e gli altri ci vediamo ad intervalli regolari, proprio per il piacere di fare le cose. Stiamo già lavorando ad un album e con questo EP abbiamo scoperti degli ingredienti nuovi che sicuramente arricchiranno anche un lavoro più esteso. Poi in realtà la nostra sperimentazione sta più nell’approccio che in un sistema consapevole. Siamo attenti a curare il set up nei dettagli per poi, al momento dell’esecuzione, essere pronti a catturare un’istantanea del momento. In questo caso poi i limiti dati del supporto usato si sono in realtà rivelate opportunità».

I Hate My Village - Yellowblack

Registrare in questo modo vuol dire che quando si riascolta la take, si sta in buona parte già sentendo quello che è il risultato finale, che finirà sul disco. Una modalità di lavoro a cui non si è più abituati, resa ancora più speciale dall’attitudine all’improvvisazione del progetto. Cosa hanno ritrovato in quelle fotografie sonore di momenti irriproducibili, quando le hanno riascoltate? Adriano: «Ognuno di noi penso che ci ritrovi qualcosa di diverso. Io da quando siamo stati costretti ad essere molto a casa ho ascoltato tanta musica elettronica e come attitudine ce la ritrovo». Conferma Fabio: «Anch’io nel periodo in cui abbiamo registrato ascoltavo tonnellate di musica elettronica, infatti nell’EP non ho toccato una batteria acustica, a parte per il singolo. Sicuramente quello che percepisco è che abbiamo allargato gli spazi rispetto al disco precedente, è tutto molto più dilatato. La cosa bella è che siamo stati spettatori di noi stessi durante l’ascolto. Ci siamo stupiti riascoltando i risultati di cose registrate mesi prima e che non avevamo più riascoltato. Poi dalle due ore di musica che avevamo abbiamo tagliato e selezionato tanto. Ma sempre cercando di preservare il più possibile la genesi di un’idea, il suo essere percepibile all’ascolto».

Il caleidoscopio di influenze intricato e profondo va come detto dalle chitarre e melodia maliane fino alle sperimentazioni ambient in stile Aphex Twin. «Trovare cose che ti piacciono in questo oceano contemporaneo di possibilità e di ascolti è una bella sfida. Spesso sia io che Adriano procediamo per etichette, magari ascoltiamo l’intero catalogo, consumandolo dall’inizio alla fine. Sono tantissime cose che si mescolano l’una con l’altra». Gli fa eco Adriano: «Lo stesso vale per me. Posso dirti che siamo grandi usufruitori di Bandcamp, spesso ci troviamo delle perle, mi vengono in mente Bitter Beat e Sahel Sounds come etichette».

Ma dopo il felice isolamento dello studio di registrazione ora è il momento di pensare all’allestimento di un tour che partirà a fine agosto, il 26 agosto da San Mauro Pascoli (FC), e attraverserà tutta la penisola. «La novità sarà la musica stessa. Quello che abbiamo sempre fatto è che qualunque idea ci possa venire anche durante le prove, poi l’abbiamo riportata dal vivo. Quindi uno spettacolo che sarà nuovo, con materiale inedito che testeremo, proveremo, con cui giocheremo dal vivo. Per il resto troveremo il modo di divertirci con il pubblico come facevamo un tempo, celebrare il momento, anche cazzeggiando volendo, trovando una leggerezza e una forma di intrattenimento». Anche se ovviamente, continua Fabio, «l’aspetto logistico per le questioni anche legate al Covid è molto complicato. Ma siamo veramente contenti, non vediamo l’ora di partire».

A proposito di tour e date, a questo si lega anche il nome del nuovo EP, come mi spiega invece Adriano «quando stiamo in furgone per troppo tempo ad un certo punto succede una cosa che noi chiamiamo “gibbone”. Uno stato d’animo che si manifesta quando ti senti costretto in uno spazio chiuso. Sarà che abbiamo passato tutti un anno in gabbia e solo ora stiamo un po’ ripartendo o il fatto che “il passo del gibbone” è in sintonia con la musica (ridono), comunque ci sembrava simpatico chiamarlo così».

Parlarne ora poi sembra un’utopia, ma la musica degli I Hate My Village ha un’intrinseca vocazione internazionale, anche grazie al magma sonoro prevalentemente strumentale che coinvolge anche il modo in cui la voce è arrangiata e trattata. Chissà che in futuro non si possa pensare a collaborazioni o un tour. «C’è una fan base abbastanza larga che ci segue dall’estero, abbiamo anche avuto diversi riscontri interessanti con etichette di fuori. È un lavoro enorme che ci piacerebbe intraprendere, ci fa piacere anche tu senta questa vocazione internazionale perché anche noi siamo veramente convinti che lo sia. Sarebbe come intraprendere una nuova gavetta, è uno stimolo molto forte che prima o poi seguiremo».