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Machine Gun Kelly: «Scrivere canzoni è come un orgasmo»

L’abbandono della madre, la depressione cronica del padre, l’abuso di droghe e un dolore senza cui non può nascere grande musica: abbiamo incontrato la stella della trap americana
Machine Gun Kelly Foto Facebook

Machine Gun Kelly. Foto via Facebook

Machine Gun Kelly, al secolo Richard Colson Baker, è un rapper americano, provenienza East Coast: nasce a Houston, ma finita la scuola media viene adottato da Cleveland e vi si lega al punto da dedicarle, nel 2010, il brano omonimo, successivamente utilizzato come inno dai Cavaliers durante gli home games. A 27 anni può vantare tre album ufficiali, (il più recente, Bloom, è uscito lo scorso 12 maggio) e il rispetto della scena hip-hop americana e internazionale. Altre notizie biografiche sono sparse un po’ ovunque nella rete, quello che lì non si trova è l’iridescente personalità del rapper, frutto anche di un’infanzia resa difficile dall’abbandono della madre e dalla depressione cronica del padre, cui è seguito l’abuso di droghe e l’addio alla scuola negli anni della high school.

Elemento parallelo, ma complementare, è ed è stata la sua passione per il Rap. I maestri DMX e Eminem, che ancora lo accompagnano lungo la strada, hanno mostrato la via d’uscita e Richard è stato bravo a prenderla. MGK porta dentro di sé l’inquietante tradottosi nel meraviglioso, il contrasto e l’ossimoro si esprimono nella sua figura, tra un’attitudine punk a tinte scure e i colori apollinei della “Tentazione di Sant’Antonio”, Salvador Dalì, dipinta per intero su tre quarti di schiena.

Lo incontro nel backstage del palco laterale del Carroponte di Milano per un’intervista concordata poco meno di un’ora prima, e un po’ mi spaventa: è molto alto, dalla vita al petto ha tatuato un blocco di muro con al centro la “A” anarchica, sopra di questo un angelo prende il volo. Qualcuno gli parla ma lui risponde conciso, mi chiedo se l’abbiano avvisato dell’intervista, se non mi manderà al diavolo. Quando ci presentano sono costretto a demolire tutti i castelli mentali sopracitati, sorridente mi stringe la mano e chiede conferma: “Rolling stone Italia?” “Sì,” rispondo, e allora mi abbraccia domandandomi se ho letto l’articolo che gli hanno dedicato sulla rivista statunitense, se mi è piaciuto. E’ davvero entusiasta.

Prendiamo posto ad un tavolo, lui estrae una busta con dell’erba verde fluo, ne rolla una buona parte in una cartina extra large, accende e iniziamo.

Machine Gun Kelly. Foto via Facebook

Allora, congratulazioni! Soddisfatto della pubblicazione?
Assolutamente, all’inizio non ci avevo nemmeno creduto. Ho subito pensato a Quasi Famosi, uno dei miei film preferiti, uno di quelli con cui sono cresciuto, e quando ho ricevuto la telefonata dalla redazione è stato un grosso Damn! I’m getting that. Mi capisci? Rolling Stone vuole mandare qualcuno per parlare con me, vedere come è davvero la mia vita, sul serio? È stato un sogno che diventava realtà. Sono sincero, non è facile vivere dentro tutto questo. Ci sono stati tanti alti e bassi, tutti i giorni, e penso che il fatto di essere riuscito a lottare contro tutto e tutti, a sopravvivere in un certo senso, abbia ispirato gli altri. Il fatto che qualcuno ne voglia una testimonianza, la mia in particolare, è grandioso. Spero di essere sulla loro copertina, la prossima volta in cui parleremo.

Insomma non te l’aspettavi, come ti spieghi il fatto che si siano fatti avanti proprio ora?
È stato merito di Cameron Crowe, che per altro è il regista di Quasi Famosi. Lui sapeva che Rolling Stone non aveva ancora parlato di MGK ed era convinto si stessero perdendo una storia, non avevano mai scritto molto su di me. Ho inciso il terzo album e Cameron deve aver detto loro “Ehi, sta succedendo qualcosa di interessante con questo ragazzo, non fatevelo scappare”.

Abbiamo menzionato le quattro pagine dedicate, il tour europeo è in corso e l’ultimo album ha già raggiunto numeri notevoli. In Kiss The Sky chiedi “If this isn’t Heaven, then what is it?”. La domanda è lecita, ma ne fa nascere una ulteriore. Quando il proprio sogno è diventato realtà, non c’è il rischio che non rimanga nulla da inseguire?
Nella canzone 27 mi chiedo la stessa cosa. Perché e in che modo dovrei ancora scrivere canzoni quando ormai sono famoso e il mio dolore è stato portato alla ribalta, consumato? La risposta che mi sono dato è che quando raggiungi il tuo obiettivo devi crearti nuovi problemi da risolvere, nuove montagne da scalare. Lo sai perché le droghe sono un problema così comune tra gli artisti? Perché hanno ottenuto tutto, perché sono felici, fin troppo. Allora devono ricadere nelle tenebre, e devono farlo di proposito. Almeno, io l’ho fatto.

E questo aiuta a creare ancora?
Look man, le canzoni migliori nascono dal dolore.

Suona un po’ autolesionista però.
Forse, ma anche interessante. Da qui la vista è meravigliosa. Quando sei sopra un palco capisci che quello che hai provato, dalle gioie alle sofferenze, soprattutto quest’ultime, ti ha portato lì, e ne vale la pena. Il palco è la droga.

Machine Gun Kelly. Foto via Facebook

Torniamo al tour: hai in arrivo due grosse date in Italia. Prima Padova e poi Roma, rispettivamente 11 e 12 ottobre. Cosa ti aspetti dal pubblico?
Qui da voi si respira un amore per la musica tutto particolare. In questi giorni ho camminato molto per le strade di Milano e l’ho sentito, ho sentito il rispetto della gente, non capita spesso. E penso che tutti qui capiscano che quello che loro sentono per me è totalmente reciproco.

Per un breve periodo di tempo ho vissuto negli Stati Uniti e ricordo che in diverse occasioni mi stupivo, dicevo “mio dio, questa cosa è cosi americana!”
Tipo cosa?

Per esempio gli omaccioni che scaricano il barbecue dai loro pickup truck e si mettono a grigliare sul parcheggio dello stadio di football cinque ore prima della partita. Tu hai già suonato in Slovacchia, Polonia, Germania ed Inghilterra, c’è qualcosa che ti ha stupito nello stesso modo, ma dal punto di vista americano?
Eccome. Anche questo è il bello del viaggio. Ti racconto un aneddoto recente, credo ti farà ridere. Ieri sera sono andato a cena con la crew, eravamo in un ristorante o qualcosa del genere, abbastanza elegante nel complesso. Insomma il fatto è che volevo mi portassero insieme sia l’antipasto che la pasta. Datemi da mangiare! But they were not feeling that, I swear. Erano davvero disgustati, avevano questo sguardo inorridito e dopo qualche tentativo di farmi cambiare idea mi hanno detto “Ti prego, non farlo”.

Gli amici, i camerieri o entrambi?
I camerieri! Non gli piaceva assolutamente il fatto che volessi fare le cose alla svelta. Vi prendete il vostro tempo per mangiare, vero? Il cameriere a un certo punto me l’ha proprio detto in faccia: “Noi non lo facciamo, non è la nostra cultura. Ovviamente possiamo portare i piatti insieme ma…” Insomma era disgustato, non saprei come spiegarlo diversamente. Io volevo solo finire di mangiare il più presto possibile.

Eri di fretta?
Assolutamente no. È che vedi, a me piace fare tutto velocemente. Ci sono solo due cose su cui posso e voglio concentrarmi come si deve, scrivere canzoni e scopare.

Dovendo scegliere?
Entrambe mi rendono euforico. Quando scrivi una bella canzone è come provare un orgasmo, dello stesso tipo di quello che provi a letto… Le volte in cui succede. Per tutto il resto mi piace accelerare i tempi.

Vorrei parlare del tuo ultimo album. Il titolo, Bloom (fiorire/sbocciare, ndr) è piuttosto indicativo, specie se giustapposto a Till I die, ultimo singolo del precedente General Admission. Forse è un viaggio tutto mio, ma ci vedo una specie di metafora tra morte e vita, è così?
C’è stata la nascita di un nuovo Machine Gun Kelly in Bloom, è vero, ma c’è anche continuità. La cosa mi fa sorridere perché in Bloom ho iniziato con un pezzo quanto più possibile arrogante, strafottente e duro (The Gunner, ndr). Dritto sulla faccia di chiunque lo ascoltasse. Questo singolo raccoglie il lascito di Till I die e più in generale di tutto General Admission. Quello che ho voluto dire? Semplice, vattene a fanculo. Guardami, sono sempre io, mi hai conosciuto come l’Alfa e l’Omega (Alpha Omega, seconda traccia di General Admission, ndr) e lo sono ancora, ma adesso c’è anche dell’altro. Questo è il punto, sono cresciuto. Poi l’album procede, cambia la mia voce, e anche il mood dei brani. Nelle ultime 3 canzoni canto, puoi dirlo tranquillamente.

Non tutti gli album portano con sé un messaggio, non è sempre necessario. Ma nel tuo caso lo percepisco, pur non riuscendo ad afferrarlo completamente. A cosa conduce questo cambiamento, cosa significa l’evoluzione in corso?
Significa molto, e ho voluto che questo pensiero si traducesse in un’immagine, quella che vedi nella copertina dell’album. C’è una mano piena di rose, ma sul dorso, prima di arrivare al fiore, le spine trapassano la pelle. E questo è quello che le persone vedono e pensano quando si parla di me. Lo percepisco. Vedono le cose brutte, mi guardano e spesso è come se fossero lì a dire a loro figlio “stai attento a quello, non avvicinarti”.

Machine Gun Kelly. Foto via Facebook

E hai cercato di cambiare quest’immagine?
Non di proposito, se succede è naturale. Con quest’album ti invito ad andare oltre le spine, i fiori sono lì. Volevo farmi conoscere per quello che sono, non esiste una rosa senza spine ed è giusto che sia così. La prima volta in cui fai l’amore, o semplicemente quando conosci una persona nuova: tutto ha un aspetto doppio e in questo è bellissimo. Quando hai ascoltato Bloom dall’inizio alla fine puoi dirlo, questo è Lui.

Confermo.
E personalmente odio quando gli altri artisti non si mostrano così, quando non vedi un’evoluzione, anzi il punto è che non devi neppure vederla, è tutto nell’album, o almeno dovrebbe esserlo. Fuck it! A volte sono il golden guy, altre volte quello con il cuore spezzato, spero si colga questo e quello.

Un membro dell’entourage mi segnala che il tempo rimasto è agli sgoccioli, Machine Gun Kelly è atteso on stage di lì a pochi minuti.
E’ stato un piacere, buona fortuna sul palco.

Resti qui per lo show?

Certo.
Scrivi anche di quello allora, ti farà impazzire.

È seguita un’ora e mezza di rap e rock, una band magistralmente al servizio del microfono con diversi momenti di cui si può dire il viceversa. MGK sul palco raccoglie i frutti del duro lavoro profuso in studio di registrazione e prima ancora sopra un foglio di carta, penna alla mano: come spesso accade, e martedì sera ne è stata ulteriore conferma, il rap trova la sua massima espressione nel contatto con il pubblico, quando il beat è segnato dalla batteria e i testi sono cantati a memoria da una pluralità di voci. La platea ha saltato, urlato, tentato di inseguire la catena di parole di Spotlight in una prova di flow capace di riportare questo genere alla sua dualità essenziale uomo – strumento, tralasciando effetti e modificazioni sonore che rischiano solo di inquinare l’acqua, quando il fiume scorre a dovere.

Lungo il corso del live Bloom è stato sciolto quasi per intero, intervallato nei momenti opportuni dai pezzi di sempre, quelli attesi e irrinunciabili. L’arrivederci è stato dato sulle note di Till I Die, con MGK che gioca sul bluff di concludere la serata prima della sua esecuzione. “Abbassatevi, abbassatevi! And don’t fucking move.” Segue esplosione di gambe e braccia in un salto che inaugura l’ultimo pezzo del concerto, mosso da una scarica di energia continua, che si accresce ulteriormente quando il rapper decide di arrampicarsi sull’impalcatura per raggiungerne la vetta, da dove continua a cantare. Ne scende con un salto per il quale qualche bodyguard deve aver pensato di essere lì lì per perdere il lavoro.

Allontanandosi dal palco sulle note di Trap Paris, su cui MGK balla un po’ mentre guarda la folla scemare, viene da pensare che dopo tutto aveva proprio ragione: avrei scritto di questo live, che ha fatto impazzire me e qualche migliaia di gole, costrette l’indomani a parlare sottovoce.

Scaletta:

Wild Boy
Alpha Omega
Golden God
At My Best
Kiss The Sky
Bad Motherfucker
Spotlight
Sail
Trap Paris
Young Man
Let it go
Bad Things
Let you go
Mind Of A Stoner
Till I die

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