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L’ultimo giro di giostra degli Stranglers

A settembre pubblicheranno 'Dark Matters', a novembre saranno in Italia col loro ultimo grande tour. La morte di Dave Greenfield e del punk, gli ufo e tutto il resto raccontato da Jean-Jacques Burnel

L’ultimo giro di giostra degli Stranglers

Jean-Jacques Burnel degli Stranglers

Foto: Joseph Branston/Bass Guitar Magazine/Future via Getty Images

In collegamento telefonico con il sud della Francia, Jean-Jacques Burnel mi racconta di essere pronto a fare ritorno nel Regno Unito per terminare un paio di tracce alternative che faranno parte delle stampe francesi e giapponesi del nuovo disco Dark Matters. «Sono partito una decina di giorni fa con la macchina per andare in Inghilterra, fermandomi a pochi chilometri da Calais per riposare in un motel e controllare l’esito del tampone. Era positivo e quindi, pur senza sintomi, ho fatto marcia indietro e sono tornato a casa. In pratica è come se fossi andato a Copenhagen senza nessun motivo (ride). Ora sono guarito e posso concludere le parti vocali che mi mancano».

L’album, che uscirà il 10 settembre e che segna il ritorno dei suoi Stranglers a distanza di quasi nove anni da Giants, arriva a compimento di un lungo periodo di scrittura e registrazione, ma soprattutto dopo la drammatica scomparsa del tastierista storico della band, Dave Greenfield, ennesima vittima della pandemia.

È stato un periodo molto complicato, è quasi banale ribadirlo, per voi assolutamente nefasto. Potremmo dire che Dark Matters rappresenta la luce alla fine del tunnel o, per rimanere in tema Stranglers, l’oscurità alla fine del tunnel…
(Ride) Meglio la luce, per questa volta, anche se la zona oscura rappresenta il nostro Weltanschauung, un modo di concepire il mondo che ci appartiene e caratterizza da sempre. Dark Matters però è quasi una resurrezione…

Hai mai pensato che stavolta non ce l’avreste fatta a completare il disco?
Direi di no, nonostante tutto. È successo qualche volta in passato, quando Hugh ha mollato la band per esempio (Cornwell, fondatore, chitarrista e cantante ha lasciato gli Stranglers nel 1990, nda) e gli altri continuavano a interrogarsi sulla qualità del materiale che stavamo producendo. Stavolta è stato diverso, e quando Dave è venuto a mancare, il mio unico pensiero è stato quello di terminare l’album, portare a compimento il lavoro fatto assieme a lui, come tributo alla sua memoria. Ha suonato su otto degli undici pezzi e quindi è ben presente, potremmo dire che è il suo testamento artistico. Inoltre, quasi a sorpresa, il nostro agente ci ha confermato quanto la vendita dei biglietti per i concerti stia andando bene, segno che i fan vogliono ancora venirci a sentire e tributare con noi il giusto omaggio a un amico che non c’è più. Mi piace suonare con gli Stranglers, è la mia vita, e finché ci sarà una risposta così entusiastica continuerò a farlo. Almeno per un altro po’, diciamo…

Avete messo in vendita Dark Matters direttamente sul vostro sito. Significa che farete tutto da soli, senza case discografiche coinvolte?
Non ne sono certo, al momento non mi sto occupando della parte burocratica della faccenda, per fortuna, ma credo che alla fine la Universal sarà coinvolta in qualche modo nella pubblicazione o nella distribuzione del disco. Sono convinto, in ogni caso, che gli Stranglers possano fare a meno di un’etichetta al giorno d’oggi, possiamo contare su un marchio molto forte, i fan ci conoscono e apprezzano, non abbiamo bisogno di una grande promozione, al di là di quella che possiamo agevolmente organizzare da soli e con il nostro manager Sil. Le grandi etichette ormai sono dipendenti dal loro catalogo, che rappresenta la maggior fonte di introito, quindi non hanno voglia e forza di investire su prodotti nuovi, nella maggior parte dei casi almeno.

La copertina è piuttosto particolare, con i quattro moai tipici dell’isola di Pasqua. Ci sei mai stato?
Non personalmente, purtroppo, ma ho un paio di cari amici che mi hanno raccontato la loro esperienza. Mi ha sempre incuriosito l’enigma che sta dietro a quelle statue, di cui ancora si sa poco o nulla. Ci sono molte teorie a riguardo, nessuna certa al 100%, e questo mi riporta al titolo dell’album: molti scienziati sono convinti che buona parte del mondo sia composta da materia oscura che non possiamo vedere, ma solo avvertire.

Un tema che si sposa bene con la vostra storia, caratterizzata da sempre da interessi più o meno espliciti verso l’oscurità, gli ufo, i Men in black. Dave, poi, era un grande appassionato di occultismo…
Hai ragione, è una caratteristica degli Stranglers, anche se non sempre ci ha portato fortuna, anzi. Il periodo Men in black che hai citato tu era stato piuttosto duro e per fortuna ce lo siamo lasciati alle spalle tanto tempo fa.

Proprio qualche giorno fa la CIA ha desecretato moltissimi documenti che riguardano avvistamenti di oggetti volanti non identificati.
Hanno finalmente ammesso di non avere idea di cosa possano essere alcuni avvistamenti avvenuti in passato, sarà interessante vedere se ci saranno ulteriori rivelazioni in futuro. Erano tutte cose che noi pensavamo quarant’anni fa, quando molti ci prendevano per dei pazzi cospirazionisti, solo perché ipotizzavamo che la razza umana non fosse l’unica in un intero universo o che esistessero altre possibili dimensioni oltre le tre che conosciamo. Cose di cui sono peraltro estremamente convinto anche oggi, alla luce dei passi giganti che ha compiuto la scienza.

Philip K. Dick era ossessionato dall’idea di vivere contemporaneamente due vite parallele in due periodi storici differenti e aveva cercato di spiegare più volte i motivi per cui ne fosse certo. Sono teorie affascinanti…
Assolutamente, perché mai non dovrebbe essere possibile? Conosciamo così poche cose, in fondo siamo anche un pianeta giovane, e ogni volta che si fanno passi avanti a livello scientifico si aprono interi universi alternativi di conoscenza. Forse non faremo in tempo a vedere altre scoperte meravigliose, ma è bello pensare che ce ne saranno ancora molte nei prossimi anni.

Quando eravamo ragazzini, almeno io, si guardavano serie tv come Spazio 1999 fantasticando di un futuro in cui ci sarebbero state macchine volanti. Forse abbiamo anticipato un po’ troppo la realtà…
(Ride) Sì, quella era un’idea di futuro poco sostenibile, ma negli ultimi 50 anni ci sono stati passi avanti giganteschi, equivalenti a quelli ottenuti nei precedenti 200 o 300 e questo mi fa ben sperare. D’altro canto, un libro come 1984, invece, aveva pronosticato quello che stiamo vivendo ora: telecamere ovunque, sorveglianza continua, collegamenti velocissimi, ingerenze nella vita privata. Mancano solo i microchip innestati sottopelle e poi abbiamo concluso la mutazione in uomini-macchina…

Abbiamo parlato di “uomini in nero” fino ad adesso senza mai citare quello che resta forse il vostro disco più controverso (e uno dei più belli), The Gospel According to the Meninblack, appunto. Fu un insuccesso annunciato, all’epoca…
I critici lo odiarono fin da subito, non che avessimo mai ricevuto grandi complimenti dalla stampa, ma per quel caso si trovarono quasi tutti d’accordo a definirlo un album molto strano e involuto, cosa che io non penso fosse. Fu il punto massimo di sperimentazione a cui arrivammo, considerando anche la tecnologia piuttosto limitata di quegli anni. Al di là del periodo sfortunato, lo ritengo ancora un successo personale e ne sono molto soddisfatto.

Con i dovuti distinguo, anche il vostro nuovo disco si spinge in territori inesplorati, tra pezzi alla Stranglers, strani ibridi, canzoni pop, ballate e persino un breve brano acustico. È difficile guardare alla realizzazione di un disco con occhi sempre nuovi?
Niente affatto, è la cosa più importante, la prima che abbiamo in mente quando componiamo un album. Perché mai dovrei avere voglia di registrare un disco uguale a quello precedente? Al tempo stesso, le impronte digitali sulla scena del crimine sono quelle degli Stranglers, non ci sono dubbi. Siamo in continua evoluzione, diventiamo più vecchi e vediamo le cose con altri occhi e con una prospettiva differente, per fortuna. Non posso pensare di essere un giovane punk di 20 anni, ora sono un vecchio punk (ride). A parte tutto, voglio cercare di essere onesto con me stesso e con il pubblico, senza riprodurre il passato in maniera acritica. Quando abbiamo avuto grande successo, tempo fa, le case discografiche ci chiedevano di continuare a incidere lo stesso disco, una pratica che io trovo in qualche modo perversa, incomprensibile se non dal punto di vista commerciale.

Eppure, ogni singolo brano del vostro repertorio, da quelli punk ai successi pop di classifica come Golden Brown o Always the Sun, in qualche modo, ha un preciso marchio di fabbrica che lo identifica immediatamente come vostro.
Ti ringrazio, è quello che abbiamo sempre cercato di fare nella nostra carriera. Essere originali e immediatamente riconoscibili è il miglior complimento per una band e non dobbiamo neppure sforzarci di farlo, ci viene naturale. Purtroppo, in giro, vedo moltissimi gruppi totalmente intercambiabili con altri, come fossero assemblati in una fabbrica a seconda dei gusti attuali del pubblico. In questo modo si viene a perdere la propria identità, sempre che ce ne fosse una in partenza…

Sono assolutamente d’accordo, ho sempre pensato che la grande ricchezza della scena punk e post punk in cui siete cresciuti fosse la sua eterogeneità. Nessuno imitava, tutti cercavano di superarsi forgiando uno stile inedito.
Nessuno cercava di avere successo, l’intenzione era di comporre qualcosa di fantastico, di dimostrare al mondo la propria abilità e grandezza. Io volevo essere meglio di qualunque mio collega contemporaneo, mi sarei sparato piuttosto che suonare in una band simile ai Clash o ai Pistols. Doveva essere una cosa differente, ma soprattutto migliore, speravo solamente di poter scrivere una canzone che piacesse a qualcuno, quella era la mia idea di successo.

Da ottobre inizierete di nuovo a suonare dal vivo con il Full Final Tour (passerà anche dall’Italia con due date, il 20 novembre all’Estragon di Bologna e il 21 al Live Music di Trezzo sull’Adda, vicino a Milano, nda). Non sarà l’ultimo, nonostante il nome, vero?
Io amo suonare dal vivo, è la mia vita, se ci pensi, anche se forse è giunto il momento di rallentare un po’, ma finché la gente continuerà ad avere voglia di passare del tempo con noi e venirci a sentire, allora gli Stranglers suoneranno. Le motivazioni non mancano, quella che non c’è più è la voglia di imbarcarsi in lunghi ed estenuanti tour mondiali. Full Final Tour sarà l’ultimo così esteso probabilmente, poi vedremo di suonare con meno costanza e stress. Era una conclusione a cui eravamo già giunti tempo fa, originariamente per via di Dave, la cui salute non era più così ferrea e ci sarebbe piaciuto fare un ultimo giro di giostra con lui prima che si ritirasse. Il destino però si è messo di mezzo e quindi saremo in giro senza di lui. Dave aveva un sacco di ammiratori e “discepoli”, se così li posso chiamare. Proprio uno di loro sarà il suo sostituto per questa serie di date, è un mago delle tastiere e conosce le parti a memoria, d’altronde suonava in una tribute band degli Stranglers. Siamo molto contenti di lui…

Vi siete formati nel 1974 e, oltre quattro decenni più tardi, siete ancora attivi senza esservi mai sciolti e riformati. Che effetto fa?
È molto bello, è cool. Siamo stati famosi e abbiamo avuto successo, poi ci siamo inabissati per un po’, ma abbiamo resistito e siamo ritornati a essere una band di primo piano senza arrenderci. Ora vedo un sacco di gruppi che al primo problema mollano il colpo, ma noi non siamo così. Non ci siamo mai posti il problema di vendere dischi o fallire, ma di continuare con costanza a suonare la nostra musica. Forse è per questo che gli alti e bassi non ci toccano più di tanto. Abbiamo sempre diviso tutto quanto in quattro (o cinque) parti uguali, anche se io e Hugh e poi Paul e ora Baz eravamo i compositori principali. Nel momento in cui un membro del gruppo diventa il leader, i rapporti cominciano a guastarsi e noi siamo sempre stati molto attenti che non succedesse, in modo da evitare battaglie di ego e soldi. Ogni tanto qualcuno ci dice che il punk è morto e gli Stranglers non hanno ragione di esistere, ma noi ci sentiamo perfettamente parte di questo mondo, là fuori ci sono molte persone che vogliono sentire la nostra musica. Ecco perché, nel 2021, siamo ancora in pista, siamo fuori concorso e fuori moda, un universo a parte.

La tua voce gutturale e d’impatto è sempre stato uno dei tratti caratteristici di molte canzoni del gruppo. Dopo aver rinunciato a cantare per un lungo periodo, diciamo quello della formazione a cinque, hai ricominciato a farlo di nuovo. Di quanti brani ti sei occupato in Dark Matters?
Direi Water, And If You Should See Dave…, Down, forse una quarta canzone, ora non ricordo bene. Ho sempre preferito che a cantare fosse Hugh, anche se si trattava di testi scritti da me e quando lui se n’è andato ho perso completamente la fiducia nelle mie capacità vocali. Per questo motivo avevamo preso un vero e proprio frontman, Paul Roberts, che potesse occuparsi di tutti i pezzi, anche quelli interpretati originariamente da me. Poi, quando siamo ritornati a essere un quartetto con l’ingresso di Baz, ho iniziato a sentirmi di nuovo in grado di cantare e, un poco alla volta, siamo tornati alla formula dei primi Stranglers e credo sia un bene. Aggiunge una dimensione diversa al nostro sound, ci permette di differenziare maggiormente le atmosfere. Spesso ci hanno etichettati come un gruppo aggressivo, ma nel nostro repertorio c’è sempre stato spazio per brani differenti e più leggeri, pop, addirittura qualche ballata. Come artista, trovo normale avere sfaccettature imprevedibili e riflettere su ciò che mi circonda.

Sei curioso di testare la resa live dei nuovi brani?
Molto, non vedo l’ora in effetti, anche se dobbiamo sempre stare attenti a calibrare bene la scaletta per non deludere tutti i fan che vengono anche a sentire i classici.

Ci sono brani che non hai più voglia di suonare?
Succede ciclicamente, soprattutto con quelli più famosi e che spesso sono in scaletta. Per anni non abbiamo suonato Something Better Change o Peaches, ma abbiamo così tanto materiale tra cui scegliere che possiamo permetterci di lasciare fuori qualcosa che non abbiamo voglia di suonare.

Siamo quasi alla conclusione, giusto un paio di curiosità. La prima riguarda un film documentario sulla band, Stranglers – The Movie, girato da David Boni e mai uscito ufficialmente. Che fine ha fatto?
Non uscirà mai a meno che Hugh non decida di dare il suo permesso e sbloccare tutto quanto. La cosa buffa è che nel film di lui si parla molto bene, al contrario di me (ride), per cui non capisco davvero il motivo per cui non sia d’accordo con la sua uscita. Io credo che, semplicemente, Hugh non sia felice del fatto che gli Stranglers continuino a essere una band di successo, molto più di quanto lo sia lui in questo momento. Questa cosa lo fa incazzare e l’unico modo che ha per esprimere il suo malcontento è di impedire che esca il documentario. C’è stata solo una presentazione pubblica a Londra, ma sono fiducioso del fatto che, prima o poi, succederà qualcosa di buono. È difficile avere a che fare con Hugh… (sospira).

Quando si parla di voi, si tende sempre a raccontare il periodo d’oro con lui e poi quello del ritorno con Baz, ma mai la lunga parte intermedia con Paul alla voce e John Ellis alla chitarra, come se ci fosse una specie di rimozione psicologica della faccenda. Tu che opinione hai di quella line-up e di quegli anni?
Capisco quello che vuoi dire quando parli di rimozione, in fondo forse è quello che ho fatto per molto tempo anch’io. Non è stato un periodo brillante per me, come membro del gruppo, avevo spinto per avere John perché credevo fosse un vecchio amico e invece, alla lunga, si è rivelato un grosso errore e una stronzata. Paul, invece, ci ha dato una grossa mano e ha tenuto in vita gli Stranglers per molto tempo e di questo gli sono grato. Per me diventava ogni giorno più difficile sentirmi parte della band e quindi non è un momento della mia vita a cui ripenso con particolare piacere, almeno fino all’istante in cui Baz ha sostituito John prima della realizzazione di Norfolk Coast. Lì ho capito che stava succedendo qualcosa di interessante e inaspettato e con lui si è riformato quel legame speciale che c’era all’inizio con Hugh e che ha reso il gruppo così particolare. Inutile negarlo, per me la nostra configurazione migliore è quella a quattro elementi e, anche per questo motivo, sono un po’ reticente a inserire brani di quella formazione nel repertorio live. Magari cambierò idea in futuro, quando avrò 90 anni (ride).

Potreste organizzare un Retirement Tour.
Assolutamente, adesso me lo segno per la prossima riunione con gli altri.

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