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L’ultima intervista di Prince: «Io sono la musica»

Per ricordare la leggenda di Prince nel quarto anniversario della sua morte, ecco il nostro ultimo incontro a Paisley Park, tra chitarre a forma di goccia, il rifiuto di parlare del passato e i sogni di eternità

Prince nel 1982, fotografato da Richard Avedon

È un’immagine abbastanza ordinaria, niente di speciale: un uomo di 55 anni seduto alla sua scrivania alla periferia di Minneapolis che scorre la sua libreria di Windows Media Player su uno sgraziato personal computer della Dell. Al suo fianco c’è un telefono altrettanto ordinario, una candela accesa e un barattolo di una crema dall’aria costosa. Sulla scrivania incombe anche un’enorme e antiquata fotocopiatrice Xerox, mentre da una finestra in fondo alla stanza si vede un’autostrada vuota circondata da alberi spogli e da prati ricoperti di neve. È sabato sera, 25 gennaio 2014 a Chanhassen, Minnesota.

L’ufficio si trova al secondo piano del complesso di Paisley Park, grande oltre 6.000 metri quadrati, di proprietà del tipo piccolino che sta seduto davanti al computer, che lo ha fatto costruire negli anni ’80. Niente di particolare, insomma, ma dal momento che quel tipo è Prince, è affascinante vederlo fare qualsiasi cosa. Più l’azione è assolutamente banale, tipo cliccare sul mouse, più sembra strana fatta da Prince. Ha un’enorme pettinatura afro ed è vestito a strati trasparenti scuri, con un gilet sopra a un’ampia camicia a maniche lunghe, pantaloni attillati neri e scarpe di plastica trasparente con il tacco alto che si illumina a ogni passo. È truccato ovviamente (eyeliner, fondotinta e forse qualcos’altro) e ha i baffi curatissimi che scendono fino a sotto le labbra formando un semicerchio.

Come di consueto, Prince mi ha concesso con pochissimo preavviso l’intervista, che dovrebbe diventare la sua settima cover story di Rolling Stone. Trascorro sette ore a Paisley Park nel corso delle quali Prince mi concede due lunghe chiacchierate molto amichevoli e riflessive. Mi è stato chiesto espressamente di non dire parolacce e di non fare domande sul passato, io ovviamente ho violato entrambe le regole, ma Prince mi ha invitato comunque a raggiungerlo in occasione di una data del suo imminente tour. Però non ha voluto posare per un servizio fotografico, offrendo in cambio al giornale delle foto promozionali molto ritoccate, cosa che rende impossibile l’opzione di una copertina. Faccio comunque la mia intervista, ipotizzando che Rolling Stone conserverà il materiale per la prossima cover story dedicata a lui.

Innanzitutto Prince non dimostra la sua età. In realtà sembra non avere età. È molto magro, ma non ha un aspetto fragile. È un vegano convinto che, come mi racconta lui stesso, a volte si dimentica proprio di mangiare: «Ho passato lunghi periodi senza cibo e anche senza acqua. Le persone che mi stanno intorno mi ricordano sempre di bere, perché io me ne dimentico». Non dorme abbastanza, mi dice, e non fa neanche sesso. Uno dei cantanti più sfacciatamente sensuali che siano mai esistiti (quello che ha cantato pezzi come Jack U Off, Gett Off e Do Me, Baby) insiste nel dirmi che da un po’ di tempo a questa parte pratica la castità, anche se mantiene relazioni con diverse giovani cantanti e cantautrici. Il motivo è in parte religioso, in parte ha a che fare con il risparmio di energie («La voglia e la fame si trasformano in qualcos’altro», mi spiega).

Diciamo che, in questo momento della sua vita, Prince è diventato una specie di allegro monaco musicale. «Io sono la musica», mi spiega. Suonare è il piacere più grande della sua vita, forse l’unico. Eppure è diventato ascetico anche su quello, ha registrato molto meno che in passato e ha fatto passare quattro anni dall’ultimo album, la pausa più lunga della sua carriera. Si è liberato del suo contratto con la Warner Bros nel 1996 e ci ha messo un po’ a realizzare che la libertà voleva dire anche non essere costretto a pubblicare nuova musica. «Oggi scrivo più di quello che registro, e suono molto più dal vivo. Prima registravo qualcosa ogni giorno. Scherzo sempre dicendo che devo disintossicarmi dallo studio. Sono uno che vive sempre nel presente, faccio quello che sento al momento. Non ho un’agenda di impegni da rispettare, non ho legami contrattuali. Non credo sia mai esistito un musicista tanto autosufficiente e privo di obblighi. Ovviamente ho un sacco di persone da pagare e delle spese enormi, per cui devo andare in tour, ma non ho più bisogno di pubblicare dischi». C’è un collegamento diretto tra il celibato, il digiuno e l’astenersi dal registrare dischi: «Dopo quattro giorni senza cibo, ti passa la voglia. C’è qualcosa dentro che ti dice: “Nutrimi, nutrimi”, ma quando capisce che non lo farai sparisce. Con la musica è lo stesso, una volta che hai smesso di fare dischi ti dici: “Aspetta un attimo. Non ne sento più il bisogno”».

Prince mi accompagna nell’ufficio al piano di sopra per farmi sentire le canzoni di Plectrum Electrum, l’album che interromperà il suo lungo digiuno musicale. Per metterlo insieme ha scelto tra le oltre 100 canzoni che ha registrato nello studio al piano di sotto con la sua nuova band, le 3rdEyeGirl, il gruppo più potente e orientato al rock che abbia mai avuto in carriera. «Sono tutti pezzi registrati dal vivo, senza alcun limite di tempo. Vai avanti fino a quando non hai il take che ti piace». Plectrum Electrum non uscirà per almeno otto mesi e a quel punto verrà seguito subito da un album più in stile Prince, intitolato Art Official Age.

Incontro Prince mentre emerge dalla sala prove con le ragazze della sua nuova band. Hannah Welton, batterista, una 23enne spumeggiante che assomiglia a Carrie Underwood, suona come John Bonham e si presenta così: «Ciao, sono Hannah!». Prince scoppia a ridere e la imita cinguettando: «Ciao, sono Prince!», mentre mi porge la mano per una stretta vigorosa da vero uomo d’affari. Quando parla ha una voce profonda, morbida e rilassante come quella di un dj di una radio jazz. Mentre cammina, non mostra alcun segno del doppio intervento all’anca che si dice abbia fatto: non zoppica, non usa il bastone, non si muove male né sembra essere a disagio. Gli occhi marroni sono vigili e attenti, è sagace e rapido nel parlare e nel fare battute. Ripensandoci era praticamente impossibile trovare nel suo modo di fare segnali della dipendenza da oppiacei di cui si è tanto parlato. Mi dice che non avverte il passaggio del tempo e che la mortalità non rientra nei suoi pensieri: «Non penso mai al fatto di non esserci più». Al contrario, è immerso nel presente e concentrato su un futuro creativo che vede lungo e luminoso.

La pausa tra un album e l’altro sembra essere stata salutare per lui, così come la presenza giovane, entusiasta e quasi adorante delle 3rdEyeGirl. Per la prima volta da molti anni ha aperto le porte di Paisley Park ai fan e ha organizzato per loro dei concerti a sorpresa. A un certo punto gira voce che ne farà uno anche stasera, ma poi la cosa finisce nel nulla. Saliamo al piano di sopra, Prince attraversa un corridoio decorato con una specie di rivisitazione fotografica di tutta la sua carriera: c’è il Prince di Batdance, quello con scritto “Schiavo” sulla faccia e persino la copertina di Rolling Stone del 1985 (ricorda di essersi rifiutato anche in quell’occasione di posare per le foto e che noi abbiamo usato un frame di un videoclip che secondo lui gli faceva sembrare i denti strani). «Qui c’è lo spazio per Purple Rain o l’esibizione al Superbowl», dice. Mormora anche qualcosa sul trasformare Paisley Park in un museo. Il punto è che già lo sembra: un enorme spazio buio e semivuoto, gestito da uno staff ridotto al minimo.

In concerto a Philadelphia durante il tour di “Purple Rain” nel 1984

Ci fermiamo davanti a un murale che ritrae Prince in piedi con le braccia aperte sopra agli artisti che lo hanno influenzato o che lui stesso ha ispirato. Mi mette alla prova per vedere se riconosco Chaka Khan e Sly and the Family Stone e mi fa passare il fatto di non aver riconosciuto i Tower of Power e i Grand Funk Railroad. Mette su l’album e gioca con lo schermo grafico del lettore regalandomi un accompagnamento di immagini con una grafica in stile 2002. In un angolo c’è una chitarra portoghese antica a forma di lacrima. Su un tavolo, un obiettivo Canon senza macchina fotografica e un paio di libri: Vanity Fair’s Hollywood e Palaces of Naples. Le pareti dell’ufficio sono dipinte con un motivo azzurro cielo, su una c’è la scritta “Dream Style” e sull’altra è appeso un orologio decorato con la copertina di Planet Earth, il suo album del 2007. È l’unico oggetto che fa riferimento al tempo che ho notato in tutta Paisley Park.

Tra una canzone e l’altra, Prince si lamenta dell’industria musicale che secondo lui pensa a tutto tranne che alla musica: «La prima cosa che cercano è il personaggio. Meglio se fa subito qualche scandalo, partecipa a un reality show o se salta fuori un sex tape rubato. Li costruiscono alla perfezione. Voglio dire, stanno cercando di far passare Justin Bieber per un duro». Mi fa sentire uno dei pezzi più pop dell’album, Stopthistrain, cantato dalla batterista delle 3rdEyeGirl Hannah e da suo marito Josh. Provo a dare un suggerimento: forse andrebbe meglio in classifica se nessuno sapesse che c’è dietro Prince. Lui annuisce: «Il fatto che io oggi mi ritrovi a essere in competizione con la mia stessa musica è una benedizione e una maledizione allo stesso tempo. Non conosco nessuno che sia nella stessa situazione. Prendi Beyoncé: fanno sentire sempre la sua ultima canzone, non quelle vecchie. Io invece vado da Oprah e tutti mi chiedono di fare i pezzi del passato, quelli che tutti ricordano».

Mi fa sentire in anteprima un paio di estratti da quello che diventerà Art Official Age. Quando arriva la ballad The Breakdown si scusa per il testo che parla di un crollo psicologico e sembra essere molto personale: “Facevo festa ogni Capodanno / Ero il primo a essere fatto e l’ultimo ad andarsene / Mi svegliavo il giorno dopo in posti in cui non avrei mai creduto di finire / Datemi indietro il mio tempo, potete tenervi i ricordi”. Più tardi mi conferma che quella canzone nasce «da emozioni nude, molto sensibili. Se le tocchi ti fanno male all’istante».

Poi devo superare un altro test. Incontro le ragazze delle 3rdEyeGirl in una sala scura con in terra un tappeto nero decorato con il vecchio simbolo di Prince e le parole “NPG Music Club” e la motocicletta di Purple Rain in mostra in un angolo. Ci sediamo su un divano viola stranamente logoro e la band mi racconta la sua storia. La bassista, Ida Nielsen, di origine danese e piuttosto taciturna, è entrata per prima nella band funk di Prince, l’ultima versione dei New Power Generation con cui continua ancora a suonare. Prince mi racconta che durante l’audizione ha stracciato il vecchio bassista: «Era otto volte meglio di lui, ed era nuova». Era dal 2010 che Prince voleva una band tutta al femminile, ha cercato a lungo su YouTube e in rete, poi ha ha scoperto Nielsen su MySpace. «Siamo in piena prospettiva femminile in questo momento, tutta la società lo è», mi spiega, «presto avremo anche un Presidente donna. Gli uomini hanno già dato tutto, giusto? Io oggi sento di imparare molto più velocemente dalle donne che dagli uomini. Arrivi a un momento della tua vita in cui capisci perfettamente cosa vuol dire essere un uomo, ma hai idea di cosa vuol dire essere una donna? Sai ascoltare? La maggior parte degli uomini non sono capaci di ascoltare».

Chiedo alla chitarrista Donna Grantis, che ha i capelli rasati da un lato e suona come Hendrix, quali siano le sue influenze. «Prince», risponde lei, diretta. Suo marito, un simpatico rockettaro di nome Trevor Guy, l’ha seguita e adesso lavora a stretto contatto con Prince svolgendo compiti manageriali (anche se Prince è convinto che gli artisti non debbano avere un manager: «Sei un uomo adulto, devi essere capace di badare a te stesso»). Anche il marito della batterista Welton, Josh, un ex cantante R&B diventato produttore, è entrato a far parte della famiglia di Paisley Park e ha collaborato agli ultimi dischi di Prince. Hanno vissuto tutti in un albergo vicino per un anno e mezzo, lavorando per sei giorni a settimana chiusi dentro Paisley Park e alla fine sono diventati delle specie di adepti di un culto benigno: «È come stare in un’altra realtà», dice Grantis, «un universo alternativo, una bolla in cui si fa musica tutto il giorno. Non ho idea di che giorno o che ora sia adesso».

Mi accorgo che Prince si è materializzato dal nulla dietro di me, e ascolta in silenzio. Annuisce e poi sparisce di nuovo nell’oscurità. Io e la band andiamo in cucina, dove ci viene servita la cena, e poi vengo convocato nella control room dello Studio A. Prince mi aspetta seduto davanti al mixer. «Questa sala è stata costruita nel 1987 e il primo disco che ho fatto qui è stato Lovesexy. È molto diverso dagli studi che ho avuto nelle mie varie case o a quelli che usavo a Los Angeles quando avevo un contratto discografico. È un posto accogliente, uno spazio privato, l’ho costruito perché volevo che fosse come la musica che ho in testa e continuo a sistemarlo e a fare modifiche senza mai fermarmi. Credo che continuerò a farlo per sempre, o forse lo faranno le generazioni future». Parliamo di tutto, e il divieto di affrontare il passato si rivela essere poco rigido. Prince ci tiene a dire che è assolutamente esagerato considerarlo il burattinaio dietro ad artisti come The Time o Vanity 6: «C’era grande collaborazione, non era solo la mia visione. Un conto è dire: “Sai cosa sarebbe figo?”, e visualizzarlo, un altro è trovare le persone giuste per metterlo in pratica. Morris Day dei Time è uno dei batteristi più funky che siano mai esistiti. E Vanity? Nessuno diceva quello che diceva lei».

Prince nel 1983: «La perfezione è dentro ognuno di noi»

Si appassiona quando si parla di musica ed è molto lucido: «Rock Steady di Aretha Franklin, Cold Sweat di James Brown, ogni disco della Stax Records, Ike e Tina Turner. Li abbiamo dati tutti per scontati, abbiamo pensato che la musica era quella e sarebbe stata sempre così. Era normale». Spesso si lancia in digressioni difficili da seguire. Ha approfondito gli studi sulla Bibbia, che ha cominciato a leggere dopo essere diventato Testimone di Geova sotto la guida del suo bassista Larry Graham: «La mia fede si è espansa. Credo ancora di più a quello in cui credevo prima». Quando era ancora cristiano ha studiato a lungo anche una sorta di interpretazione afro-centrica della Storia, la fisica del suono, alcune teorie orientali («I chakra sono una scienza», mi dice) e alcune tra le più clamorose teorie cospirazioniste. Ha un’opinione tutta sua sulla morte di JFK («La macchina su cui viaggia rallenta. Perché non ha accelerato?»), sull’Aids («Aumenta presso alcune comunità di persone e in altre no. Anche una scimmia capirebbe perché») e quelle che vengono definite “scie chimiche”: «Prova a pensare a dove appaiono, perché appaiono, quanto spesso e in quali periodi dell’anno». A un certo punto squilla il telefono. È la cantante inglese Delilah. La voce di Prince diventa più profonda: «So che è tardi lì da te», sussurra nel telefono, «ma ti terrò sveglia».

Non è sicuro se si sposerà ancora: «È un’altra di quelle cose che è nelle mani di Dio. È solo una questione di attrazione, di magnetismo. Ci sarà qualcosa che mi spingerà in quella orbita e io non riuscirò più a uscirne». Facciamo una pausa e andiamo nel club che si trova all’interno di Paisley Park, dove le 3rdEyeGirl lo aspettano sul palco. «Io posso suonare la chitarra per te», mi ha promesso poco fa, «e quello che sentirai sarà sesso. Non troverai parole per descriverlo, come quando incontri una donna bellissima». Vuole dimostrarmi che le 3rdEyeGirl sono in grado di attivare i miei chakra. Mi fa sedere sul palco su uno sgabello molto vicino a lui e sceglie una chitarra customizzata Vox, la stessa marca che usava uno dei chitarristi di James Brown. «Tra un secondo sentirai la vibrazione». Attacca un feroce pezzo strumentale fusion anni ’70, Status, e spara una serie di assoli con le note che salgono sempre più in alto all’infinito. Mi aveva avvertito, e aveva ragione. Ho la pelle d’oca. Subito dopo è in programma una session fotografica della band nello Studio C. Una delle foto dovrebbe andare sulla copertina del singolo Stopthistrain, che però alla fine non esce. Prince sparisce e torna con un MacBook in mano e Delilah in chat su Skype. Le mostra il set fotografico dalla webcam.

Quando riprendiamo l’intervista è passata la mezzanotte. Mi racconta che ha invitato Chris Brown a Paisley Park e gli ha proposto di fargli da guida. Gli faccio notare che molti pensano che quello che Brown ha fatto a Rihanna sia davvero imperdonabile. Rimane scioccato: «Imperdonabile? Mio Dio. Questo è uno dei casi in cui dobbiamo rimetterci al Signore Gesù Cristo. Ti è mai capitato di perdonare qualcuno all’istante?». Scuoto la testa. «È la sensazione più bella del mondo, l’altro rimane completamente disarmato». Mi spiega ancora che vorrebbe aiutare e guidare altri artisti, e io non posso che chiedermi ad alta voce se avrebbe potuto cambiare il destino di Michael Jackson. «Non ne voglio parlare», mi dice, «mi tocca troppo da vicino». Poi aggiunge: «Michael è solo uno dei tanti che sono passati da quella porta, come Amy Winehouse e molti altri. Gli esseri umani sono tutti interconnessi tra loro, siamo tutti fratelli e sorelle e non vogliamo che nessuno della nostra famiglia cada. Ecco perché ho chiamato Chris Brown. Tutti dobbiamo essere capaci di aiutare gli altri e sistemare le cose. Non c’è niente che sia imperdonabile». Sembra fare riferimento anche a se stesso, quindi gli chiedo se ha mai avuto comportamenti autodistruttivi. Alza le sopracciglia: «Autodistruttivo? Ti sembro uno autodistruttivo?».

Prince fotografato nel 2015, anno in cui pubblica ben due album

Perché allora non vuole parlare del passato? «Perché la gente mi fa domande tipo: “Perché hai cambiato nome?” e cose del genere. Io sono qui adesso, faccio quello che faccio ora e tutto quello che ho fatto nella mia vita mi ha portato a essere questo. Non c’è un altro posto dove vorrei essere se non qui in questo preciso momento. Voglio stare qui a parlare con te, e voglio che tu capisca quello che ho da dire». E per quanto riguarda ritirarsi un giorno o l’altro? «Non so cosa voglia dire», risponde. «C’è sempre un modo nuovo per servire… mi sembra di essere un professore, ma allo stesso tempo sono anche uno studente. Mi sembra di non avere mai avuto un lavoro vero, quindi il concetto di smettere di lavorare non ha molto senso per me…». Mi spiega perché si vede benissimo a continuare a suonare anche da vecchio facendo una vertiginosa digressione, tra misticismo e Matrix: «La vita dell’uomo si è allungata e una delle ragioni è che impariamo sempre più cose e quindi il nostro cervello fa sempre più connessioni. Arriveremo a una modalità eterna, in cui la nostra mente sarà in grado di contenere l’eternità. Non tutti sono in grado di farlo, ma se riesci ad andare indietro in eterno con il pensiero puoi anche andare avanti in eterno. Tutti pensano a un inizio, al Big Bang, ma se elimini quell’evento dalla tua testa riesci a cogliere il senso dell’eternità. Ricordi in Matrix quando dicono che tutto ciò che ha una fine ha un inizio, e viceversa?».

Sono le due di notte, la giornata di Prince è finita. Mi accompagna nelle profondità di Paisley Park, con le scarpe che brillano nel buio, a recuperare la mia giacca e la mia borsa. Sento piangere delle colombe. Colombe vere, che vivono in una voliera da qualche parte là in alto in mezzo alle travi del palazzo. Indosso la mia giacca, Prince mi invita a raggiungerlo a Londra, dove suonerà con la band. La cerniera si inceppa. «Cazzo», dico. Lui mi guarda con aria ferita. «Avevi promesso di non dire parolacce». Chiedo scusa. Prince mi guarda negli occhi e mi stringe in un forte abbraccio. Come mi aveva anticipato, sono completamente disarmato dal suo perdono immediato. Sento ancora il suo abbraccio mentre esco da Paisley Park e la luna brilla su uno spesso strato di neve immacolata appena caduta.

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