Ludwig Göransson, intervista al compositore che ha stregato Nolan | Rolling Stone Italia
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Ludwig Göransson, intervista al compositore che ha stregato Nolan

Chiodo e capelli da metallaro, il musicista svedese ci ha raccontato i retroscena della colonna sonora di ‘Oppenheimer’, come quando il regista lo ha fissato per ore mentre leggeva sceneggiatura o l’ha chiuso in un cinema tempestandolo di flash

Ludwig Göransson, intervista al compositore che ha stregato Nolan

Ludwig Göransson

Foto press

«Primo concerto visto? I Metallica nel 1994, a Stoccolma. Sono impazzito». Chi parla è Ludwig Göransson, musicista, chitarrista, compositore svedese, vincitore di un Oscar per Black Panther, di due Emmy per The Mandalorian e di un Grammy per il lavoro con Childish Gambino. È uno dei compositori più audaci e distintivi del cinema del XXI secolo.

Tra i contenuti bonus del DVD di Oppenheimer (950 dollari milioni di incassi nel mondo) c’è The Story of Our Time: The Making of Oppenheimer, che getta uno sguardo sul dietro le quinte con spezzoni e backstage che Christopher Nolan ha voluto aggiungere per condividere con il pubblico alcune esperienze dai diversi reparti di produzione (che non sempre hanno la possibilità di mostrare ciò che fanno). Se siete amanti del cinema, non può sfuggirvi una chicca del genere, anche solo per sentire Nolan incazzarsi come una iena e Robert Downey Jr. fingere di non capire e fare esattamente quello che vuole.

Fra le tante curiosità del making of c’è la collaborazione con Ludwig Göransson, compositore extraordinaire che dal suo arrivo a Hollywood, in pochi anni, è diventato uno dei più riconosciuti. Prova della sua bravura sono le colonne sonore da lui composte, elencate per universi cinematografici: Marvel (Black Panther e il sequel Black Panther: Wakanda Forever), il pianeta Rocky (Creed e Creed II), la galassia più famosa del mondo, vale a dire Star Wars (The Mandalorian e The Book of Boba Fett), Pixar (Red) e, per finire, le collaborazioni con uno dei registi più maniacali di sempre, quel Christopher Nolan di cui ha curato le musiche per Tenet e Oppenheimer.

Lo incontriamo all’Aster Hotel, nel cuore di Hollywood. Non ci aspettavamo il classico compositore alla John Williams e neppure uno Zimmer 2.0, ma il kid (il suo soprannome) di 40 anni che ci troviamo davanti, con look alla Lemmy dei Motörhead compresi capelli lunghissimi alla vichinga e chiodo, è l’antitesi del compositore da conservatorio, il risultato di anni di musica ascoltata e suonata a differenti livelli.

Nei primi film, Nolan ha sempre scelto il dio della musica hollywoodiana contemporanea, quell’Hans Zimmer creatore di suoni fragorosi dalla statura monolitica, con il quale ha fatto la trilogia di Batman, Inception, Insterstellar e Dunkirk. Come mai ha cambiato?
Mi ha detto che il film aveva necessità diverse, e che dopo aver sentito la mia musica in altre pellicole gli piaceva la mia sensibilità. Sue parole testuali: “Sto cercando qualcuno che possa incanalare la narrativa e la paranoia della distorsione temporale”. L’ho guardato e sorridendo gli ho detto: “I’m your man” (scoppia a ridere). E poi: “Aspettati un arrangiamento alieno fatto di sintetizzatori tempestosi e il suono rullante di una batteria ansiosa, irrequieta”.

Da dove viene il nome Ludwig?
Papà voleva chiamarmi Albert, come Albert King, mentre mamma amava Beethoven… facile capire chi vince in un matrimonio (ride).

Come hai cominciato a fare musica?
Mamma e papà erano e sono chitarristi. A 7 anni mi regalarono una chitarra. A 9 ho sentito per la prima volte Enter Sandman dei Metallica, ed è stato il loro suono e il loro ritmo a farmi venire voglia di fare musica da grande. Mollato i libri, ho iniziato a suonare la chitarra sul serio, prog, jazz, classica, hip hop… Ho suonato in un po’ di band finché non mi sono appassionato al jazz e mi sono avvicinato alla musica classica. Ho avuto modo di scrivere un pezzo per un’orchestra sinfonica per un film, e la cosa mi è piaciuta moltissimo. Sono quindi passato dal suonare a scrivere musica. Adoro scrivere jazz, classica, metal. Sì, anche pop. Visto il mio background volevo scrivere per tutti i tipi di musica, e ho capito che nella colonna sonora di un film puoi fare qualsiasi cosa. Per inciso, Morricone è il mio compositore preferito.

Come ti approcci alla scrittura della musica per un film?
Per me tutto inizia dalla sceneggiatura, dalle emozioni che trasmette. Nel caso di Oppenheimer, ho ricevuto una telefonata da Christopher Nolan nella quale mi invitava da lui a leggere il copione. Entro e lo leggo. Ci ho messo ore ed ore, con Nolan seduto davanti a me in assoluto silenzio. Mi sono venute sul momento un sacco di idee, e ho cominciato a pensare/scrivere la musica basandomi solo sulla sceneggiatura.

Come è andato avanti il lavoro?
Io e Nolan ci incontravamo una volta alla settimana, ogni volta gli portavo cinque minuti di musica nuova da fargli ascoltare. Analizzavamo il tutto partendo da come/perché ero risalito a quei suoni, e iniziavamo a parlare della musica correlata a delle possibili immagini. E così quando Nolan ha iniziato a girare, dopo settimane e settimane di incontri, aveva già a disposizione un paio d’ore di musica già approvate e scritte tre mesi prima dell’inizio delle riprese.

Quanto ci hai messo per comporre il film?
Nove mesi, il tutto per dargli due ore e 40 minuti di musica.

Che tipo di film, dal punto di vista musicale, è Oppenheimer?
Veleggia, s’inalbera, sale sempre di più, si gonfia, fluttua, a volta grazie a un solo strumento, altre volte all’intera orchestra. Mai fatto un lavoro simile.

È vero che Nolan ti ha suggerito l’uso del violino?
Sì, in maniera molto enfatica anche (ride). Col violino puoi passare in una frazione di secondo dal tono melodico più romantico al trasformare un tremolo in qualcosa di nevrotico e maniacale. Siccome voleva un violino e visto che mia moglie Serena è violinista, le ho chiesto di collaborare con me, come primo violino ovviamente. I violini sono molto usati nei film horror, e Serena ed io abbiamo cercato di prendere quella tecnica dei cluster horror e trasformarla in un bellissimo vibrato melodico che però doveva corrispondere, dal punto di vista musicale, solo alla figura di Oppenheimer, visto che nel film vediamo il mondo attraverso i suoi occhi. Dopo aver letto la sceneggiatura, ho capito che Oppenheimer era un genio, ma con dei demoni nascosti. Il suo umore, a causa della fragilità mentale, cambia spessissimo nel film, stava a me trovare della musica in grado di far sentire a disagio il pubblico. Vuoi che lo spettatore entri nella sua mente, in questo mondo, e lo veda attraverso i suoi occhi.

In che modo si sviluppa la musica?
Tecnicamente la colonna sonora segue essenzialmente tre movimenti, per riflettere le fasi del film. La prima quando Nolan segue l’amore che Oppenheimer ha nei confronti della fisica, nella costruzione della bomba atomica e nel Trinity Test a Los Alamos. Il secondo movimento è invece centrato sull’udienza della Commissione per l’energia atomica degli Stati Uniti, intrecciata in diverse linee temporali. Il terzo, quello più bello, segue la storia d’amore di Oppie con Kitty (Emily Blunt) e il rapporto con Jean Tatlock (Florence Pugh).

Che altri suggerimenti ti ha dato Nolan?
Prima di farmi cominciare mi ha portato in un cinema IMAX, dove ha proiettato alcuni degli esperimenti visivi a cui stava lavorando. Mi ha tempestato con una lunghissima ripetizione di luci fluorescenti che non mi aspettavo. Alla fine della proiezione mi ha detto che sia il sentimento che il ritmo e la violenza di quei lampi dovevano essere in qualche modo trasformati in musica. Così ho capito che avevo bisogno di un’orchestra d’archi, ma anche che il mio compito più grande era quello di catturare l’energia e il movimento attraverso il tempo.

Una cosa che hai imparato dalla tua esperienza personale e che ti è servita per Oppenheimer?
Come gli attori si rifanno ad esperienze personali e/o fittizie per creare i personaggi. Questo è un film incentrato sulle gioie, i dolori e i segreti di Oppenheimer, lo vediamo soffrire d’ansia, di depressione, lo vediamo mentre si sente incompreso. Ho capito che avrei dovuto mettere il pubblico nella sua stessa condizione emotiva e che avrei dovuto ricorrere ai miei sentimenti di solitudine, di imbarazzo, di non appartenenza, qualcosa che ho sentito quand’ero molto giovane. Sono ritornato ai ricordi, ai sentimenti e alle emozioni della mia infanzia.

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