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Lucy Dacus è spudoratamente sincera

Viaggio nell’album ‘Home Video’ in cui la cantautrice americana del giro di Phoebe Bridgers e Julien Baker racconta senza filtri le storie della sua adolescenza, fra Dio e la scoperta di sé

Foto: Ebru Yildiz

Quand’aveva 13 anni Lucy Dacus ha passato l’estate in un campo religioso in Virginia, dove abitava. Di quell’esperienza ricorda le prediche sull’astinenza sessuale, le messe con le canzoni religiose «con un che di erotico» e il talent show in cui cantò Chasing Cars degli Snow Patrol con l’accompagnamento di cinque amici alla chitarra. Ma soprattutto ricorda il suo primo ragazzo. «Gli piacevano gli Slayer, era un fattone. Gli dissi che se ci fossimo messi insieme avrebbe dovuto smettere di fumare erba», ricorda Dacus, che oggi ha 26 anni, in collegamento Zoom dalla casa a Philadelphia che divide con sei persone. «Ero una tredicenne rigida e puritana con un complesso di superiorità morale».

Dacus ha trasformato questi e altri ricordi adolescenziali in una canzone titolata VSB (la sigla sta per Vacation Bible School), uno dei pezzi migliori del suo terzo album album Home Video. Le parole sono tenere, precise, incredibilmente reali: “La tua poesia faceva schifo, ce n’è voluto per non scoppiare a ridere”, canta Dacus, “dicevi che ti ho mostrato la luce, ma non ho fatto altro che far sembrare il buio più buio di prima”.

Nei vecchi dischi di Dacus non c’erano molti momenti emotivamente forti. Home Video ne è pieno. Praticamente tutte le canzoni si basano su ricordi di quando aveva dai 7 ai 17 anni, abbinati ad arrangiamenti indie rock. «Ho sempre cercato di essere onesta», dice lei, «ma queste sono proprio cronache minuziose di episodi della mia vita. Canto di gente che mi è ancora cara e di altra che è sparita della mia vita. Qualcuno potrebbe arrabbiarsi e magari chiamarmi. Sto un po’ in pena per questo».

In un pezzo chiamato Christine, Dacus consiglia a un’amica di non accontentarsi di un partner non alla sua altezza (“Se ti sposi mi opporrò, lancerò una scarpa verso l’altare e perderò il tuo rispetto”). Ha inviato il demo alla protagonista della canzone e lo stesso partner di allora ha commentato che «Lucy è una buona amica».

In Triple Dog Dare canta con tono malinconico di un’altra vecchia amica che poteva diventare qualcosa di più. «Scrivere quel pezzo non è stato facile, era un’amicizia complicata dal fatto che ero lesbica, ma non l’avevo ancora accettato. Sarebbe stato diverso se fossi stata a mio agio con la sessualità? Sarebbe andata meglio o peggio?».

La canzone più intensa e commovente del disco è Thumbs. È talmente potente da aver spinto i fan di Dacus, che l’hanno sentita in concerto a partire dal 2018, ad aprire un account Twitter chiamato: “Has Lucy released Thumbs yet?”. È una ballata quasi a cappella su una serata del 2014. Dacus, che all’epoca frequentava il college, aveva incontrato un’amica e il padre poco di buono. Nel ritornello fantastica su come ucciderlo con le sue stesse mani: “Se me lo lasciassi fare, lo ammazzerei”.

Figlia adottata, Dacus ha scritto il pezzo anni dopo, quando stava «affrontando problemi col mio padre biologico». L’ha scritta dall’inizio alla fine in un colpo solo, annotando parole che la facevano sentire posseduta, persino spaventata dalla loro forza.

«Finisce così: “Non gli devi un cazzo anche se lui dice il contrario”. Sono io che parlo con lei, ma in fondo parlo anche a me stessa».

Poco dopo aver pubblicato il secondo album Historian nel 2018, Lucy Dacus ha registrato un EP come Boygenius con due cantautrici a lei affini, Phoebe Bridgers e Julien Baker. Dice che è stato proprio il tour del novembre 2018 con loro ad avere allargato i suoi orizzonti d’autrice e averla convinta a resistere a tutti i costi all’etichetta di ragazza triste, che trova talmente riduttiva da risultare irrispettosa. «Trattando temi simili, metterci assieme ci ha fatto sentire bene. Ci siamo dette: non intristiamoci, facciamo qualcosa di divertente, chiassoso, arrabbiato. Ci sono in ballo una marea di emozioni».

Il tour è durato appena un mese, ma ha avuto un impatto profondo su Dacus. «Mi ha cambiato la vita, a dir poco. Mi ha aiutata ad aprirmi, sia come persona che come autrice. Stare al fianco di Phoebe e Julien, ridere, scherzare, mi ha fatto capire meglio quel che voglio fare».

Nei tour solisti che sono seguiti nuove canzoni hanno cominciato ad affiorare dal subconscio. «Non riesco proprio a scrivere canzoni a tavolino. Devono venire fuori da sole. A quel punto mi sento come una marionetta: è come se qualcun altro facesse il lavoro, tipo una piccola autrice che vive nella mia testa e controlla il corpo per esprimersi».

Ha scritto nei camerini, sulla strada, ovunque. «Magari uscivo a notte fonda dalla camera d’hotel che dividevo con la band per andare sul van a finire di comporre un pezzo. È come essere in uno stato di dormiveglia o come quando ti svegli e ricordi un sogno che hai fatto».

Nell’estate 2019 Home Video era sostanzialmente composto, ma Dacus aveva danneggiato la voce facendo troppi concerti. «Il dottore m’ha detto: devi stare in silenzio per un mese, altrimenti dovranno operarti». Ha cercato di seguire il consiglio, compatibilmente coi suoi impegni, tra cui l’apparizione al Newport Folk Festival del 2019 dove ha cantato 9 to 5 con Dolly Parton e altre cantanti, per poi andare a registrare buona parte dell’album in agosto a Nashville.

Lì, registrando con la sua band e cercando al tempo stesso di non sforzare la voce, Dacus ha cominciato a ragionare da produttrice. In Historian e nel debutto del 2016 No Burden aveva evitato quando possibile di usare chitarre acustiche, non voleva essere considerata una cantautrice folk. Nel nuovo disco non si è fatta di questi problemi e ha allargato la strumentazione, esplorando le possibilità offerte dal pianoforte, strumento che associa alla madre. «La gente vede qualcuno con la chitarra acustica e spara subito l’etichetta folk/Americana», dice. «Io invece faccio rock. E volevo che il disco fosse più bello, più nostalgico. Volevo il calore di quegli strumenti».

Ha fatto anche scelte produttive con un certo portato emotivo, come l’uso di Auto-Tune per distorcere la voce in Partner in Crime. «Parla di quando, teenager, baravo sull’età pur di frequentare gente più grande di me. La qual cosa è: uno, imbarazzante; due, molto comune; tre, chi mi frequentava probabilmente è ancora più imbarazzato di quanto lo sia io. Non è colpa mia, avevo questa voglia di essere presa sul serio».

All’inizio la distorsione digitale in Partner in Crime era un modo per sistemare un’imperfezione della parte vocale, ma alla fine Dacus s’è accorta che era perfetta per il tema della canzone. «Falsifichi te stessa per risultare più attraente: sembra la definizione di Auto-Tune. Ecco perché amo tanto questo pezzo».

Oggi la vita di Dacus è ben diversa da quand’era adolescente. «Fino alla terza media, col mio gruppo di amici ci si svegliava presto per andare a studiare la Bibbia prima di andare a scuola. Era il contesto sociale, spirituale, famigliare in cui vivevo. La giornata era scandita da appuntamenti legati alla chiesa».

Ora non crede più – «un tempo mi definivo cristiana agnostica, ora non più» – ma continua a pensare a Dio e si considera cristiana dal punto di vista culturale. «Quando incontro persone che hanno le mie stesse esperienze di vita si crea subito un legame. Questa cosa mi manca, la comunità. Mi piace sentirmi parte di un gruppo di persone che aspirano a rendere il mondo migliore».

Un filo rosso che lega le storie di Home Video è la tenerezza che prova per questa sua gioventù ricordata, sentimento che col passare del tempo diventa via via più forte. «Non sono più quella persona, che è poi il motivo per cui posso scriverne», spiega. «È importante provare della tenerezza per il proprio passato, perché è frutto di circostanze che non hai scelto tu di vivere».

Boygenius: da sinistra, Bridgers, Baker, Dacus. Foto: Lloyd Bishop/NBC/NBCU Photo Bank/Getty Images

Alla fine del 2019 a disco pressoché finito Dacus si è trasferita a Philadelphia. «Ho passato una vita a Richmond, solo lì, e ho cominciato a domandarmi: e se non riuscissi a vivere altrove? Dovevo provarci». Lei e le persone con cui vive sono avidi lettori e la stanza da cui mi parla via Zoom sembra una biblioteca. «Sopra ci sono i libri di poesia, sotto quelli di musica, e poi l’arte e i diari», dice indicando gli scaffali. «Al piano di sopra ci sono romanzi e saggi. Sono a tanto così dal realizzare il sogno di riempire tutte le pareti di libri».

Il 5 marzo 2020 Dacus e i suoi musicisti sono rientrati in studio a Nashville prima di un concerto al Ryman per gli ultimi ritocci all’album. L’8 marzo si è esibita in un festival a Okeechobee, Florida. «Ero convinta che non dovessimo andare. Siamo arrivati e metà della gente che doveva esserci non c’è. Erano tutti impauriti. L’aria era tesa, sembrava di stare in un romanzo distopico». Poco meno di una settimana dopo tutti i concerti negli Stati Uniti sono stati fermati a causa della pandemia.

Il piano originale era di pubblicare Home Video nell’inverno del 2020. Non potendolo fare, Dacus si è presa otto mesi per mixarlo con l’ingegnere del suono Shawn Everett (Haim, Killers, Weezer). La data di pubblicazione è stata «rimandata parecchio, ma non mi ha scocciato. Non mi è dispiaciuto avere tutto quel tempo per sistemare i dettagli».

È primavera quando ci parliamo e lei è a metà del suo percorso vaccinale. Non vede l’ora di riprendere a vivere. «Abbraccerò tutte le persone a cui voglio bene», dice. «Non sono una che va nei club, ma voglio andare nella disco peggiore e ballare e ballare. Detesto fare shopping, ma voglio andare in un centro commerciale e provare qualche abito e bere smoothie».

Tornerà a esibirsi in autunno per la prima volta da quando è iniziata la pandemia. Dovrebbe iniziare in settembre con due show nella sua città natale, con l’amica Julien Baker. Saranno concerti catartici, ma non tristi. «Ci sono tante altre emozioni oltre alla tristezza. Per dire, alcuni faticano ad ascoltare Thumbs, ma l’amica di cui parlo nella canzone mi ha detto che “parla del fatto che quel giorno lì tu per me c’eri e questo non è affato triste”».

Fa una pausa prima di ricominciare a parlare. «Mi ha fatto piangere questa cosa che ha detto. Ma non di tristezza, di riconoscenza».

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

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