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Lucio Corsi è il nostro freak preferito

Veste come un glam rocker, ma viene dalla Maremma. È un flâneur che ama natura e motori. E nell'ultimo singolo chiede ‘Che cosa faremo da grandi?’. È il predestinato del cantautorato italiano

Lucio Corsi è una formica o una cicala? Forse è la perfetta sintesi tra le caratteristiche che attribuiamo a entrambe dai tempi di Esopo e la sua favola immortale. Vien da chiederselo, dopo averlo incontrato a tu per tu, non solo perché con il cantante maremmano appena uscito col singolo Cosa faremo da grandi? – stracolmo di alte ispirazioni – è facile passare dal parlare di Paolo Conte alla mirmecologia (la scienza che studia le formiche), ma anche a causa della passione viscerale che ripone verso gli animali. È nel mondo della natura che trova l’ispirazione e già dai tempi degli EP Altalena Boy e Vetulonia Dakar del 2015 e dell’album Bestiario musicale del 2017.

Ma sarebbe riduttivo considerarlo soltanto un “cantore della natura”. È molto di più. E fortunatamente, potremmo azzardare. Nelle canzoni del 26enne, che della definizione di ‘giovane’ non sa che farsene rispondendo candidamente «è vero che per ora non sono mai stato vecchio», si ritrova, infatti, più che una serie di citazioni colte, una vocazione alla costruzione delle canzoni in linea con la tradizione della miglior scuola dei cantautori italiani.

Si presenta in perfetto orario, sospinto da un’andatura da flâneur ottocentesco, e già questo sarebbe un ossimoro. Elegantissimo, con un outfit a metà fra il d’antan e il glam più attualizzato. Sembra passare per caso, eppure quando si comincia a discutere del nuovo disco (uscita 2020 e prodotto da Francesco Bianconi dei Baustelle) non c’è aspetto che sia sfuggito al suo controllo, persino il font con il quale sono scritte le note a margine. È una antitesi vivente: non ama spiegare i pezzi, eppure lo fa spesso e volentieri, preferisce la brevità ma il videoclip dura 8 minuti, eccetera eccetera.

È così che, dopo esserci persi varie volte nel cercare di comprendere da dove nasca il suo stile, è la scienza a venirci in soccorso. In particolare, grazie al professor Donato Antonio Grasso, non a caso un mirmecologo, che qualche tempo fa in una intervista al collega Nicola Feninno per Ctrl dichiarò che esistono delle “formiche pigre”. Ecco una spiegazione (im)possibile: forse, di contro, Lucio Corsi è una delle rare, e per questo preziose, cicale laboriose.


Sei originario di Vetulonia, un borgo di poco più di 200 anime nella Maremma. Da qui viene la tua propensione alla natura?
Più precisamente di Val di Campo, in un podere in mezzo alla campagna. Io torno spesso alla mia terra, più che portarmela dentro. Sono nato e cresciuto in un luogo meraviglioso e incontaminato. Una sorta di Far West italiano, non a caso ci sono i butteri, dei veri e propri cowboy.

Una bella differenza da Milano, dove sei costretto a stare per lavoro.
Quando qualcosa la perdi o ne sei lontano acquista ancor più valore. Ma per l’ispirazione torno sempre in Maremma. Il primo mese a Milano, mi sono appoggiato a un cartellone e a un certo punto ha iniziato a scorrere. Pensavo di averlo staccato. Mi sono proprio sentito uno di Vetulonia. Anche se ogni luogo ha il suo perché e ti può dare qualcosa. Mi sto sforzando di vedere il bello di Milano e lo trovo ripensando alle canzoni di Gaber e Jannacci, che mi fanno capire il suo fascino.

Giovane cantautore. È un po’ di tempo che ti definiscono così.
Per ora non sono mai stato vecchio. Ma a 26 anni ormai ho un piede nella fossa. Mio padre mi raccontava di quando compì 7 anni e si chiuse in camera a piangere. Si sentiva già anziano. Quando mi definiscono “giovane cantautore” non c’è problema, potrebbero anche dire “vecchio cantautore”, comunque mi sento meno giovane di quando ho iniziato e avevo 19 anni. La vita è così.

È appena uscito Cosa faremo da grandi? e poi il disco a gennaio. Quanto ti senti cambiato artisticamente dagli esordi?
In Vetulonia Dakar e Altalena Boy c’erano canzoni scritte da ragazzino, quando avevo 18 anni. Sono venuto a Milano con quei pezzi cercando di far diventare la musica un mestiere. Come Bestiario musicale che ha ripreso quei temi in un concept. Li vedo come un passaggio giusto per l’età che avevo. Ora ho trovato un livello di testi e arrangiamenti più curati.

Cosa ti ha ispirato musicalmente per questo nuovo album?
Sono affascinato dagli anni ’60-’70 dove potevano uscire due dischi in un anno dello stesso artista. Non escludo che possa farlo anch’io in futuro. Fondamentale, comunque, è pensare al lavoro successivo. Il musicista è come un artigiano, devi stare lì a farlo per ore. Oppure rischi che l’ispirazione non ti arrivi al pianoforte, ma in pullman. Flavio Giurato dice che l’artigiano è uguale al cantautore quando scrive. L’unica differenza è che l’artigiano accende la radio mentre lavora, invece il musicista non lo può fare, per ovvi motivi.

Lucio Corsi nel 2017, ai tempi del ‘Bestiario musicale’

Per questo album hai firmato con la Sugar, una etichetta importante. Pensi che riuscirai a mantenere questa libertà artistica anche in un mercato discografico molto competitivo?
La libertà è una prerogativa di base per un musicista, sennò avrei fatto altro. Poi è chiaro, c’è un confronto con delle strutture e con intelligenza bisogna mediare. Però trovo fondamentale seguire un percorso al di fuori delle mode. Uno se ne deve anche un po’ fottere, perché il mio intento non è far diventare qualcosa di tendenza. Io voglio esprimere un concetto personale attraverso la musica senza avere il rimpianto di non averci provato.

Già in passato hai chiarito: “Non punto a farmi ricordare, tanto poi ci si scorda di tutto”.
Mi hanno insegnato così. Aspirare a farsi ricordare mi sembra una gran cazzata. Perché tanto si morirà tutti e ci si scorderà di tutto. L’obiettivo è fare ciò che si ama mettendoci dentro sé stessi. Persino i capi di abbigliamento che scelgo non sono soltanto prodotti. Ci sono anche quelli, ma a me non interessano.

Oltre al mondo della musica, mi pare che tu tragga ispirazione da altri campi dell’arte, giusto?
Certo, in letteratura il mio conterraneo Luciano Bianciardi, con la sua forte storia di emigrazione a Milano da Grosseto. Anzi, sto cercando Aprire il fuoco, fuori produzione, se qualcuno mi consiglia dove trovarlo. Oppure Emily Dickinson nella quale trovo affinità in Nick Drake per i temi sulla natura. Poi c’è la pittura, mi appassiona Ligabue che appena finiva un quadro girava con la moto Guzzi per il paese a farlo vedere, oppure lo scontroso De Chirico, quando gli domandano: “Maestro, c’è foschia oggi” e lui risponde: “Non uso mai la parola foschia, ma piccola nebbia, nebbiolina. La parola foschia mi dà noia, mi dispiace. Come ‘a prescindere’, insopportabile”. Mi piacciono anche i fumetti di Andrea Pazienza.

Tutti riferimenti che è difficile ritrovare in un 26enne di oggi.
I miei genitori non erano musicisti, però mi hanno fatto conoscere il meglio. Mio padre aveva 18 anni nel ’68 e mi ha passato lo stretto necessario: De André, Dylan, i Beatles, e Neil Young. Ma soprattutto i Blues Brothers.

Quando hai capito che la musica poteva essere la tua strada?
Dal film The Blues Brothers. Vedi questa cicatrice sotto il mento? Da piccolo prima di andare a scuola ho provato a ballare come Elwood… ma sono scivolato. Lì ho capito che avrei fatto il cantante. Poi verso i 12-13 anni mi hanno comprato una chitarra e dopo qualche tempo è arrivato il pianoforte.

Già scrivevi testi alle elementari?
Sì, quando veniva a trovarmi un amico di famiglia da Roma e li registravamo. I temi erano in base a quello che vedevamo intorno a noi. Abbiamo scritto una canzone sulla Land Rover di mio padre, che mi ha trasferito la sua passione per i motori e un Inno alla larva perché andavamo a caccia di insetti d’inverno sotto i tronchi. Alle superiori invece avevo un gruppo progressive rock, tipo i Genesis, ma solo musica strumentale.


Gli animali, insomma, sono la prima fonte di ispirazione.
Sono l’emblema massimo della fantasia. Basta guardarli, con quelle forme e colori. Sono esseri totalmente fantastici.

Io da piccolo ero un grande appassionato di formiche. Se potessi vorrei un formicaio in casa, come uno degli intellettuali che mi affascinano di più, Aldo Braibanti, che era mirmecologo.
Anche a me piacciono molto. Seguirne il percorso, provare a metterne una nel formicaio di un’altra specie. Avere un formicaio in casa sarebbe bellissimo. Aldo Braibanti non lo conoscevo, però me lo vado a vedere. 

Altra tua passione sono i motori. Un’altra antitesi rispetto alla natura?
Me l’ha trasferita mio padre. Lui ha cambiato tanti mestieri. Cresciuto a Roma, ha fatto la scuola di cinema e lavorato per la Rai come cameraman, si è trasferito in Maremma e ha iniziato a lavorare il cuoio come artigiano, poi ha fatto il muratore e ancora per una tv di Grosseto. In Cosa faremo da grandi? c’è molto di questo spirito di cambiamento.

Se potessi esprimere un desiderio, con quale auto ti piacerebbe presentarti al prossimo concerto?
Una Porsche 911 degli anni ’70, o se proprio non è possibile una Lotus Seven. Preferisco le auto di questo tipo, che sono delle vere opere d’arte. Però apprezzo anche le moto. Sono un fan di Valentino Rossi. Comunque, non trovo strano amare i motori, anzi, lo trovo poetico.

In che senso?
È una pazzia, la sfida dell’uomo contro il tempo. Il rischio. I piloti sono dei romantici. Zingari che girano il mondo facendo sempre le stesse tappe per battere il tempo. E poi il motore è una cosa incredibile, un altro corpo: ci sono le vene (i tubi), il sangue (la benzina), il pistone (il cuore). Una invenzione pazzesca.

Tua madre, invece, è l’autrice di tutti i disegni dei tuoi album.
Sì, ma lavora al ristorante di mia nonna. Ha fatto l’artistico e non ha mai smesso di dipingere. Però è lei che disegna tutto e voglio che continui anche in futuro. È un patto con me stesso.

Il piatto forte della nonna qual è?
È una forza, ha questo locale dal 1959. Naturalmente cucina maremmana, in particolare i tortelli rigorosamente fatti a mano, al ragù o al burro e salvia.


Forse sarà il momento di presentare Cosa faremo da grandi?, che dici?
Il video che è uscito fa parte di un progetto con il regista Tommaso Ottomano, con il quale porto avanti una fratellanza artistica. È sulla nostra terra, lui è di Porto Ercole. Una sorta di pseudo-fanta-docu-music-film con scene surreali e oniriche. Nel cortometraggio finale saranno inserite canzoni tradizionali come Maremma amara che è il pezzo popolare più importante, suonato dal Coro degli Etruschi. Dura 8 minuti perché è uno dei capitoli del film, l’ultimo, con la storia dei pescatori che trovano la chitarra con scritto “Surprise”, una citazione alla barca a vela con cui Ambrogio Fogar fece il giro del mondo partendo da Castiglione della Pescaia.

E la canzone?
È nata d’inverno sulla spiaggia. Parla di grandi imprese mandate in fumo con l’animo in pace, come quella di chi passò una vita a costruire conchiglie per poi gettarle in mare e ripartire da capo. Riflette su un possibile modo di vivere, dove ad esser festeggiati non sono i traguardi ma le linee di partenza.

Dicevi che non ti piace spiegare le canzoni ma poi…
Non bisognerebbe, ma alla fine lo faccio sempre… Questa volta, però, può essere utile.

Altro aspetto che ti contraddistingue è la scelta di uno stile glam nel vestire.
Il glam lo trovo legato alle favole. Peccato che una certa figura di cantante sia sparita, come Renato Zero. Non potevi incontrare in giro uno così, era quasi una divinità, una apparizione che avviene solo sul palco. Creature mitologiche che si sono perse. La musica mi piace in tutti i suoi aspetti, dai vestiti alla copertina del disco, persino il font delle note a margine. Ora vanno degli artisti più normali, anzi, più ci puoi andare a mangiare la pizza insieme e meglio è. Ma io penso che sia necessario portare su di sé il pensiero del disco, delle canzoni, del proprio immaginario. Come diceva Paolo Conte “il musicista sul palco si mette di tutto punto perché avviene un incontro importante, tra lui e la canzone”.

Quali altri sono i tuoi riferimenti in musica?
Paolo Conte, Ivan Graziani, Lucio Dalla. Oppure i testi di Randy Newman sono fichi, alta letteratura. Dava voce ai personaggi delle sue canzoni. In quelle di protesta, in particolare, trovo vi sia il modo più intelligente di costruire pezzi del genere. Per esempio, dava la parola ai redneck che lui odiava e così enfatizzava i lati assurdi e incomprensibili di quei personaggi.

A proposito di canzoni di protesta, oggi il cantautorato è accusato di non essere più impegnato verso i problemi della società o su temi politici. Tu come ti poni?
Una canzone sulle onde potrebbe essere di protesta. È un discorso complesso. Odio le canzoni d’amore spacciate per canzoni di protesta. Prendendo spunto da Randy Newman, si potrebbe provare a dare voce a un leghista, pensa quanto metterebbe in risalto certe assurdità. Però non mi ci metto, per ora, visto che sto seguendo altri percorsi. E poi devi fare tante cose prima di arrivarci, un lavoro personale. Ad oggi, per me la protesta è seguire un percorso artistico poetico, senza tenere conto delle mode e cercando di tracciare altre vie per pensare al mondo in maniera differente.

Con chi ti piacerebbe collaborare?
Con i Baustelle è stato molto importante per crescere. Li trovo affini al mio modo di pensare, mi ci riconosco, li stimo per il loro scendere a meno compromessi possibili. È importante che ci siano artisti così. Danno spessore alla musica. Un sogno impossibile sarebbe con The Band, lo storico gruppo canadese-statunitense. Fra gli italiani, sono affezionato ai cantautori di un tempo, per cui Paolo Conte.

Tra i tuoi coetanei, invece, cosa ti fa più incazzare?
In questo momento storico che stiamo attraversando, il grande appiattimento nello spessore dei testi, della poetica e dal punto di vista musicale. La canzone più è leggera, un sacchetto volante, e meglio è. L’abitudine mi fa innervosire e mi smuove. Non bisogna abituarcisi. È necessario fare l’opposto, non piegarsi e non trovare un contatto. Perché sennò tutto andrà sempre in quel modo.

Nel ritornello del nuovo singolo canti: “Buttando nel vento il lavoro di anni, perché nemmeno da vecchi si sa cosa faremo da grandi”. Inutile chiederti cosa farai da grande, ma tra dieci anni come ti vedi?
Alto, con il naso lungo e tre occhi. Una mutazione. Entrerò nella crisalide, prima o poi. Devo solo scegliere il ramo giusto.

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