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Luchè: «Ho avuto il successo, ora voglio il rispetto»

È uscito 'Dove volano le aquile' e lui vuole volare alto: «È inaccettabile che se propongo un pezzo per Sanremo, Amadeus probabilmente non mi conosce, è inaccettabile che le radio non mi passino»

Foto: Gaetano De Angelis

Per conoscere meglio Luchè basterebbe partire dall’ultima risposta a questa intervista, uno statement cazzuto che riassume il karma attuale dell’artista nato a Napoli, fondatore dei Co’Sang e rap-cittadino del mondo, da Los Angeles a Ibiza. Ma arrivateci con calma, magari dopo aver ascoltato il suo nuovo album, Dove volano le aquile, disco epico nelle intenzioni, nella forma e nell’attitudine. Perché quella di Luca Imprudente per l’hip hop è una vocazione – così la definisce lui stesso – e oggi più che mai è determinato a raccogliere ciò che con stile ha seminato. Vuole essere il kingmaker, quello che dà le carte nel rap game, e no, non sta bluffando.

Di questo nuovo album sei anche il direttore artistico, una figura inedita nel rap italiano…
Porto in studio tante idee che vengono sviluppate da me e da altri collaboratori fidati. Non sono il solo produttore delle tracce, ma tutto è sempre sotto la mia supervisione. Ci tengo che venga rispettata la mia visione artistica.

Sei d’accordo con quello che pensa Fabri Fibra a proposito dei produttori? In un’intervista a TRX Radio ha detto che sono il problema del rap italiano, che non si sforzano di trovare un dialogo artistico con i rapper…
È un discorso complicato: da un lato occorrerebbe iniziare a lavorare con molto anticipo per stabilire un rapporto tra artisti, e dall’altro cercare di aderire completamente alle idee del rapper sminuirebbe la personalità del producer. Forse il problema è che c’è poca identità nelle produzioni di oggi, si cerca di fare quello che vogliono gli altri e non quello che fa bene a se stessi. Col mio team da anni abbiamo un obiettivo comune: che i dischi siano quelli di Luca e basta, che non suonino come nessun altro.

E sicuramente Dove volano le aquile è un disco di Luca, anche nei testi. Mi ha colpito quello che apparentemente sembrerebbe un contrasto: da un lato una scrittura consapevole della maturità raggiunta, riflessiva e adulta, in un mood di totale auto affermazione, dall’altro continui ed espliciti riferimenti alla tua rabbia e al tuo rancore. Per cosa?
Ho una vita molto complicata, stressante, mille pressioni, responsabilità e tanti nemici. E un sacco di rancore per un lavoro fallimentare della mia ex casa discografica (ora Luchè è passato a Sony/Columbia, nda), per le delusioni umane avute da quel mondo, da colleghi che pensavi fossero amici e si rivelano semplici conoscenti. La rabbia invece nasce dal non sentirsi completamente apprezzato per quello che ho fatto in questi anni.

Spiegami meglio. Perché non ti senti completamente apprezzato?
Ho avuto successo, ma non abbastanza rispetto a quello che avrei meritato. Ti faccio un esempio: se vado da Amadeus a proporgli un pezzo per Sanremo, lui probabilmente non mi conosce, e questa cosa è inaccettabile. È inaccettabile che i miei pezzi non vengono mai passati in radio. È inaccettabile che solo oggi sono riuscito ad avere spazio sulla stampa mainstream nonostante abbia fatto dei grossi numeri, molti concerti sold out. Credo che per la qualità e l’onestà della mia musica si poteva fare un lavoro migliore, è brutto ricevere dei no quando hai fatto veramente tanto.

Per farti capire, se domani a Milano sbuca fuori un artista che dice di aver ispirato Saviano mentre scriveva Gomorra, questa carta se la giocherebbe diversamente, ne parlerebbero tutti. Ho fatto tante cose che non sono state valorizzate, potevo essere ancora più gigante se si fosse fatto un lavoro di comunicazione come si deve. Dove sono ora ci sono arrivato solo con la musica, immagina se ci fosse stato un po’ di marketing… i numeri sarebbero raddoppiati, e quello è il mio rammarico.

Su una webzine hanno scritto: “Luchè è probabilmente il peggior nemico che si possa avere nel rap game italiano”. È ancora così? Io non ho sentito dissing in questo ultimo album…
Certo che ci sono sempre i dissing, col mio stile! Non faccio offese alla persona o alla sua estetica, né battute fino a se stesse, sono dissing inerenti a fatti realmente successi, come quello a Capo Plaza. Io porto nei dischi tutta la mia vita e quello che c’è dietro le quinte, nelle interviste, nei post su Instagram.

Questo disco è esplicitamente ambizioso, le sue potenzialità dichiarate, e mi chiedevo come mai insieme ai featuring di Marra, Madame, Guè e altri, non avessi inserito qualche ospite internazionale…
È diventata un po’ una moda, e non ripaga in termini di numeri. È più una gara a chi ce l’ha più grosso, «io ho il feat con quello, io con quell’altro».

Che poi per avere quei featuring internazionali basta pagare, no?
Certo, ma poi è brutto se l’artista internazionale non mette like al post che hai condiviso, se ti ignora. Non ci fai una bella figura. Ho cercato di andare in una direzione opposta a questa tendenza, ho mantenuto tutte le attenzioni sulla mia musica. Questo non vuol dire che magari in futuro non scatti una collaborazione internazionale, ma dovrà essere sempre una cosa organica al mio lavoro, non un’operazione di marketing.

Foto: Gaetano De Angelis

A proposito di marketing, l’uscita del disco è stata anticipata da tre testi letti da Belén Rodríguez, Alessandro Siani e Marco D’Amore e scritti da te, in cui metti in luce un lato finora inedito, quello spirituale, quasi fricchettone…
Sì, è una cosa nuova, una conseguenza del lungo periodo di lockdown che mi ha fatto soffrire e ha fatto nascere la volontà di cercare nuove strade. Per questo ho scritto un diario motivazionale, per le persone che non sanno come affrontare momenti difficili, o con chi condividere i loro stati d’animo. Ho vissuto una forte depressione in quel periodo, mi addormentavo alle nove di sera perché non volevo affrontare la notte. E ho cercato di uscirne leggendo, manuali motivazionali tipo “come ottenere il massimo da te stesso”, libri di economia, di spiritualità.

Soffri ancora di depressione?
Sì, è una cosa che mi porto dietro sempre, ma ho imparato a gestirla, ad affrontare i momenti di down, a tenermi impegnato e attivo.

Vivi tra Napoli, New York, Los Angeles, Londra e Ibiza. Il tuo mood cambia a seconda della città in cui sei?
Ho passato parte del lockdown a Ibiza e mi ha dato molto, in termini spirituali, di energia. Poi il luogo conta fino a un certo punto, a New York ad esempio ho provato la solitudine più forte.

Una curiosità sui nomi che hai scelto per promuovere DVLA. Perché proprio loro?
Con Marco D’Amore giocavo in casa, ed è l’unico che conosco. Ma anche con Belén sentivo di giocare in casa, di lei mi è sempre arrivata una forte vena malinconica, in cui mi rispecchio. E il fatto che da subito abbia sposato il progetto mi fa pensare che siano in sintonia. Con Alessandro ci stimiamo professionalmente, e sono molto contento di questa collaborazione.

In questo disco sembri avere le idee così chiare da lasciarci intendere che hai già dei progetti per il futuro…
Sicuramente oggi mi sento più libero, più consapevole e sicuro di quello che posso e voglio fare in futuro. Ho le idee chiare e non ho più paura di entrare in studio.

Prima avevi paura?
Sì, parecchio, perché ho commesso l’errore di prendermi una pausa troppo lunga e quando torni sei assalito dai dubbi e dai pensieri, vedi nuovi ragazzi che fanno cose diverse, temi di non essere più di tendenza, che le persone non ti vogliano più, di non essere più bravo. Le prime registrazioni ti senti freddo, non sei sciolto… Adesso non farò più l’errore di prendermi una pausa lunga, voglio vivere il disco, il tour, l’estate e tornare con le energie per entrare in studio.

Continuerai a essere “il peggior nemico che si possa avere nel rap game”?
Assolutamente sì. Umilmente parlando, non ho nulla da nascondere, sono stato sempre sincero, coerente, sono competitivo e lo è la mia musica, non ho mai usato lo stesso flow in nessuna strofa, mi canto i miei ritornelli e le mie melodie, ho un timbro che appena premi play lo riconosci, ho rime taglienti, una credibilità di strada che nessuno me la può togliere. Ho sempre dimostrato tutto questo sia nelle canzoni che nei featuring che ho fatto. Lo canto pure in Si vince alla fine: “Fai una canzone con me, la canzone diventa mia”. Se fai una discussione su chi è al top in Italia non puoi non includere anche me.

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