Se non sapete chi è Loyle Carner, ascoltate i suoi dischi e avrete l’impressione di conoscerlo. Viene da Londra, fa musica dai toni introspettivi da più di dieci anni, da quando cioè ha lasciato la scuola di teatro per dedicarsi al rap. Il debutto del 2017 Yesterday’s Gone è stato candidato a un Mercury Prize e a due Brit Awards e dopo altri quattro dischi oggi è un artista rispettato, noto per le canzoni esistenzialiste. Il nuovo Hopefully ! (scritto così, con uno spazio prima del punto esclamativo) è un altro lavoro introspettivo che lo mostra alla ricerca di nuove soluzioni creative, anche nel canto, come nel singolo di lancio In My Mind. Per l’occasione ha assemblato una band di amici composta da cinque elementi: tutto è iniziato con jam session che alla fine hanno preso la forma di un album.
Di recente è diventato padre per la seconda volta e dice che i figli hanno avuto un ruolo nel progetto: si è sentito più a suo agio a cantare e non solo a rappare grazie alle ninnananne intonate ai bimbi e nel bel mezzo delle session andava a prendere il figlio all’asilo nido (sulla copertina del disco compaiono gli scarabocchi del bambino). Le sue canzoni più cupe e ciniche sono smussate dalla leggerezza che solo un bambino può ispirare. «In sostanza Hopefully ! racconta un giorno nella vita di un bambino vista attraverso i suoi e i miei occhi. Diciamo che ho voluto dare un po’ di spazio al bambino che è dentro di me».
Si è innamorato della chitarra mentre faceva conoscere nuovi artisti ai figli e lo strumento gioca un ruolo importante in un album in cui Carner non ha paura di passare in rassegna i suoi difetti, ma in cui mostra anche un rinnovato ottimismo nei confronti della vita.
È il tuo primo lavoro da Hugo del 2022. Cosa è successo nella tua vita nel frattempo?
Sono diventato padre per la seconda volta. La nascita di mia figlia è la cosa più importante che è successa. Sono riuscito a passare tanto tempo con loro, me li sono portati in giro. Osservare il mondo attraverso gli occhi dei miei figli mi ha aiutato a vederlo per quello che è, a cogliere nuovamente la meraviglia e la gioia, mettendo da parte il cinismo che avevo prima. Ecco perché il disco si chiama Hopefully !, perché finalmente si intravede un po’ di speranza.
Cos’altro ti ha insegnato la paternità?
A essere gentile con me stesso, ma anche critico nei miei confronti e più coraggioso nell’affrontare chi sono. Un figlio è un’immagine riflessa di chi sei, ci vedi parti che ti piacciono e altre che non ti piacciono e che forse manco sapevi ci fossero. La paternità ti costringe a misurarti con chi sei veramente.
Una cosa che mi colpisce del tuo repertorio è l’introspezione. Da dove nasce questa capacità di aprirti, quando scrivi? Hai mai trovato difficile farlo?
È una cosa che probabilmente viene da mia madre che è un’insegnante che si occupa di alfabetizzazione di studenti con esigenze speciali. Quando ho iniziato a scrivere pensavo di farlo in modo diciamo così anonimo, come un romanziere, un drammaturgo o uno sceneggiatore. Uno che non appare. E invece con la musica ti metti in prima linea. Credo quindi che sia successo un po’ per caso.
Quali sono state le prime cose che hai scritto?
Andavo a scuola, avevo l’aspetto che avevo, era sottinteso che il mio interesse per la scrittura mi avrebbe portato alla poesia oppure al rap. Non c’erano altre opzioni oltre a quelle due, nessuno mi aiutava a farmi strada nel mondo della scrittura per avvicinarmi alla letteratura, non vedevo molte persone che si interessavano a ciò che volevo fare io. Così mi sono appassionato alla poesia e poi ho iniziato a metterla in musica.
Hai citato Langston Hughes tra le tue influenze. Cos’ha per te di speciale la sua opera e come si riflette nel tuo lavoro?
La sua poesia è tanto importante per me perché è stata una delle prime che ho ascoltato e non letto, parlo di The Negro Speaks of Rivers e di alcuni dei brani di Weary Blues. Sono convinto che la poesia sia fatta per essere ascoltata, non letta. Sentirla ha sbloccato qualcosa in testa, mi ha aiutato ad apprezzarla. Credo sia lui il primo poeta che ho sentito recitare, molto prima di Gil Scott-Heron o di chiunque altro.
Ti definiresti un lettore accanito?
Sono un divoratore accanito di audiolibri, non so se vale. Sono dislessico e ci metto un sacco di tempo a leggere. Sto riascoltando un libro che mia madre mi leggeva quando ero piccolo, Vita di Pi, ed è scritto benissimo, per me è uno dei libri migliori di sempre, è pieno di idee. Cerco di sentirlo il più possibile soprattutto quando guido.
Quali sono i generi o le tipologie di libri che preferisci?
Raramente leggo della narrativa. Preferisco libri non direi di autoaiuto, ma che esplorano certi aspetti. Ne ho letto uno intitolato Humankind che parlava della natura umana e si chiedeva se gli esseri umani sono gentili o meno. È un libro molto bello e pieno di speranza, è stato di grande ispirazione per questo disco. Cerco di leggere cose che mi interessano, che riguardano il cibo o una band che amo, un’autobiografia o altro. Leggo molta saggistica. Credo sia quello il mio ambito.
Hai detto che il libro si intitola Humankind?
Sì. È di un olandese, Rutger Bregman. In pratica si domanda perché, se le persone sono così straordinarie, succedono cose brutte? Inizia parlando di noi come comunità, del fatto che eravamo nomadi, viaggiavamo molto e incontravamo tantissime persone. Ora siamo sempre circondati da persone, ma dato che non ci muoviamo più non abbiamo bisogno di loro come un tempo, col risultato che puoi anche non sapere chi vive nel tuo stesso isolato. Un tempo invece chiedevi: «Cosa posso scambiare con te? Cosa hai da mangiare? È commestibile? L’hai provato?». Quindi sì, siamo più vicini che mai, ma anche più lontani che mai.
In che modo pensi che leggere questo libro abbia influenzato il tuo modo di scrivere canzoni?
Mi sono imbattuto nel libro in un periodo in cui ero pessimista e mi ha aiutato a capire che la natura umana, in fondo, è molto bella. Non è che le persone buone fanno cose buone e quelle cattive fanno cose cattive. Le persone sono il prodotto del loro ambiente, di ciò che hanno vissuto e di ciò che hanno sperimentato. È fondamentale dare il buon esempio con empatia e comprensione. Mi ha dato un po’ più di speranza in me stesso: so cosa sto facendo, sono sulla strada giusta, non sono una brutta persona. Quando cresci un figlio pensi a tutte le cose assurde che stanno succedendo nel mondo e a come la gente può arrivare a fare certe cose: io non voglio che i miei figli facciano quella fine.
Come mai ti fai accompagnare da una band?
Per lavorare insieme a degli amici. E poi nel rap di solito ti mandano dei beat che devi completare con le tue rime e comporta una pressione che a volte trovo debilitante. Preferisco trovarmi in una stanza con altra gente mentre sto mettendo a fuoco un’idea. E poi mi piace l’anonimato che ti regala una band, per cui non si tratta di me, ma di un collettivo. Mi piace molto avere la possibilità di stare sullo sfondo.
È successo che ti abbiano mandato dei beat e ti ci sia voluto un bel po’ per finire i pezzi?
Me ne ha mandati un sacco Madlib, che è il mio eroe e probabilmente il mio produttore vivente preferito. È stata quella volta che mi sono reso conto di quanto fosse difficile per me. Era stimolante ed eccitante, eppure c’erano momenti in cui pensavo: cazzo, quanto vorrei che fosse qui al mio fianco.
Che tipo di sound avevi in mente per questo disco?
Non stavo ascoltando molto rap, non lo faccio da un po’. Non che non mi piaccia più, ma è solo una parte della musica con cui sono cresciuto. Coi miei figli ascoltavo la musica alternativa che mi è sempre piaciuta, per dare loro un’idea della varietà delle cose che ci sono. E così ho sentito molte più chitarre di quanto avessi previsto e questo mi ha fatto reinnamorare della chitarra, uno strumento che a un certo punto della mia vita ho rifiutato. Il suono, in sostanza, ruota intorno alla chitarra in tutte le sue declinazioni, da Elliott Smith ai Red Hot Chili Peppers.
In questo disco canti: ci avevi mai pensato prima? E perché proprio ora?
Se me l’avessi chiesto l’anno scorso, anche dopo che avevo già fatto un po’ di questa musica, avrei risposto «Assolutamente no, non succederà mai». Ha contato molto stare con i miei figli. Di nuovo, è un’ovvietà, ma cantavo per loro mettendoli a letto e mio figlio cantava in macchina. E mi ha fatto capire che non si tratta tanto di capire se sai cantare, ma se vuoi cantare. Ho fatto ciò che mi sembrava giusto in quel momento: volevo esprimere quello che provo per loro e non riuscivo a dirlo a parole. Continuavo a cercare di scrivere versi elaborati sull’amore per i miei figli, ma non ci sono abbastanza parole al mondo. Doveva essere qualcosa che trascendeva le parole.
Pensi che in futuro lo farai di più?
In teoria sì. Voglio dire: è una bella sensazione. Vedrò come la prenderà la gente. Se tutti lo odieranno, allora continuerò a farlo.
In Lyin dici: “Un uomo che cerca di uccidere / Non sono mai stato capace di amarti”. Da dove viene questo verso?
La gente ti insegna che devi essere un duro. Non ho trovato un solo uomo che mi abbia insegnato ad amare. Nessuno dei miei parenti stretti, mio padre, i miei zii e così via, sta ancora con il proprio partner. Ho sotto gli occhi tanti esempi di come non affrontare una relazione o l’amore in qualsiasi declinazione… Amare i figli, la partner o gli amici non è facile e richiede un impegno costante. Nessuno me l’ha spiegato davvero. Mi sentivo come se fossi un soldato addestrato per una cosa, che però non è quella che mi interessa fare.
In Time Ago c’è un altro verso di cui vorrei chiederti conto: “La pressione sul mio cervello / Uccide la leggenda del mio nome / Mi chiedo se mi sentirò mai ancora così”. Qual è il processo che porta a uccidere la leggenda del tuo nome?
Credo che vada interpretato così: più fai, più rischi di rovinare quel che hai. E quindi devi stare attentissimo. Ho costruito un personaggio positivo, ma a volte non mi sento così, mi sembra di essere l’opposto. Vengono da me e mi dicono «Sei un tipo molto positivo, ottimista e buono», ma se sto passando un brutto momento, mi sento come se stessi distruggendo l’idea illusoria che la gente ha di me. E che, in un certo senso, ho di me stesso. Sono un tipo positivo, ma certi giorni non mi sento tale. Che effetto fa agli altri? E a me?
Come ti senti in vista del tour?
Non vedo l’ora. È il momento giusto. Credo di essere abbastanza fortunato perché l’ultima volta che sono stato in tour ero in una situazione difficile e la musica che suonavamo era piuttosto dura e aggressiva: era bello, ma pesante. Questo album, invece, mi sembra più leggero e mi piace l’idea di tornare in alcune città con più tranquillità, suonare in modo più rilassato.
Reciterai in una nuova serie intitolata Mint. Cosa ti ha fatto pensare che era il progetto giusto per te?
Il mio ruolo non era stereotipato o qualcuno che mi assomigliava. Volevo un personaggio sensibile e multidimensionale. Charlotte Regan, l’autrice, è una scrittrice brillante. Il suo approccio è creativo, fantastico e infantile, non ho potuto fare altro che lavorare con lei.
Nella recitazione trovi cose che non potresti sperimentare o esprimere con la scrittura o i versi?
Credo che una di queste cose sia una pressione minore su di me, perché sono solo un ingranaggio della macchina. Al timone c’è Cahrlie. Quindi posso arrivare, fare la mia parte e proporre idee, ma senza il peso di prendere decisioni cruciali e questa libertà mi piace. Inoltre, nella musica vendi te stesso, mentre in questo caso sono un’altra persona. Che alla gente piaccia oppure no, non ha niente a che fare con me, ma col personaggio. Alla fine della giornata me ne libero e vado a casa, mentre la musica te la porti sempre dietro, te la porti dentro il letto, capisci?
Ti piacerebbe recitare di più in futuro?
Ci sto pensando. Recitare mi piace, ma non so se potrò farlo sempre. Ci sono così tante cose che devono tornare perché abbia senso. Per ora lo farò in modo sporadico perché voglio essere sicuro di fare le cose giuste. È come avere una seconda possibilità, non voglio rovinarla.
