Lovegang126: We Band of Bro | Rolling Stone Italia
Cover Story

Lovegang126
We Band of Bro

Franco126, Ketama126, Pretty Solero, Drone126, Asp126, Ugo Borghetti e Nino Brown hanno fatto er fattaccio, il loro primo disco assieme dopo 15 anni di amicizia. ‘Cristi e diavoli’, il senso di comunità, Roma e il rap raccontati dal centoventiseiesimo gradino della scalea del Tamburino

Foto: Ilaria Ieie per Rolling Stone Italia

“L’amore adesso è digitale, non sarò mai più solo come un cane, ho collegato la wi-fi col cuore”, cantava Luca Carboni. Oggi i rapporti umani sono filtrati da black mirrors sempre più alienanti e scollati dalla realtà. C’è un gruppo di amici che, al contrario, mette ancora al centro rapporti umani diciamo così tradizionali: la Lovegang126.

Il collettivo romano nato nel 2008 ha lanciato le carriere di Franco126, Ketama126, Pretty Solero, Drone126, Asp126, Ugo Borghetti e Nino Brown. Prende nome dai 126 gradini della scalea del Tamburino fra Trastevere e Monteverde dove i sette hanno cementato la loro amicizia nel segno del rap. Proprio su questa scalea ci siamo fatti una chiacchierata con loro a proposito dell’esordio discografico Cristi e diavoli, un ritorno a un approccio genuino e inattuale.

Proprio per sottolineare la loro fratellanza, i sette hanno chiesto di rispondere come voce collettiva e non come soggetti distinti, una decisione che va controcorrente in questo periodo di narcisismi patologici.

Iniziamo con la domanda più prevedibile: perché vi siete riuniti?
In realtà non ci siamo mai separati, né sciolti, semplicemente non abbiamo mai fatto un disco tutti insieme, non siamo mai stati un gruppo musicale che portava avanti una carriera. Diciamo che questa è la chiusura di un percorso iniziato tanti anni fa. Era un bel po’ che avevamo in mente di farlo, era nei sogni di tutti noi e sapevamo che prima o poi sarebbe successo.

È una scelta influenzata anche dal fatto che viviamo in un periodo in cui nella musica in generale e nell’hip hop in particolare c’è molto individualismo?
Ci sono molte crew in Italia, non siamo gli unici. A Roma ci sono sempre state realtà collettive come il TruceKlan, il Rome Zoo.

Certo, ma a livello di successo o di tensione a raggiungerlo i progetti solisti prendono il sopravvento…
Dare importanza ai rapporti umani quanto meno tra di noi è da sempre la linea guida delle nostre canzoni e in generale della vita. È vero che l’hip hop sta diventando un po’ individualista. Vale per la società in generale, del resto l’hip hop ha sempre rispecchiato il suo tempo. Negli anni in cui c’era maggiore impegno politico, ad esempio, si parlava di politica nel rap. Ora la società va verso l’individualismo. E magari un progetto collettivo aiuta a far fronte a un bisogno, nel senso che nei progetti singoli si va più nel profondo, nell’intimo, nell’individuale, mentre stare in gruppo aiuta ad evadere dalla società. Noi siamo una società a parte, un’alternativa diciamo, con le nostre regole. È questo il bello.

In effetti dall’album emerge questo aspetto di comunità che trovo molto tenero. È una cosa che a volte manca nei dischi hip hop che tendono ad essere aggressivi. È anche un modo per riappropriarvi della purezza d’animo di quando eravate più giovani?
Certo, perché parte tutto dall’amicizia che c’è tra di noi, il concetto di Lovegang è proprio questo.

E non mi pare sia in linea con i tempi. Anche a livello musicale, sento molto soul classico.
Sì, ma a parte l’aspetto musicale che riprende la tradizione romana dei gruppi collettivi, è anomalo il rapporto tra di noi, che è sia artistico che personale. Ci viene naturale, è il nostro modo di stare insieme da sempre. La musica è sempre stata un collante, ma abbiamo iniziato a fare rap quando eravamo già amici e ci frequentavamo. E le prime cose che abbiamo fatto erano di rap classico non per chissà quali pippe mentali, ma perché semplicemente era il modo più facile di fare musica. Ognuno di noi ha i suoi trip, anche in generi diversi dall’hip hop, metterli assieme in un disco sarebbe impossibile. Meglio usare il rap basilare, che è poi la cosa che ci ha uniti all’inizio.

Nino Brown, Pretty Solero e Franco126. Foto: Ilaria Ieie per Rolling Stone Italia

Come mai avete deciso solo ora di fare uscire un disco corale?
In realtà abbiamo provato varie volte a fare cose collettive senza mai ingranare. Quando abbiamo capito che tornare alle origini era la cosa giusta, la roba è uscita in modo molto fluido, non ci abbiamo messo neanche tanto per farlo. È un ritorno alle origini a livello di sound, ma anche di spirito, di attitudine. Una volta la scena rap veniva percepita come un mondo a parte, alternativo e quindi immune alle tendenze del mercato o del gusto di massa.

Che oggi invece sono la prassi.
Sì, perché oggi il rap è influente, eccome. Noi volevamo andare in un’altra direzione. Diciamo non è una roba pensata per andare in classifica, non si addice per niente alle logiche odierne. È quello che una volta pensavamo sarebbe diventato il rap. Quando abbiamo iniziato nessuno immaginava che un giorno sarebbe esplosa la trap, si dava per scontato che suonare rap fosse qualcosa di alternativo, roba di nicchia. E nessuno si aspettava che si potesse campare di questa musica. Il massimo era riuscire a pagare l’affitto, cosa che grazie a dio ora riusciamo a fare… anche se c’è gente a cui dobbiamo dei soldi.

Ma i punti di riferimento del disco quali sono?
Il rap romano sicuramente, ma anche la grande tradizione dei gruppi rap americani che hanno questa struttura. Quindi dal TruceKlan al Wu-Tang Clan.

Drone126 e Ketama. Foto: Ilaria Ieie per Rolling Stone Italia

Già dal singolo Classico si intuisce che l’intento è quello di avere uno stile, appunto, classico.
Abbiamo pensato: qual è la cosa che ci accomuna? A quel punto il disco è venuto da sé. Anzi, è strano che non abbiamo fatto prima un progetto con questo taglio. (Passa un anziano che guarda Ketama che sta rollando e dice: «Ahó, l’hai caricata bene?», nda). Ecco, a proposito di classico lui sarebbe un membro onorario della crew (ridono).

Un momento molto anni ’70, questo. A proposito, voi che rapporto avete con gli anni ’70? Li citate esteticamente anche nei video e in alcune parti del sound…
Un rapporto nostalgico, perché non li abbiamo mai vissuti. Un rapporto di fantasia. Ma comunque, grande decennio, grande musica, la migliore.

E quindi questo disco è anche una dedica a quel decennio…
Sì, a livello musicale soprattutto, ma anche per la vita che si faceva per le strade all’epoca.

Visto che oggi spesso si fa di questa parola un uso improprio, cos’è per voi la strada?
È la piazza o questi gradini dove ci siamo ritrovati e dove siamo cresciuti come gruppo. È la cultura di strada dell’hip hop, la dimensione in cui tutti si ritrovano in maniera informale. Da qualunque contesto uno provenga c’è comunque un momento in cui tutti si incontrano, si incrociano.

E voi siete tutti di Trastevere e Monteverde, no?
Chi più o chi meno ci trovavamo tutti qua.

Abitate ancora da queste parti?
Sì, siamo sempre dove siamo nati. Sarebbe difficile spostarsi. Se sei cresciuto a Trastevere che è una zona centrale o cambi proprio città… ma pure in quel caso che fai, vai a Milano? Qui abbiamo il nostro microcosmo, a quel punto vai in campagna, che è una situazione diversa.

Quindi Roma si conferma centrale nel vostro immaginario.
Sì, anche quando in passato abbiamo un po’ sperimentato o comunque guardato a tendenze estere, nei contenuti siamo sempre rimasti radicati a una dimensione locale. Abbiamo cercato di trovare un compromesso tra le due cose. In questo disco la romanità è accentuata. È un prodotto di rap romano, anche i feat vanno in quel senso. È diverso musicalmente dalle cose che nascono nel resto d’Italia. È più una cosa di cuore.

Ugo Borghetti e Asp126. Foto: Ilaria Ieie per Rolling Stone Italia

Come avete gestito i feat, considerando che oggi vengono usati in modo strumentale per raggiungere il successo?
Siamo andati fuori da queste logiche di mercato, abbiamo chiamato gente che ascoltavamo quando eravamo pischelli. È per questo, ancor più delle strofe, che è un album romano. I feat sono tutti romani. C’è ad esempio Federico Zampaglione che è un amico di Monteverde. Siamo andati a pranzo con lui, la cosa è nata in modo spontaneo. È lo spirito che contraddistingue il disco, fatto senza pensarci troppo.

Parlando di cantanti storici romani, chi vi piace ancora oggi?
Califano. Ma anche Battisti, pure se era di Rieti. Comunque il Califfo non si batte, anche se a livello di scrittura forse è pesante… Ci piace anche Rino Gaetano, che era calabrese ma praticamente romano d’adozione. Questa è Roma, se ci abiti e la vivi sei automaticamente romano.

So che state facendo una cosa performativa in giro per l’Italia…
Sì, un tour (ridono). Stiamo facendo dei graffiti in alcune delle principali città italiane usando i titoli delle canzoni. È un progetto che riprende la cultura hip hop, un’idea di Ketama che ci tiene a rivendicarsela (ridono). È opera di graffitari storici di Roma come er Trota. Noi non abbiamo mai fatto graffiti, ma ci rivediamo in quell’attitudine espressiva e artistica che non punta ad avere un riscontro ufficiale da parte del mercato. È roba che ha una dimensione di culto.

Mi ricorda un po’ i tempi di AL, la storica fanzine hip hop. La leggevate?
Apparteniamo alla generazione successiva, ma siamo tutti cresciuti col suo mito, sentivamo la gente parlare di AL, ma quando facevamo rap già non la stampavano più. Ci siamo appassionati del rap su internet nelle prime fasi iniziali, le cose su YouTube, i Corpus Christi, i No Acqua coi sottotitoli in giapponese che dicevi: ma che è sta roba, il deep web? E poi Matt Er Negretto…

Grande Er Negretto, che fine ha fatto?
È sparito. Lo abbiamo visto ogni tanto a Trastevere, comunque un grande artista.

E chi vi piace tra i vostri colleghi questo periodo?
Sono tanti, c’è tanta gente forte. A Roma direi Sicurezza. Poi Ele A, una ragazza svizzera: i beat spaccano.

La Lovegang126 sulla scalea del Tamburino. Foto: Ilaria Ieie per Rolling Stone Italia

A proposito di beat, le basi del vostro disco chi le ha fatte?
Drone126 e Nino Brown. Ci sono diversi contributi di Il Tre Beats, che è un producer storico della scena romana. Abbiamo cercato di mettere al centro il campionamento, che è la cosa che abbiamo coltivato di più ed è lo statement di tutto il disco.

Quindi non c’è nulla di suonato?
Come no! C’è ad esempio il sax del padre di Ketama. Ma l’idea di campionamento come lo intendiamo noi è sempre prendere l’anima di qualcosa che esiste già, stravolgerla, nasconderla e rifarla in una maniera inedita. È d’altronde lo spirito dell’hip hop, che è un genere postmoderno.

Anche chi fa canzoni tradizionali si ispira a qualcuno, parte suonando una roba di un altro e poi arriva alla sua.
Certamente, è una forma di elaborazione, la paternità in generale è sempre un fatto relativo. Guarda il campionamento nel rap classico: se prendi due campioni stravolti e ci fai due strofe sopra non è copiare. Se invece fai come ora, che va di moda campionare vecchie hit del passato lasciando tutto identico all’originale compresa la melodia, è più un remix. Uno come J-Dilla, per dire, non ha mai copiato un cazzo usando i campionamenti, ha solo inventato.

Che ne pensate invece di Sergio Caputo?
Ci sono cantautori che ci hanno influenzato molto, Caputo ad esempio scriveva per immagini come facciamo noi in questo disco, nel bene e nel male.

L’ho chiesto perché nel disco ho sentito molto il discorso dello svacco che vi accomuna a lui: uscire, fare, stare in strada. Partire cristo e tornare diavolo, per parafrasare il titolo dell’album.
Uscire e tornare modificato come un cinquantino (risate).

Consideriamo questa frase come sintesi del disco. Vedo che il tour inizierà a maggio e a giugno sarete al Rock in Roma.
Sarà una grande festa, un’occasione irripetibile perché è difficile che ci rivediate insieme. Sarà la prima e l’ultima volta (ridono). Ma mai dire mai. Come diceva Califano, non escludo il ritorno.

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Foto: Ilaria Ieie
Art Director: Alex Calcatelli per LeftLoft
Fashion Editor: Francesca Piovano
RS Producer: Maria Rosaria Cautilli
Stylist: Vision Baby per Ba.to
Make-Up: Vanessa Forlini
MUA Assistant: Carla Martino
Backstage Video: Maurizio Valentini
Photo Assistant: Nicolò Ballante

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