Loredana Bertè: Pazza di me | Rolling Stone Italia
Cover Story Sanremo Edition

Loredana Bertè
Pazza di me

È la nostra rockstar numero uno, quella che ci ha insegnato che non bisogna chiedere il permesso per essere sé stessi. In occasione del ritorno a Sanremo, Rolling Stone le ha dedicato una fanzine cartacea. In questa intervista racconta la sua idea di pazzia, le guerre con gli altri e con sé stessa, lo stile di vita rock, il patriarcato, la voglia di rompere gli schemi, gli incontri con Andy Warhol e Osama bin Laden. E il dolore, «che non purifica, è dolore e basta»

Foto: Alan Gelati

«“Loredana, ricordati che l’uomo non è altro che la testa del suo cazzo”. E io quelle parole non le ho più scordate». Basta una frase, tra le tante, che ti sbatte in faccia con la nonchalance di chi non ha mai chiesto il permesso per fare nulla in vita sua, per distruggere secoli di patriarcato. Poi ride senza trattenersi, perché Loredana Bertè è un po’ come cantava Lucio Dalla di Milano, città dove, non a caso, ha deciso di abitare stabilmente: “quando piange, piange davvero”. Ma quando ride lo fa altrettanto, senza freni.

Meno male che non ne ha (mai avuti) e grazie a questa libertà, che a volte chiama rock e altre volte ribellione, ci ha regalato tra le pagine migliori della musica italiana, al di là dei generi che ha frequentato. Oggi ride, Loredana, perché festeggia cinquant’anni di carriera con la dodicesima partecipazione a Sanremo e un’antologia in uscita che contiene ben 57 brani. E perché ha scoperto che, dopo tanto dolore e tante delusioni, non le serve nessun altro per volersi bene: «Mi amo disperatamente». Come si può, quindi, non amarla a nostra volta? Se poi pensiamo che già mezzo secolo fa, prima di mille dibattiti che affollano i social, ha messo tutti – i maschi in particolare – con le spalle al muro, ponendoci di fronte alle nostre debolezze e spazzando via le ipocrisie di una società restia al cambiamento, la sua appare davvero come una straordinaria storia di emancipazione. Ha riscattato il corpo delle donne nel costume mettendosi senza veli quando, in molte zone d’Italia, erano costrette a girare con il capo coperto. E sfidando l’opinione pubblica anche nelle scelte etiche, come quando si presentò con il finto pancione all’Ariston nell’86 affrontando chi urlava allo scandalo.

Per questo, ricordando cosa le dicevano ogni volta che spostava l’asticella del riscatto, alla 74sima edizione del Festival arriva con una canzone che si intitola Pazza. Un altro brano manifesto, dopo Non sono una signora, che stavolta si rivolge soprattutto a una pace interiore (ri)trovata: «È la mia Guernica. Le guerre possono essere fatte con gli altri, ma anche con sé stessi, e con Pazza voglio chiudere la guerra con me stessa». Con lei, che si è fatta rincorrere per giorni tra le prove in studio e quelle per gli abiti – inafferrabile come solo le vere star sanno essere, anche a costo di non riuscire mai ad afferrarle – abbiamo ripercorso una traiettoria apparentemente rapsodica di un’esistenza nella quale, a conti fatti, tutto sembra invece tenersi alla perfezione: «Follia è amarsi per ciò che si è dopo essersi anche odiati».

Il tuo primo album è del 1974 e si intitola Streaking, che tradotto significa “correre nudi tra la folla”. Infatti nelle foto del disco eri senza veli, e l’album per questo fu boicottato. Sarebbe provocatorio anche adesso, dopo cinquant’anni…
Veramente! Sono passati cinque decenni e siamo ancora lì. A quando, addirittura, conquiste che credevamo ormai acquisite vengono rimesse in discussione. Ogni potere, da quello religioso a quello politico, vuole intervenire sul corpo delle donne dicendo cosa si può o non si può fare.

Tu hai fatto tutto senza chiedere il permesso a nessuno, mi pare.
Certo, ma il mio pensiero va a quelle donne che hanno veramente fatto le rivoluzioni nel costume già nel Novecento, oppure a Rita Levi Montalcini che, in un mondo chiuso come quello della scienza, ha dimostrato che la libertà non ha genere e che il destino delle donne non è solo quello di essere mogli e madri. Penso anche a tutte coloro che ancora stanno lottando per potersi vestire come preferiscono o innamorarsi di chi vogliono. Io sono con loro.

Si è tornati a parlare di patriarcato. Tu questi dibattiti quante volte li hai sentiti?
È vero, li ho sentiti fare in tutti questi anni, ma quello che più conta, al di là dei dibattiti, è che il patriarcato esiste, non è una parola vuota. Esiste, e io i suoi effetti li ho vissuti in prima persona. Sono testimone della sua esistenza e desidero con tutte le mie forze l’arrivo di un vero cambiamento culturale che porti alla vera parità. Ci sono dei fatti nella Storia che, senza volerlo, diventano degli eventi scatenanti per il cambiamento, e spero che quello che abbiamo visto nelle piazze dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin sia veramente l’inizio di una svolta.

Non sono una signora, il tuo manifesto, è del 1982. Oggi da chi ti piacerebbe sentirla cantare? Da Elodie, Annalisa, Emma o chi?
Mi hai citato tre artiste che considero, e che si considerano, figlie mie. Ognuna, però, ha una storia e un vissuto a sé. Non sono una signora è universale, ancora oggi significa: donne, potete essere tutto ciò che volete, al di fuori delle aspettative sociali e familiari. Questo è il punto. Con la musica, ma anche con i vestiti o senza, ho sempre sostenuto l’immagine di una donna libera, indipendente e combattiva. Anche se siamo nel 2024, Non sono una signora è ancora un inno all’emancipazione femminile, al coraggio e alla determinazione delle donne.

Foto: Alan Gelati

Sai che Gino Paoli ha detto: «Oggi emergono le cantanti che mostrano il culo»?
Ah sì? Stiamo attenti al prossimo annuncio, il passo è breve, magari dice che le donne proprio non devono cantare! È una questione di libertà. Ero e sono libera. Lo sono sempre stata.

In un passaggio di Sei bellissima canti: “E poi mi diceva sempre / non vali che un po’ più di niente”. Un’altra denuncia del potere degli uomini sulle donne.
Il controllo sulle donne, in alcune occasioni, può passare da un falso sentimento di protezione. Ma non dobbiamo essere protette, dobbiamo essere amate e rispettate.

Hai sempre sostenuto: «Al primo schiaffo, care donne, bisogna denunciare».
Sì, e non lo si ripete mai abbastanza. È veramente da non crederci, eppure anche le denunce non vengono prese seriamente e non si interviene come si dovrebbe per bloccare questi assassini.

Questo sarà il tuo dodicesimo Sanremo e porterai un brano dal titolo Pazza, che è tutto un programma. Un’altra provocazione?
L’ho scelta perché tante volte mi è stato detto in modo serio o ironico che ero una pazza. Credo sia fondamentale non vergognarsi mai di quello che si è, oltre che, nello stesso tempo, continuare a esserlo. La follia, come ho ribadito nell’album LiBerté, fa rima con libertà. Così Pazza esorta le persone ad amarsi. Mi hanno chiesto che quadro rappresenterebbe bene la canzone e posso dire che è la mia Guernica, che da sempre è la mia opera preferita, da quando facevo l’Istituto d’Arte. Con Guernica Picasso ha realizzato un manifesto universale contro la forza distruttiva delle guerre. Le guerre possono essere fatte con gli altri, ma anche con sé stessi, e con Pazza voglio chiudere la guerra con me stessa.

Alda Merini ha scritto: «La follia è una delle cose più sacre che esistono sulla Terra. È un percorso di dolore purificatore». Sei d’accordo?
Il dolore che purifica non mi convince per niente, il dolore è dolore. Punto. C’è un’altra frase di Alda Merini che ricordo e con la quale mi trovo d’accordo: «Quelle come me inseguono un sogno, quello di essere amate per ciò che sono e non per ciò che si vorrebbe fossero». Ecco, follia è amarsi per ciò che si è dopo essersi anche odiati, aver superato ostacoli, rotto gli schemi e le imposizioni.

A livello musicale è un pezzo molto rock, nel tuo stile. Ma il rock è un modo di vivere, più che un genere, o no?
Essere rock significa anche essere pazzi, per come intendo io la pazzia. Essere rock si può tradurre con l’andare in direzione ostinata e contraria, scardinando le regole che troppo spesso ci vengono imposte. Il rock è ribellione, uno stile di vita, non un’accozzaglia di suoni.

Una canzone, la tua a Sanremo, nuovamente autobiografica?
Sì, perché sono stata sempre fedele a me stessa e perché pensare con la propria testa può liberarti da quella camicia di forza che possono rappresentare le regole sociali. La libertà di essere folli è la libertà di essere sé stessi.

«Con ‘Pazza’ voglio chiudere la guerra con me stessa»

All’Ariston quest’anno vai per vincere o del risultato, in fondo, ti importa poco?
Ho voluto essere a Sanremo perché potrebbe essere l’ultimo Festival di Amadeus e, devo dire, è stato bravissimo. Mi sarebbe dispiaciuto non essere presente nei suoi Sanremo. Un altro motivo che mi riporta a partecipare a questa vetrina importantissima è il mio sogno nel cassetto di cantare alla serata dei duetti Ragazzo mio, un omaggio che da anni volevo fare al grandissimo Luigi Tenco nella versione che il maestro Ivano Fossati aveva composto per me nel 1984. Ma non lo nego, su quel podio mi piacerebbe esserci, anche se quest’anno me lo vivrò senza troppa ansia. Credo di non avere più niente da dimostrare.

Ivano Fossati ti ha fatto una bellissima dedica su questo numero di Rolling Stone. Tra le altre cose, ha scritto: «Loredana è grande quando si rivolge direttamente a te, che quasi ti sgomenta».
Forte, eh? È proprio una definizione da Ivano Fossati: quando si vuole mettere a scrivere, lo riconosco immediatamente. Io in questo Sanremo volevo appunto omaggiare, oltre a Luigi Tenco, proprio lui che è stato fondamentale per me. In cinque anni abbiamo realizzato tre album e sono tutti strepitosi. Quindi, grazie Ivano!

Sempre Fossati, a proposito di Ragazzo mio, ha ricordato il perché decise di proporti quel brano: «L’idea che i feticisti e i bacchettoni della canzone d’autore sarebbero saltati sulla sedia inorriditi mi esaltava».
Anche qui riconosco in tutto Ivano. Noi non siamo mai stati bacchettoni, ecco perché abbiamo lavorato bene insieme.

In più, nella serata delle cover, sarai accompagnata da un giovane artista che è già tra i più interessanti in circolazione: Venerus. Una scelta non scontata.
Ci tengo veramente tantissimo a portare questa canzone su quel palco, sono anni che lo sogno. Una canzone di Tenco che Fossati aveva riarrangiato apposta per me. E Andrea Venerus in via eccezionale si esibirà alla chitarra. Ci siamo incontrati ed è un grande artista, libero, amatissimo dai giovani, con una sensibilità rara anche nel parlare delle donne. Un compagno perfetto. Abbiamo fatto le prove e ci siamo trovati proprio bene. Ho sempre amato collaborare con altri artisti, musicisti e autori.

Ogni volta che sei andata da qualche parte hai scardinato le regole. È successo, per esempio, a Sanremo nel 2019 quando, con il quarto posto di Cosa ti aspetti da me, per calmare la platea che ti osannava hanno inventato il Premio Pubblico dell’Ariston.
È vero! Dopo quattro standing ovation e con Claudio Baglioni, allora direttore artistico, che non era affatto contento di quel casino, ci tengo a precisarlo. Non sono salita sul podio fra i primi tre, però moralmente tutta Italia ha decretato che il Festival del 2019 lo avevo vinto io.

Nemmeno nei momenti più bui il pubblico ti ha mai voltato le spalle.
Lo apprezzo tantissimo. Il pubblico è fantastico, ed è per questo che io lo amo.

In passato hai detto: «L’amore è sopravvalutato: ti invade e ti finisce». Ne sei ancora convinta?
Sono parole di Djavan, con cui ho lavorato a Rio de Janeiro per registrare Carioca. Le ho prese in prestito perché mi sembrano perfette.

Hai mai più conosciuto l’amore, dopo i famosi trascorsi burrascosi?
Esistono tanti tipi d’amore, dipende cosa intendi.

Se oggi sei innamorata.
Posso dire che oggi mi amo disperatamente, sono pazza di me!

Mia Martini, secondo te, cosa direbbe di quest’epoca?
Parafrasando una sua canzone, credo che direbbe sempre che “la gente è strana… e cambia idea continuamente”.

Mi togli una curiosità? Perché non usi il cellulare?
Uso quello della mia manager (Francesca Losappio, nda). Ho solo il telefono di casa, che ormai avrà 40-50 anni.

Eppure, intorno a te, tutti sono ricurvi sullo smartphone.
Non me ne frega nulla, non li invidio. Fa tutto Francesca, io non lo so nemmeno accendere.

La tecnologia non ti incuriosisce per niente?
No no, per carità. Io sono totalmente analogica. Pensa che a Francesca tocca leggermi tutti i messaggi che mi arrivano e gli articoli su internet.

Foto: Alan Gelati

Ti costringo a un salto indietro ai tuoi esordi. Forse non tutti ricordano che hai iniziato con il teatro e che a cantare, almeno all’inizio, non ci pensavi per nulla.
Mi fai venire un tuffo al cuore, soprattutto se penso al musical Hair diretto da Bill Conti, che era appena arrivato dall’Inghilterra e mi ha convinto a cantare. Facevamo le prove ogni pomeriggio al Teatro Sistina. Ero tra i soprani e facevo la parte di una ragazza incinta che diceva ai suoi genitori che voleva tenere il bambino. Poi mi hanno spostato di ruolo perché dicevano che ero troppo figa, come ha stabilito anche Playboy con una copertina pazzesca.

Era il 1974 e hai posato senza veli per la cover dal titolo: “Mi spoglio alla moviola”.
Comunque, già a teatro, a ogni replica ci denunciavano per atti osceni in luogo pubblico. È stato uno dei periodi più belli della mia vita, quello di Hair e dello spettacolo Ciao Rudy con la simpaticissima Paola Borboni. Sai cosa mi diceva sempre?

Sentiamo.
Intanto a teatro eravamo sempre nudi, e Paola Borboni mi chiamava nel suo camerino, anche lei nuda, e mi diceva: «Loredana, ricordati che l’uomo non è altro che la testa del suo cazzo». E io quelle parole non le ho più scordate.

Tornando al tuo passato e alle esperienze incredibili che hai fatto, in America eri diventata amica di Andy Warhol.
Come no, ogni giorno andavo alla Factory e per un anno intero ho cucinato per lui e tanti altri. Andy mi chiamava Pasta Queen. Le poche volte che tornavo a Roma, poi ripartivo con una valigia piena di pasta italiana, passata di pomodoro e olio d’oliva. Invece lo scolapasta l’ho comprato in America. Per Warhol il mio scolapasta è stato un oggetto molto interessante per diverso tempo, lo fotografava in tutti i modi. Mi chiedeva stupito: «Cos’è?». E io: «Lo vedrai cos’è…». La Factory era un porto di mare, ogni tanto passavano a mangiare anche Jean-Michel Basquiat e David Bowie, ma ti rendi conto?

Tra gli artisti con cui hai lavorato c’è Ivan Graziani per la canzone Colombo. Dopo trent’anni è stato pubblicato un suo disco di inediti, che effetto ti fa?
Purtroppo è stato un po’ dimenticato, ma era bravissimo. Era davvero un precursore su tanti aspetti musicali. Mi spiace che venga ricordato poco, ma era molto forte ed eravamo tanto amici. Come con Rino Gaetano, che se n’è andato troppo presto.

Quest’anno in gara a Sanremo c’è la figlia di un altro grande artista con cui hai collaborato, mi riferisco ad Angelina Mango.
Ah sì, ricordo le giornate a Lagonegro, in Basilicata, a casa di Mango con la sua mamma. Scrisse per me Re e Fotografando, due bellissimi pezzi che ho inciso a Milano. Da quella collaborazione in poi non ci siamo più lasciati, finché non è venuto a mancare. Angelina ha molta grinta, mi piace tanto. E per lei provo tantissima tenerezza, è così carina.

Forse l’incontro più stupefacente che hai fatto nella tua vita è quello con Osama bin Laden: ma è tutto vero?
Come no! Certo che l’ho incontrato e conosciuto alla Casa Bianca. Era il cinquantesimo fratello bin Laden, o giù di lì… Bush Senior era praticamente in società con Osama, che c’entrava qualcosa già allora con le Torri Gemelle, anche se poi le ha fatte bombardare nel 1993 (nell’attentato al World Trade Center con un furgone-bomba, nda) e distruggere da due aerei nel 2001. Non mi sembra vero che sia stato lui a compiere quella carneficina. Certe cose le ho proprio impresse nella memoria. Sono contenta di averne vissute alcune e meno altre. Per esempio, a questi personaggi avrei potuto dire qualcosa di più e invece non l’ho fatto.

«Essere rock è andare in direzione ostinata e contraria, scardinando le regole»

Nel frattempo, il 9 febbraio esce Ribelle, un’antologia di tre CD e due LP con ben 57 tuoi brani. Anche qui il titolo dice tutto.
Intanto questa raccolta mi rappresenta appieno. Perché la ribellione è sinonimo della libertà assoluta, che non può essere barattata con nulla. Bisogna stare fuori da ogni stereotipo.

È l’invito che faresti ai giovani di oggi, ribellarsi un po’ di più?
Assolutamente sì, peccato che non ne abbiano il coraggio. Noi siamo stati più fortunati, è vero, tra le contestazioni e l’epopea del rock, loro non possono neanche immaginare cos’hanno rappresentato. Ma noi già dai 13 ai 16 anni eravamo fuori di casa. Adesso fanno fatica a uscire a 40. Non hanno curiosità, questo gli manca. Noi ce l’avevamo, come di prendere un aereo senza una lira e andarcene. Chi è andato in giro ha visto e fatto tantissime cose.

In questo senso, con Traslocando, nella storia della musica ci sei anche tu. È fra i 100 migliori album italiani secondo Rolling Stone.
Ma dai, non lo sapevo, mi piace questa cosa. E chi sono quelli prima di me?

Da Vasco Rossi a Franco Battiato e Lucio Battisti…
Ci sarà Creuza de mä di Fabrizio De André, no?

Sì, al quarto posto.
Quello mi fa impazzire anche a me. Ivano Fossati c’è?

Al 50esimo posto con Panama e dintorni.
Vabbè, però io al 24esimo è bassino. Non si può alzare un po’? (Scoppia a ridere)

Sei talmente avanti che già nel 2016 con Il mio funerale cantavi: “È il mio funerale non ve lo perdete / È l’unica data venite correte / Non c’è replica / È il mio funerale ma non lo capite / Che se non venite non apparirete / In nessuna tv”. Uno sberleffo anche alla morte?
Avevo chiesto persino a Taffo di sponsorizzare il pezzo! È il coccodrillo che mi sono dedicata in vita. La gente ormai va ai funerali per farsi i selfie, per cui, visto l’andazzo, quando arriverà facciamolo diventare una bella festa e divertiamoci ancora una volta.

Intervista tratta dalla fanzine di Rolling Stone dedicata a Loredana Bertè in occasione di Sanremo 2024.

 

 

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