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Lo swing marxista di Neffa: «Nessuno sa fare quello che so fare io»

Un antico saggio cinese, un ragazzo di Harlem degli anni ’70, uno scugnizzo della Salerno della Prima Repubblica reincarnati nel corpo di un 58enne educato e colto. Intervista al Canerandagio della musica italiana

Foto: Gabriele Micalizzi

Quella che segue è la seconda intervista a Neffa che facciamo su queste pagine nel 2025. La prima, ad aprile, era la cover story per il suo grande ritorno con Canerandagio. Era lunga, articolata (non che questa non lo sia), e giustamente improntata al passato perché era per davvero il ritorno del guaglione sulla traccia, con un disco che metteva a tacere le malelingue secondo le quali lo Zeus della rima in italiano ormai non era più tale.

E allora perché farne un’altra sei mesi dopo? Beh, prima di tutto perché è Neffa. Di animali rari e preziosi come lui se ne avvistano pochissimi in una giungla sempre più popolata di cloni di cloni (di cloni?). Figuriamoci se ti perdi l’occasione di chiacchierare per mezz’ora con un libro di massime esistenziali, ma anche gag da perfetto stand-up comedian.

Per non parlare della qualità più sbalorditiva di Giovanni, che non hai modo di saggiare fino in fondo finché non ci parli a quattr’occhi: una padronanza colloquiale delle metafore talmente fantasiosa, sinestetica, che all’inizio pensi siano pre-studiate. Poi ti rendi conto, con estremo senso di colpa per averne dubitato, che è tutta improvvisazione. Una rete neurale potenzialmente infinita collega secondo regole cosmologiche tutte le sinapsi che compongono la mente di Neffa. È un antico saggio cinese di 5000 anni, un ragazzo di Harlem degli anni ’70, uno scugnizzo della Salerno della Prima Repubblica, tutti reincarnati nel corpo di un 58enne educato e colto, ancora in forma e, a differenza di molti di noi, ancora in perfetta sintonia con l’erba.

«Avevo buttato delle esche lontano sperando poi che avrei trovato anche il pescatore dall’altro capo del filo, che dovevo essere io», mi racconta svaccato su un divanetto in Sony Music, a Milano. Parla del periodo antecedente alla scrittura dell’album, quando ancora non era per niente ispirato, o “aperto” come la definisce lui, però aveva già firmato contratti discografici, preso accordi.

Dopodiché, questa seconda intervista è necessaria perché chiude il cerchio di Canerandagio, monumentale opera in due atti. Il secondo dei quali, appunto, è uscito d’estate, un viaggio che culminerà con il concertone al Forum di Assago il 5 novembre. Sincero: Canerandagio parte seconda è rincuorante. Sapere che il mondo là fuori cambia (in peggio, ovviamente) ma la N-E, la doppia F-A non solo è ancora capace di fare quello che sappiamo tutti, ma di farlo evolvendosi di continuo (ascolta Santosubito e dimmi) è come una costante, un faro nella notte. Ed è lui, Giovanni Pellino, il primo a constatarlo con soddisfazione. Nessuno sa fare quello che sa fare lui, come lo sa fare lui. E nessuno di rilevante ha onestamente mai avuto né la sfacciataggine, né l’impudenza di contraddirlo.

È possibile che un mio amico ti abbia beccato ieri in metro?
Sì, è possibile. A me piace molto la metro. La evito negli orari di punta e se non avessi già avuto l’influenza. Però, visto che l’ho presa quasi subito, ormai gli anticorpi ce li ho e per il concerto sono a posto. Fai conto che ai tempi del Covid ho dovuto seguire dei protocolli esagerati rispetto agli altri. Per lungo tempo non sono andato nei posti, non ho viaggiato, ero imparanoiato, ho perso persone.

Mi spiace.
Il cantante del mio primo gruppo punk, gli Impact, è morto. Mi ha fatto un’impressione, morire così a 50 anni. Poi, quando c’è stato il liberi tutti, sempre in metro, ristoranti di nuovo con mille tavoli, tutto dimenticato. Berlino prima tutti con le maschere in metro, da un giorno all’altro zero.

Tu vivi anche lì, no?
D’estate tendo ad andare là. Ma adesso vivo a Milano. Comunque, quest’anno mi sono detto: metto su dei protocolli tipo i tempi del Covid perché c’ho il concerto al Forum. Manco fatto in tempo a dirlo che ho preso l’influenza. E quindi la metropolitana va benissimo.

Qua tutti i giovani trap boy flexano le Lamborghini, e tu giri in metro.
Sì, però mi piace dire che la metropolitana è la mia. Io sono il signor ATM.

Foto: Gabriele Micalizzi

Sbaglio o c’è più cazzimma in questa seconda parte di Canerandagio?
Guarda, ho avuto modo di riflettere su questo fatto. Io in fin dei conti ho approcciato la Parte 1 in maniera molto simile a come ho approcciato AmarAmmore, un disco che mi ha fatto fare pace con l’universo, perché è stato una tale ispirazione potente che era al di fuori di me. Ai tempi ho capito una cosa: se questo è il grado d’ispirazione che si può avere per fare un disco, allora io non faccio niente finché non ho questo livello d’ispirazione. E ho avuto per di più la fortuna di avere lo stesso tipo d’ispirazione anche l’anno scorso. Cosa che mi ha permesso d’improvvisare al microfono.

Molto spesso sono inconsapevole dei miei processi. Metto fuori un album e quasi sempre poi mi arrivano delle cose che non avevo previsto. Magari io prevedo che mi romperanno le scatole per una cosa precisa, poi invece non la considerano ma lo fanno per un’altra che mai mi sarei immaginato. Capisci? Fai conto che parto sempre dal presupposto che, per me, la politica nella musica è l’onestà creativa.

Dimmi di più.
Dimmi che testa hai quando prendi la penna in mano e ti dirò che politica hai nelle canzoni. Se tu mi fai un disco con 37 slogan, non m’hai fatto un disco. Il rap è sempre molto politico, non tanto come contenuti ma come rappresentanza.

Si è persa oggi questa cosa o è più forte?
È molto più forte. Se noti, la gente ormai va sui social per litigare. Il rap è perfetto per questo. Offre ottimi motivi per litigare. Una di queste ultime volte mi sono dispiaciuto, perché mi sento spesso incompreso dagli odiatori. Il mio amico Fabri [Fibra] mi ha detto: «Senti, rompono il cazzo a Eminem e Lil Wayne che probabilmente sono i più forti al mondo. Allora cosa ti vuoi aspettare tu?». Pensa te: quando si trattava di scrivere il pezzo con Jake La Furia, io mi sono detto di volerlo scrivere un po’ come alla vecchia. Mi metto davanti al computer, metto il beat che va e immagino le strutture. Ho scritto più come se fosse il rap e meno come se fosse la musica che io facevo.

Hai fatto bene anche a tenere come intro il vocale WhatsApp di Jake tutto gasato per la traccia.
Eh sì, gliel’ho chiesto! Del resto ho notato che i miei audio sono finiti nei dischi di tutti. Allora mi son detto: ma potrò anche io una volta chiedere a Jake di mettere un suo audio” Jake è stato molto disponibile. Quel pezzo per esempio esisteva su un altro beat su cui non riuscivo a scrivere. Appena ho cambiato la base ho sperato che piacesse anche a Jake. E lì inizialmente era un po’ sì, vabbè, perché semplicemente all’inizio ti abitui a quella determinata base. Aveva la sua strofa lì. Stesso vale per il pezzo con J-Ax. Ho cambiato le basi in corsa e secondo me ho ottenuto un boost molto forte.

Beh, sì, soprattutto su quello con Jake.
Per chiudere su questo tema, ti dico anche questo: di Burnout avrò scritto la prima strofa a maggio. Una sera la mia discografica, Sara, mi ha detto «dai, vieni che c’è il concerto di Franco126». E io come sempre le ho risposto che preferivo non uscire perché stavo scrivendo. Ma visto che le avevo già detto di no troppe volte, ho accettato a patto di ritornare subito in studio dopo il concerto a scrivere. Col piffero! Nel senso, tu puoi dire: mi metto là con la base e tutto. Però ci vuole comunque una potente forma d’ispirazione. Perché poi ci ho messo più di un mese per riuscire a replicare quel livello della prima strofa. E l’ho scritta un giorno prima di consegnare. Io stavo per far saltare l’uscita perché non avevo il pezzo. Ho detto: raga, abbiamo nove pezzi, voglio proprio vedere come facciamo mo’. E poi invece ho scritto anche Rubik, che forse è il mio preferito del disco.

Che tra l’altro è insieme a Santosubito.
Esatto, perché non era prevista! Io Santosubito ce l’avevo già ancora prima di venire a Milano. Poi l’ho fatta sentire e sono rimasti tutti abbastanza di stucco. Ma ’sta roba? Avevo già fatto uno skit ai tempi di Funky marziano italiano di Papa Rodriguez e io ho sempre pensato che si possa fare lo scat jazz sulla base hip hop. Del resto c’era un gruppo che si chiamava Freestyle Fellowship che faceva queste robe. Ma io ho avuto modo di notare ultimamente, e te lo metto proprio come provocazione, perché tanto ormai l’ho fatto ed esiste come una Stele di Rosetta, se ci pensi, su 60 milioni d’italiani non ce n’è uno in grado di fare Santosubito. Vattelo a cercare. Perché non troverai un jazzista abbastanza hip hop, né un rapper abbastanza acculturato musicalmente per poterlo fare.

È vero. Non posso contraddirti.
Io sono l’unico in Italia che può fare Santosubito. Questa roba qua non mi viene riconosciuta ma sarebbe proprio il caso di farlo. È difficile per gli altri, ma io ti posso fare un album così e te lo posso portare la settimana prossima. Ha molta improvvisazione, che mi permette anche di essere meno mentale.

Hai individuato delle cause che possano determinare o meno questa ispirazione di cui parlavi?
No, però ho dovuto trovargli un nome: essere aperto. Me ne sono accorto nel 2012, quando ho scritto Molto calmo e Dove sei. Io penso che quando hai 25 o 30 anni e fai il disco dei Sangue Misto, sei aperto e non lo sai. La tua anima è talmente potente nel riverberare, è talmente impotente nell’avere consapevolezza; è il frutto della tua inconsapevolezza, che però è anche la tua forza. Perché l’inconsapevolezza ti rende possibile di dire: sono un calabrone e volo. E voli per davvero. Mentre invece, diventando più vecchio, maturo, alla fine da una parte impari che la tua vita è un circuito che già conosci. Quando sei giovane non ti rendi conto che giri intorno ai tuoi buonumori e malumori continuamente.

Sono dei processi che portano ad avere alti e bassi.
Proprio così. E già all’epoca di Molto calmo questa cosa mi è capitata potentemente e per la prima volta mi sono detto: questa roba è logorante. Perché a me quando succede quello, mangio in piedi, dormo poco, non ho possibilità di fare altro che non sia la musica. Dopo Canerandagio Parte 1 ho pensato che la prossima volta che mi sarebbe successo di essere aperto non sarei andato proprio a dormire.

Ma così è Guantanamo!
Lo so, però quando ho fatto AmarAmmore avevo la maturità di capire che quello che dovevo fare era togliere le mani dal volante e rendermi conto che la macchina la stanno guidando le muse. Sono sempre stato flashato da Jodorowsky che fa i sogni lucidi: è in grado di essere il regista dei propri sogni. E l’ho fatto anche io con Canerandagio. Quando ho scritto quella canzone mi ricordo che erano le 7 di mattina, avevo scritto due o tre canzoni in tutta la notte in piedi. E mentre stavo scrivendo questa roba qua non piangevo, però avevo dei lacrimoni grossissimi a due a due che cadevano sul tavolo. Stava uscendo una cosa grossa. Ma quando ho poi sentito le critiche della gente che non capiva il senso potentissimo di quel testo, allora mi sono sentito intoccabile. E tu, che critichi, ti stai facendo guidare da un preconcetto e mi dispiace per te. Io so che quella roba era potente.

Ma poi la gente non si rende conto che non solo non è facile fare a 25 anni una cosa come Sangue Misto o i Messaggeri della Dopa. È praticamente impossibile fare Canerandagio all’alba dei 60 anni. È il tempo la vera prova da superare, e quasi nessuno l’ha superata così bene come te.
Tira fuori la statua di cera con cui tutti ti hanno santificato finora. Io ho avuto dieci anni di odio feroce, dal 2000 al 2010. Poi ho cominciato a sentirmi dire: «Grande, Maestro!». Poi appena sono sparito di nuovo, ancora hater. Pensa che l’altro giorno uno di questi mi ha scritto, e fidati che un giorno vorrei scriverci sopra un pamphlet: «Tu dovresti avere più rispetto del tuo passato». Capito? C’è gente che, se potesse, mi ucciderebbe perché io non gli sminchi l’idea che loro hanno del mio passato.

Quindi secondo questi non dovresti più fare un cazzo, se non reissue.
Proprio così. Loro sarebbero stati più contenti se io avessi fatto I Messaggeri della Dopa: il revival. E pensa che uno dei più giovani di quelli con cui ho collaborato in questo nuovo album, che è Nayt, è arrivato da me e mi ha detto: «Perché lo fai?». E intanto è lunga da spiegargli che delle forze dentro di me hanno voluto fare il rap quando io magari volevo fare la samba. Ma soprattutto, io ho questo problema nella vita: non so mai cosa voglio. Arrivi ai 30 anni che tutti ti dicono che devi sapere cosa vuoi. Io allora ho sempre espresso quello che non voglio. Così, quando Nayt mi ha posto la fatidica domanda, io al telefono gli ho risposto: «Lo faccio perché non voglio fare un cazzo di revival». E lui mi ha risposto: «Bene, questo è quello che volevo sentirmi dire». E da lì siamo andati d’amore e d’accordo.

Le due copertine di ‘Canerandagio’

Prima hai parlato di Burnout, dove a una certa dici che non ci sono più le ballotte e le groupie. Lo dici con nostalgia o con sollievo?
Lo dico per dire che se tu vuoi stare al freddo, ci devi saper stare. Non è per tutti saper stare nudi esposti al freddo.

Ma è più facile passare dall’hardcore al rap o dal rap al pop da classifica?
Per me queste cose non sono mai state difficili. Perché quando ero nel furgone dei Negazione e sentivamo i Jungle Brothers e i De La Soul, e sapevo che a Bologna c’erano già gli Isola Posse che facevano altro, sentivo il richiamo di quella cosa perché aveva avuto in me vite precedenti. Io ero stato un ragazzo di 18 anni che aveva flexato su Kool & the Gang, su James Brown, quindi il funk esisteva già in me. Ed ero anche un ragazzo che a 18 anni aveva fatto un incidente in motorino e che, dopo tutto il dolore, con la faccia aperta, aveva scritto una canzone, come dire, pop. Ma poi pop cos’è? Io per pop intendo popolare.

Anche io.
Perché pop ha un’accezione ben precisa. È il sottogenere di quello che ti deve suonare familiare, dev’essere fatto di altra musica. Come diceva Umberto Eco: «I libri sono fatti di altri libri». È ovvio che lo stesso vale per la musica. Sono andato a sentire St. Vincent. Mentre ero al concerto mi dicevo: «Ok, qui Bowie, qui quest’altro». Spesso riesco a capire subito la reference del brano a cui ci si è ispirati.

A volte questa cosa si sente troppo in Italia, però.
Quando ho fatto Cambierà, all’epoca la gente diceva che c’era un pezzo degli Oasis che ha un inizio simile. Ma io non so nulla degli Oasis, a parte i singoli, che peraltro mi piacciono pure. Ma so benissimo cosa si sono sentiti gli Oasis. Come me si sono sentiti gli Stranglers, i Beatles, i Kinks, gli Stones. Io non ho mai fatto il pop. Nel 2001, sono uscito con Io e la mia signorina, un successo di pubblico ma lo sappiamo ora. Ma prima che uscisse mah. Solo Mina mi disse: «Questa è una buona canzone».

E lei lo sapeva che la canzone parla di erba?
No, ma guarda che nessuno lo sapeva. Ho cominciato a tirarlo fuori io poi.

Tu però dovresti fare meno caso a questi commenti e i social. Ti fanno solo male.
Sono un uomo del Novecento, ci metto tempo per processare le cose. M’infastidisce l’ipocrisia, ma so anche che nel 2025 non si può vivere senza. È uno degli ingredienti principali di cui ci nutriamo.

A proposito d’ingredienti: stai ancora bene con la tua “signorina”?
Sì, però ho scoperto che questi ragazzi oggi vengono avvelenati da sostanze assurde. È un mondo al contrario: tu normalmente avresti gente che vuole fumare un po’ di erba, ma il sistema cosa fa? Ti toglie l’effetto ma ti lascia la combustione. Quando invece dovresti fare l’opposto. I cannabinoidi sintetici avvelenano la gente. Se dovessi fumare solo l’erba chimica che gira adesso, non fumerei più. Preferirei decisamente un toast. Per davvero. Non mi manca l’effetto psichedelico nella mia anima. Ormai sono assolutamente infarcito. Se mi lecchi la schiena potresti andare in fattanza.

Cazzo, come un rospo!
Esatto.

Questo è un disco che parla anche molto di morte.
Questo disco ha le sue radici nel 2023, anno in cui ero parecchio morto. Io sono uno così. Se ho la percezione che qualcuno possa farmi del male, mi faccio tantissimo male da solo. Arrivo già malconcio in modo tale che nessuno possa farmi male, nessuno può avere questo potere se non io. Allo stesso modo ho visto che invecchiavo e mi sono detto: ah, tu mi vuoi fare morire? Mo’ ti faccio vedere io come si muore. Quando ho scritto pezzi come Addio (feat. Salmo, il pezzo di chiusura, ndr) nel 2024 è successo che ero a Berlino, dopo un’estate in cui mi sono trovato a fronteggiare tantissime cose che non sopportavo più.

Tipo?
Il rumore del mondo, i bambini che giocavano nel parco sotto casa, i fricchettoni ubriachi alle 3 notte. Questa piazza dove vivevo io era una piazza con un sacco di bordello. Io abitavo in una campagna vicino alla ferrovia da solo, con solo i miei pensieri che suonavano fortissimi. Un bel giorno di agosto mi sono detto: ma sì, dai, i bambini sono ok.

E gli ubriachi?
Pure. Da lì sono entrato in un loop di armonia con la vita. E prima di andare via mi sono detto: ma sì, dai, voglio farmi ancora qualche anno di campionato. Però in effetti avevo già parlato con la Numero 1 (l’etichetta discografica, ndr), c’era già un contratto, si parlava già di un disco, un concerto. Però lì in realtà è come se avessi buttato delle esche lontano sperando poi che avrei trovato anche il pescatore dall’altro capo del filo, che dovevo essere io. Ma non c’ero ancora fino a quell’agosto dell’anno scorso.

In Addio hai campionato la Messa da Requiem di Mozart. Sicuramente ha un significato.
Ancora oggi ti dico che se dovessi vivere male, preferirei morire all’istante. O vivi bene, o ti stendi oggi stesso nella bara.

Però, “dentro la cassa mettici la ganja”, come dici nel testo.
Pensa che uno mi ha scritto: «Ma questa retorica che c’è in Addio la devo leggere così oppure c’è dell’altro?». Io non ho saputo rispondere, però credo che vada letta così com’è.

Beh, d’altronde crediamo nel funk dopo la morte.
Bravissimo. A parte che voglio essere bruciato quando crepo. Non voglio essere uno di quelli che poi dicono di aver trovato i graffi all’interno della bara. Mi manca solo quello, guarda, col culo che c’ho. Voglio essere sicuro di essere bruciato, fatto a pezzettini e anche un po’ origamato.

E del presente musicale cosa pensa il Canerandagio? Sei sempre stato anche un cane da fiuto per quanto riguarda l’aria che tira.
C’è stato molto trap in Italia negli ultimi cinque anni. A me personalmente piace. La cosa più difficile per me è stata non mettermi nella condizione di dover fare le basi di rap trappoide. Ma di fare lo swing marxista. Però in realtà amo molto il rap trappoide. Mi piace sentire la 808. Infatti, se noti, ho messo più le frequenze estetiche nella Parte 2. L’altro è un disco più intransigente dal punto di vista sonoro.

È incredibile come tu nella vita riesci a switchare tra una visione e magari il suo opposto in un giorno. Però i tuoi dischi non sono bianco o nero. Sono ricchi di sfumature potenzialmente infinite.
Se Canerandagio mi fa cadere i lacrimoni e invece tu vieni qui a dirmi che fa cagare e che sono un vecchio bollito, io non ti credo. Io ho un solo criterio su cui basarmi: la purezza del mio cuore. Nel senso che non sarei mai capace di usare la musica per scopi che non sono la mia espressione. Quando fiutavo che un progetto in cui ero coinvolto mi avrebbe corrotto lo mollavo. Sono uscito dai Negazione per questo. Sono uscito dal rap per questo. La gente invece mi ha sempre accusato di essere corrotto, senza capire che ho sempre agito nell’estremo sacrificio del mio non essere corruttibile.

Non si può neanche dire che sia un disco di rimpianti. Semmai, un po’ nostalgico, ma con dignità estrema nell’esserlo.
Assolutamente. Non mi sentirai mai dire «Eh, ai tempi miei…». Soltanto per l’erba l’ho detto. È l’unico caso. Perché ai tempi miei l’erba era meglio. Nessuna calabrese o napoletana dell’85 poteva farti venire delle brutte vibre così. Impossibile. Ti veniva da ridere e voglia di mangiarti un bombolone alla crema.

Visto che hai definito la tua musica swing marxista, ti faccio un’ultima domanda prendendola in prestito da Lenin: che fare?
Ecco, vedi, comincia a pensare a quello che non devi fare. Per esempio, non rompere il cazzo ai bambini. E poi partiamo da là.

Esatto, evitare un genocidio sarebbe un buon inizio.
Sono solo in grado di dirti cosa non fare. Le guerre. Come fai a giustificare che grandi nazioni hanno bisogno di destinare un terzo del loro budget all’industria delle armi? Hai bisogno che ci siano situazioni purulente. E poi quando qualcuno manifesta pacificamente, come i pro-Palestina, vorrei ricordare che ci sono da sempre gli infiltrati che fanno casino per screditare la protesta. Mi sembra incredibile che nel 2025 con tutta questa interconnessione di popoli ci siano ancora le guerre. Perché una volta la guerra si faceva tipo: «Ah, ha detto Ferdinando di Savona che tua moglie c’ha la barba!». «Ah, sì? Mo’ vengo lì con 400 lanzichenecchi, m’hai rotto il cazzo!» (risate). Si faceva la guerra con un minimo di principio.

Hai mai pensato di fare stand-up comedy?
Non sei il primo che me lo dice. Me lo chiedono tutti. Quando mi danno i soldi lo faccio.

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