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Lo Stato Sociale: 50% impegno, 50% cazzeggio

Hanno trionfato a Sanremo con una canzone leggera solo in apparenza. E adesso la band vuole continuare la sua missione.
Lo Stato Sociale. Da sinistra in senso orario: Lodo, Carota, Bebo, Checco, Albi. Foto Federica Lazza - Style Francesca Piovano - Abiti CC Collection Corneliani

Foto: Federica Lazza

Lo scorso 10 febbraio, per la prima volta nella mia vita, il televoto mi ha avuto. Un mio amico mi aveva assicurato che un’eventuale vittoria dello Stato Sociale al Festival di Sanremo avrebbe dissolto per sempre il capitalismo, e io ci avevo creduto. Come ogni volta che la democrazia fa il suo corso, ho perso. Quando racconto l’episodio ai ragazzi della band al gran completo, a loro pare la cosa più naturale del mondo. «Abbiamo aperto una breccia, da lì a schiantare il sistema ce ne passa. Siamo in cinque, mica 500mila», esordisce Bebo.

«Il primo posto sarebbe stata una vittoria del capitalismo: non potevamo consegnarci alla piena accettazione da parte di quel mondo», aggiunge Lodo. «E poi, come spiega Albi che ha fatto le scuole giuste, il capitalismo tende a sussumere». «Ma si vinceva solo la statuetta? Sicuramente l’avremmo persa, o portata al “Compro oro”», esordisce Carota. Attorno al tavolone di uno studio fotografico di via Stalingrado, a Bologna, resistono un certo linguaggio e una certa idea di musica e impegno.

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«Una vita in vacanza ha dimostrato che esistono proposte culturali trasversali tra il mondo indipendente e quello generalista», continua Bebo. Tra i cinque vale la regola del pistolero, «chi ce l’ha più in canna, risponde alla domanda», e ora è un botta e risposta tra lui e Lodo Guenzi, prima voce della hit arrivata seconda all’Ariston. «Le canzoni sono un buon cavallo di Troia, soprattutto quando fanno muovere il culo. Se ci affacciamo all’universo mainstream, possiamo farne emergere le contraddizioni». «Io la vedo in maniera più radicale», ribatte il compagno, il più ortodosso dei cinque. «Il modello dello Stato Sociale è antagonista, e cerca di rubare risorse al sistema». Prende la parola Checco, l’unico dei cinque che non è nato a Bologna, eppure quello che tradisce l’accento emiliano più marcato: «Per me era importante far succedere qualcosa in un contenitore con una grammatica ben definita: imporre le nostre regole. Fare vedere, con le nostre facce da culo, che è possibile, anche solo per pochi minuti, inserire un piccolo bug nel sistema». «Senza essere degli uligani, senza tirare fuori il cazzo o cagare sul palco, che voleva dire chiamarsi fuori. Ma trovando il modo di piacere alla signora di 60 anni come al bimbo», completa Lodo.

L’IMPORTANZA DEL COLLETTIVO
La cosa che mi aveva colpito sin dai primi frame della loro scapigliata esibizione in Riviera è stata la sensazione di genuinità che restituivano su quel palco sacrale. Non li avevo
mai incontrati prima, eppure era come se dei miei amici stessero facendo saltare in piedi il pubblico di Sanremo. «Nemmeno pensavamo avessero le gambe, al più dei cingoli», scherza Albi. Per una volta il filtro della messinscena e della diretta tv non risultava efficace, davanti ai loro look senza sofisticazioni e alle loro espressioni da quarta C in gita. «Sarà che per il trucco impiegavamo un quinto degli altri», interviene Carota.

«Ci siamo detti: “Andiamo lì a fare il cazzo che ci pare”», prosegue Checco. Ancora una volta è Lodo a sistemare gli schizzi sulla tavolozza in un ragionamento più compiuto. «È la sfida che ci siamo posti sin dal primo live in un baretto. Il palco non esiste: tu che guardi sei con me, che io stia suonando da Dio oppure che sia ubriaco marcio e non si capisca una parola. Durante la finale Checco è scoppiato a ridere prima di cantare, incrociando lo sguardo del maestro: per me è stato un inno alla vita. Vuole dire che, anche di fronte a un monolite che macina tutto, c’è gente che vuole divertirsi». Ma nemmeno un po’ di paura? Qualche pit stop nei bagni in camerino? «Quello sì. E un senso di malessere costante», svela Bebo. «Essere in cinque, amici da una vita, ci ha aiutato. Da solo mi sarei cagato addosso», spiega Carota. Sarà per questo, e anche per la loro “formazione” movimentista e gli anni passati nei centri sociali bolognesi, che tengono così tanto al concetto di collettivo, firmando assieme tutti i pezzi e alternando ruoli e responsabilità. «La band è il nostro parco giochi. Se uno decide di indossare un vestito più sgargiante, gli altri non esitano a tirarlo giù dal piedistallo; se uno molla un attimo, gli altri lo portano a galla. Serve più ascolto e i processi decisionali si allungano, ma la soddisfazione è più grande».

Una vita in vacanza non è solo un singolo di successo, ma un autentico caso discografico, e oggi il video ha superato 20 milioni di visualizzazioni su YouTube. «È un fenomeno interessante da osservare. Come un sonar, che, una volta lanciato, ti restituisce la forma di una stanza». Tutto questo con un testo che non è scanzonato per nulla, e che rimanda a echi lontani: basta scostare il velo delle sonorità elettropop e della scrittura brillante e affiorano le rivendicazioni del 1977 e i riferimenti a canzoni di lotta come Lavorare con lentezza, iconizzata nell’omonimo film di Guido Chiesa ambientato, guarda caso, a Bologna. «In un sistema che ti dice di produrre, vendere e consumare, l’opposizione è stabilire i propri ritmi e fare a modo tuo», dice Checco. Chissà se la gente che ha compulsato YouTube ha capito cosa ci sta dietro al brano. «Forse un 15% di chi ci ha ascoltato, che comunque non sono pochi. Se gli altri vogliono solo ballare, perché gli piace il ritmo, be’, non è mica una brutta cosa», aggiunge Lodo. Ecco un nuovo uno-due con Bebo. «Il messaggio è complesso, e io per primo nel tempo libero non ho voglia di rotture di coglioni. Non cerchiamo comprensione immediata, ma di instaurare un dialogo: poi da cosa nasce cosa». «Questo non è il luogo di una cattedra, ma di uno specchio. Non insegniamo nulla e non c’è nulla da imparare. Ti stiamo dicendo: “A volte ci troviamo a correre come pazzi e bruciare la nostra vita per inseguire cose che nemmeno sappiamo se sono ciò che vogliamo. Noi siamo messi così, e tu?”».

Per i cinque parlare di politica è qualcosa di inevitabile, soprattutto a un mese da elezioni che hanno restituito la fotografia di un Paese incazzato e diviso. «Eppure a me l’esercizio democratico piace sempre», dice Bebo. «Da noi lo sport nazionale è dire agli artisti che non si devono occupare di politica, poi ci si lamenta dell’abbandono della cosa pubblica. In questo momento durissimo c’è stato un sollevamento ridicolo da parte del mondo della cultura, il 99% di chi ne fa parte se ne fotte». Non loro, che sono saliti sul palco di Sanremo con i nomi degli operai licenziati dalla Fiat a Pomigliano e nei loro testi nominano Marx e parlano di migranti e precariato. Che suonano agli eventi per gli zapatisti del Chiapas e pubblicano con l’etichetta indipendente Garrincha. «Dopo il concerto ad Assago ci hanno scritto padre e figlio, che si lamentavano perché avevamo preso in giro Salvini dal palco», ricorda Albi. E se un loro fan condividesse un meme del duce su Facebook, che gli direbbero? «Mi spiace che tu sia così stronzo», spara Lodo. «Scopri il mondo, parla con gli altri, vieni ai concerti».

RABBIA GODERECCIA
Allo stesso tempo uno dei segreti dello Stato Sociale è l’attitudine al cazzeggio, anche quando affrontano tematiche complesse. «Veniamo da una zona che all’impegno affianca un approccio godereccio alla vita. Non significa che non abbiamo rabbia, ma la esprimiamo con una risata», dice Albi. È un insegnamento del concittadino Freak Antoni, omaggiato sul palco di Sanremo assieme a Paolo Rossi. «Ci ha fatto capire che non si tratta solo di suonare, ma di fare succedere delle cose sul palco. Magari non cucineremo la pasta come lui, ma la mentalità è quella». «Lui era un regaz», dice Checco. Altri miti? «Benoît Mandelbrot, un matematico che si è sempre fatto i cazzi suoi e ha tirato fuori uno stile di vita dalle sue teorie sull’armonizzazione degli errori». «E Damon Albarn», aggiunge Carota.

Foto: Federica Lazza – Style Francesca Piovano – Abiti CC Collection Corneliani

OCCUPARE PER LIBERARE
Per loro stessa ammissione «essere cresciuti a Bologna» è stato fondamentale nel loro percorso di crescita. Una città viva e coraggiosa, da cui sono sbocciate diverse nouvelle vague sonore e politiche. «È un crocevia di genti grazie all’università, il nostro cuore pulsante», spiega Albi. «Un posto che gode di un clima disteso per quanto riguarda le libertà individuali, anche se negli ultimi anni le amministrazioni le hanno minate con divieti assurdi». «Ho vissuto quattro anni in case occupate, gli sgomberi sono un tema che mi tocca personalmente», dice Carota.

Occupare gli spazi per liberarli, d’altra parte, è il mandato che la band si è dato sin dalla sua fondazione. «Il nome Stato Sociale è saltato fuori al nostro secondo concerto. Era il 2009 e, con la crisi alle porte, tutti i giornali parlavano di mancanza di tutele lavorative. Ci siamo detti: “allora facciamolo noi, lo stato sociale”. Quello spazio in Italia continua a non essere presidiato, e noi continuiamo a occuparlo». La coerenza per loro è una dote fondamentale. «Per tenere fede al nostro nome stiamo risolvendo un grave problema di disoccupazione tra i nostri amici, che coinvolgiamo nel progetto in varie forme. Siamo in tanti, di guadagnare non se ne parla», racconta Checco. Nemmeno dopo il boom sanremese, insomma, sono arrivati i soldi veri. «Io sono andato in vacanza a Fuerteventura una settimana», dice Carota. Con Ryanair, fuori stagione. «Ma ho mangiato tre sere di fila degli ottimi gamberi all’aglio nello stesso posto». «Io ho preso una giacca nuova all’outlet e ho riparato la bici per 6 euro e 50», è il commento di Albi. Conclude Checco: «Io il martedì dopo il Festival ero di nuovo in ufficio. Tutti mi dicevano “bella vez, ci sei mancato”, poi mi facevano vedere la roba che era rimasta indietro. Ah, e mi sono comprato un aspirapolvere».

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