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L’Italian job di Dave Stewart

Il fondatore degli Eurythmics racconta il progetto tra musica e cinema ‘Who to Love’ con i Mokadelic e Greta Scarano e il concerto che terrà in Italia per i 40 anni di ‘Sweet Dreams’

Foto: Helena Christensen

«Ho lavorato con tante cantanti: Sinéad O’Connor, Stevie Nicks, ovviamente Annie. Le loro storie si mescolano in quella di Adalyn», ci dice Dave Stewart a proposito di Who to Love, il cortometraggio presentato ieri sera alla Festa del Cinema di Roma. Scritto dal fondatore degli Eurythmics e diretto da Giorgio Testi, il breve film è interpretato da Greta Scarano e può contare su una colonna sonora che di fatto è il nuovo album di Stewart, realizzato assieme ai Mokadelic e Scarano come Time Experience Project. Intitolato anch’esso Who to Love, esce oggi in vinile e sulle principali piattaforme.

Sguardo sornione, Borsalino sempre in testa, dita tatuate una per una, aspetto decisamente in forma per uno che ha da poco compiuto i 71 anni, l’ex compagno di avventura di Annie Lennox ci racconta la genesi del suo Italian job. «Ero su una piccola isola dei Caraibi. Quando stavo in casa, tra le varie cose che ho guardato in tv mi sono fatto particolarmente prendere dalla serie di Gomorra. La colonna sonora mi è sembrata particolare, strana. Mi è piaciuta molto, in un certo senso mi ha ricordato il Bowie berlinese: c’erano dentro tante cose che amo. Ho deciso quindi di contattare i Mokadelic e ho chiesto loro se avevano della musica a cui stavano lavorando e che non avevano ancora pubblicato. Mi sono fatto mandare un pezzo e ho fatto un po’ di cut up: la loro musica non deve per forza essere strutturata. Poi ci ho scritto sopra Time Is a Masterpiece, la canzone che apre il nuovo album. Gli ho spiegato che mi era venuta l’idea di fare della musica che potesse essere mescolata alla recitazione in un lavoro il cui tema era il tempo».

«Lo spunto è stato il periodo del Covid, in cui tutti noi siamo stati un po’ confusi riguardo allo scorrere del tempo. La protagonista unica è una cantante che sul palco sperimenta un flashback dissociativo. Maurizio Mazzenga è quello dei Mokadelic che sa bene l’inglese, e mi ha detto che parlando con gli altri della band era venuto fuori il nome di Greta Scarano, che era molto brava a improvvisare. Luca Novelli invece ha suggerito che il regista fosse Giorgio Testi, secondo lui adatto a dirigere un lavoro dove c’era sì una parte rilevante di scrittura ma anche tanta improvvisazione. A quel punto ho iniziato a lavorare sul serio alle canzoni, mandavo loro di volta in volta dei pezzi e loro me li mandavano indietro con i loro interventi. Poi, quando ci siamo incontrati a Roma, io avevo già scritto otto canzoni e una sinossi del film. Non avevo mai incontrato né la band né Greta Scarano, anche se avevamo alle spalle ore e ore di messaggi WhatsApp».

A Roma non ha preso soltanto forma Who to Love, il cortometraggio e l’album, ma anche un collettivo che, a quanto pare, darà vita a nuovi progetti. «Ci siamo trovati ai vecchi studi Marconi», racconta ancora Stewart, «e siamo partiti con una jam con tutti i loro strani strumenti. Quando è arrivata Greta abbiamo parlato tutti insieme per un paio d’ore. Cos’era che volevamo fare? Cosa sarebbe venuto fuori dal nostro incontro? Greta ha detto che non sapeva cosa avremmo fatto, ma che lo voleva fare. Siamo andati a Cinecittà e abbiamo realizzato tutto in due giorni. Anche dal punto di vista personale le cose tra noi hanno funzionato bene, tanto che abbiamo deciso di dare vita al Time Experience Project, un gruppo creativo di persone interessate a partecipare alla realizzazione di sperimentazioni cinematografiche, teatrali, musicali».

«Ho già scritto il soggetto per un nuovo film che vogliamo realizzare, sempre con Greta Scarano, che sarà molto più narrativo. Sarà la storia di un’attrice italiana molto famosa che soffre di disturbi psichici, cosa che la sua famiglia non ci tiene si sappia. Al Festival del Cinema di Venezia conosce un giovane produttore americano che, dopo essersi reso conto di quanto è famosa in Italia, la vuole portare negli Stati Uniti per produrre il suo prossimo film. Il che si rivela una pessima idea, anche perché lui non si è reso conto di quanto lei sia instabile, e intanto il suo manager vorrebbe che tornasse in Italia… Tra l’altro il personaggio di questo manager è basato su un tizio che ho conosciuto in America, veramente un tipo poco raccomandabile. Ed è meglio che non dica chi è, dato che è ancora vivo».

La carriera di Dave Stewart, soprattutto in tempi recenti, è stata spesso caratterizzata da progetti non strettamente legati alla canonica routine rock’n’roll che prevede la registrazione del disco, il tour e poi di nuovo lo studio di registrazione. Solo per restare agli ultimi mesi, oltre a Who to Love c’è stato anche The Time Traveler’s Wife, musical attualmente in scena a Londra e scritto assieme a Joss Stone, tratto dal romanzo La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo della scrittrice statunitense Audrey Niffenegger.

«Quando si invecchia si fa una considerazione», riflette Stewart. «Il tempo che resta non è molto. Ricordo che quando ho lavorato alla colonna sonora di La fortuna di Cookie di Robert Altman (1999) lui aveva 74 anni, tre più di me adesso, e mi disse che probabilmente gli rimaneva il tempo per fare altri due film, ed era difficile scegliere quali fare, perché aveva idee per altri cinque film. Lui poi in realtà è riuscito a farne altri quattro, ma è un pensiero che faccio anch’io. Lavori collettivi come Who to Love sono una buona soluzione per me perché non devo occuparmi io di tutto».

«L’industria musicale è andata a rotoli, cosa che con l’avvento di internet avevo immaginato. Oggi con Spotify escono migliaia di nuove canzoni al giorno, e tutto si trova dappertutto. Agli artisti viene chiesto di essere presenti sui social media e di ballare su Tik Tok. Quando ho iniziato io, in una settimana uscivano un paio di album che meritavano di essere ascoltati, c’era un negozio di dischi e ci si metteva in fila per comprarli. Quello che mi interessa fare ora sono cose che non nascono per essere messe su Spotify, cose che per esistere hanno bisogno di altri mondi. Ti ricordi quella pubblicità, “Intel Inside”? Io voglio “Music Inside”, voglio mettere la musica all’interno di altre cose, non la voglio lanciare contro il muro per vedere se ci resta appiccicata. Voglio mettere il contenuto in un contesto».

Foto: Giuseppe Maffia

Stewart ci racconta di avere già scritto cinque sceneggiature, una delle quali racconta uno dei momenti decisivi della sua vita: quello in cui ha scoperto la musica. «Prima mi interessava solo il calcio, ma a 14 anni mi sono rotto il ginocchio in più punti, e nello stesso periodo mia madre se ne è andata di casa senza dare notizie di sé. Sono riuscito a rintracciarla solo dopo sei anni. Intanto vivevo con mio padre, che comprensibilmente era depresso. Un giorno il postino mi recapita un pacco davanti alla porta. Arrivava da mio cugino, che era un bel po’ più grande di me. Si era trasferito a Memphis, e già i francobolli americani sulla scatola erano qualcosa di speciale. Dentro c’erano due paia di pantaloni di velluto a coste ma soprattutto c’erano due album: uno di Robert Johnson e l’altro di Mississippi John Hurt. La musica fin lì non mi era mai interessata, mi piaceva solo il calcio. Ma dato che dovevo stare in casa con il mio ginocchio rotto li ho messi sul giradischi di mio padre. Ho iniziato con Robert Johnson e non avevo nemmeno capito che quella fosse musica, era tutto così strano. Mi ha mandato in una specie di trance, e alla fine del disco mi sono detto: che cazzo era quella roba?!? Ho capito improvvisamente quanta forza ci fosse là dentro. Questo è uno dei film che farò, basato su una storia vera, la mia».

Prima però, ci sarà un altro impegno e ci sarà nuovamente l’Italia. Il 24 novembre Dave Stewart sarà al Teatro Dal Verme di Milano per l’unico concerto nel nostro paese del tour celebrativo del quarantennale di Sweet Dreams. «Sarà come la retrospettiva di un artista. Abbiamo puntato molto sui visual,» anticipa. «Ci sarà un lungo schermo, e il look and feel sarà quello di uno spettacolo, non si vedrà semplicemente un gruppo che suona. La band sarà tutta al femminile, Annie non ci sarà ma la rappresentazione dell’elemento femminile sarà affidata a queste musiciste».

Stewart non lo dice, ma una delle voci del live sarà quella della ventitreenne figlia Kaya, nata all’indomani di Peace (1999), l’ultimo album del duo, e tenuta a battesimo da Annie Lennox. «Per preparare questo tour», racconta, «sono andato a riascoltarmi tutti i nostri dischi in ordine di uscita e mi sono accorto che siamo stati molto fortunati perché il pubblico ha seguito tutti i nostri cambiamenti, come è avvenuto per David Bowie. Noi siamo passati per la Stax, il soul, l’r’n’b, il gospel, ma avevamo iniziato come un duo synth. Se ascolti Sweet Dreams, però, c’è anche la mia slide guitar in This City Never Sleeps. Penso che sarebbe riduttivo considerarlo un album di musica elettronica, anche se l’abbiamo fatto con sintetizzatori e batterie elettroniche».

Ancora oggi la title-track è un inno, anche per i ventenni che la ballano in discoteca senza aver assistito neanche lontanamente al manifestarsi di quello specialissimo e unico mix chiamato Eurythmics. «Con noi 1 + 1 faceva sempre 3. Tutto quello che voleva fare Annie era diverso da quello che volevo fare io, quindi andavamo d’accordo. Solo una volta abbiamo litigato. È successo per una di quelle tastiere giocattolo della Casio. Eravamo a New York, all’Hotel Mayflower, su Central Park. Io l’avevo appena comprata e la stavo usando per quella che sarebbe diventata Here Comes rhe Rain Again. Solo che Annie voleva suonarla lei, aveva buttato giù un testo che non la convinceva e non voleva che ci lavorassi. Per fortuna le ho fatto cambiare idea, e mezz’ora dopo la canzone era pronta».

Lennox e Stewart erano il braccio e la mente. «Sul palco Annie era una tigre appena uscita dalla gabbia», sorride l’ex compagno. «Io ero più il direttore d’orchestra, quello che pensava a tirare dentro i musicisti giusti per i nostri dischi, mi riferisco a casi eclatanti come l’armonica di Stevie Wonder in There Must Be an Angel, ma anche a quando ho coinvolto Clem Burke dei Blondie per Revenge e per il successivo tour. Eravamo amici e vivevamo insieme a New York, in un loft a Gramercy Park. I Blondie erano in pausa, e così ne ho approfittato per chiedergli se voleva essere il nostro batterista».

«Io e Annie insieme eravamo veramente forti, e poi non abbiamo mai fatto un demo, perché quando ci mettevamo a registrare le canzoni uscivano fuori già pronte, buona la prima. Infatti, quando ci dicono che magari sarebbe una bella idea pubblicare delle nuove edizioni dei nostri album con l’aggiunta dei brani in versione demo, la risposta è sempre la stessa: “Demo? Quali demo?!”».

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