L’intervista più approfondita e rivelatrice mai rilasciata da Mick Jagger | Rolling Stone Italia
Mick at 80

L’intervista più approfondita e rivelatrice mai rilasciata da Mick Jagger

Negli anni ’90 la rockstar ha ripercorso col fondatore di Rolling Stone tre decenni e mezzo di grandi dischi e grandi casini, fra aspre rivalità e legami indissolubili. Per gli 80 anni di Mick, riecco quella lunga intervista. Preparatevi a opinioni forti su tutto e tutti

Jagger a Londra nel 1977. Foto: Gijsbert Hanekroot/Redferns

Farsi intervistare è l’ultima delle priorità di Mick Jagger, ma è una necessità che da sempre ne accompagna la carriera. La tipica conversazione con un giornalista dura una ventina di minuti. La sua vita è stata sotto i riflettori per così tanto tempo che non vede la necessità di spiegarsi o giustificarsi e ha tutto da guadagnare nel mantenere quel po’ di privacy e mistero che gli restano.

Tuttavia, dopo 25 anni di amicizia professionale e personale, durante i quali Mick e io abbiamo spesso discusso le questioni private della sua vita e dei Rolling Stones, gli ho proposto di fare una lunga intervista. Ha accettato e abbiamo proceduto basandoci sulla fiducia reciproca e sulla nostra familiarità.

L’intervista è stata realizzata in tranche di tre-quattro ore tra Palm Beach in Florida, Montreal in Canada e Colonia in Germania. Abbiamo iniziato nel novembre del 1994 e abbiamo finito nell’ottobre del 1995 con una telefonata da New York a Londra. In mezzo c’è stato il Voodoo Lounge Tour, in un periodo in cui Jagger e gli Stones avevano raggiunto un nuovo livello di sicurezza e maturità, oltre che di status nel mondo del rock’n’roll. Intorno alla band c’era un’atmosfera di incredibile affinità reciproca, di confidenza e tranquillità, come succede a chi sa di aver raggiunto il massimo livello in quello che fa.

Credo che anche Mick la sentisse e che per questo abbia accettato di fare l’intervista, sapendo bene che a me interessava parlare del passato. Sapeva che era il momento giusto per farlo. E poi il tour era molto lungo e non gli dispiaceva la compagnia di un vecchio amico. È l’intervista più approfondita che Jagger abbia mai concesso. Non è una persona facile da intervistare, non solo perché è riservato di natura e non ha interesse verso il passato, ma anche perché comunica oltre che a parole pure con il suo elastico linguaggio del corpo, il sorriso e le espressioni del volto. Metà di quello che dice non si può mettere in pagina. Abbiamo affrontato l’intervista come una collaborazione e nonostante la sua riluttanza credo si sia divertito a ricordare il passato e a dire la sua.

Quando ti sei reso conto per la prima volta che quello che facevi aveva un effetto sulle persone?
Quando avevo 18 anni o giù di lì. Suonavamo con i Rolling Stones nei club di Londra e io mi sono reso conto di attirare l’attenzione delle ragazze, cosa che prima non succedeva. Ero inesperto e poco sofisticato. A quell’età ti colpisce tutto.

Frequentavi la London School of Economics e stavi cominciando a suonare con gli Stones. Come hai fatto a scegliere tra le due cose?
Le ho fatte tutte e due in realtà. Durante la settimana andavo al college, nel weekend suonavo con gli Stones. Avevamo poche date. Facevamo un concerto al mese, in cui suonavamo tre o quattro pezzi al massimo. Non era poi così difficile.

Eri combattuto all’idea di lasciare la scuola?
È stata una decisione difficile, mio padre era furioso. Non credo si sarebbe arrabbiato così tanto se mi fossi arruolato volontario nell’esercito. Qualunque cosa, tranne quello. Sono d’accordo con lui: non era certo una carriera promettente. Era una decisione assolutamente stupida, ma non mi piaceva il college. I corsi erano noiosi.

Hai cominciato a cantare quando avevi 15 anni. Cosa ti ha fatto venire voglia di salire sul palco?
Non avevo inibizioni. Vedevo Elvis e Gene Vincent e dicevo: posso farlo anch’io. Mi piaceva. Era emozionante fare lo scemo, anche davanti a 20 persone. Se mi avessero tirato dei pomodori non avrei continuato. Ma piacevo a tutti.

Nella Swingin’ London degli anni ’60 sei diventato l’aristocratico pop.
C’è voluto un po’ prima di arrivare a quello. Il primo periodo è stato esaltante: gli abiti, le cravatte, l’innocenza e l’ingenuità di tutta quella scena. L’Inghilterra era pronta per una nuova band. Divertente, perché i Beatles erano in giro solo da un anno. Succedeva tutto molto in fretta. Le band del momento venivano tutte dal Nord dell’Inghilterra. La gente in Inghilterra è snob, volevano una band del Sud. E siamo arrivati noi.

Foto: John Hoppy Hopkins/Redferns

Ho ascoltato i vostri primissimi album recentemente, e sono tutti piuttosto simili. Il primo che ha qualcosa di diverso è Out of Our Heads.
Cosa c’è dentro? (Ride) Mi dispiace, non me lo ricordo.

Pezzi tipo Cry to Me, The Under Assistant West Coast Promotion Man, Play with Fire.
Play with Fire è fantastica, almeno mi ricordo che lo era quando l’ho ascoltata. Un suono molto diretto, che ti arriva dritto in faccia.

La prima canzone in cui parlate in modo diretto delle classi sociali in Inghilterra.
Nessuno lo aveva mai fatto prima. I Beatles lo facevano in parte. Io non mi rendevo neanche conto di farlo. Fino ad allora i testi si scrivevano seguendo un clichè o prendendo spunto da altri, da idee o dischi precedenti. “Voglio stringerti le mani” e cose del genere. L’unico veramente bravo a scrivere era Bob Dylan. Tutti guardavano a lui come a una specie di guru dei testi. La musica pop era veramente spazzatura al tempo, anche se alzavi il livello un po’ era comunque molto diversa.

Poi avete pubblicato December’s Children. In quel disco c’era Get Off of My Cloud che decisamente non era una canzone d’amore…
Sì, era una canzone da alienazione post-adolescenziale, tipo: smettetela di rompere. Il mondo degli adulti negli anni ’60 era una società molto rigida e io ne stavo uscendo. L’America era anche peggio. La trovavo molto restrittiva nel modo di pensare, nei comportamenti e nel modo di vestire.

È un giudizio basato sul vostro tour negli Stati Uniti del ’64?
Sì. Nel ’64 e nel ’65. New York era meravigliosa e anche Los Angeles era interessante, ma fuori da queste città abbiamo trovato una società molto repressiva. C’era ancora la segregazione razziale e in generale era tutto molto all’antica. L’America mi ha scioccato per la sua ristrettezza mentale.

As Tears Go By è stata la vostra prima ballata classica. L’hai scritta a 21 anni, cosa ne pensi adesso?
Una canzone molto malinconica per essere stata scritta da un 21enne. È molto sciocca e ingenua, ma anche molto triste. È una metafora della vecchiaia: guardi i bambini che giocano e realizzi il fatto che non sei più un bambino. Non volevamo farla all’inizio, perché noi eravamo un gruppo blues molto macho. Ma la versione di Marianne Faithfull era già diventata una hit.

Perché l’avete rifatta?
Perché era una hit (ride). Andrew Loog Oldham aveva una mentalità molto commerciale.

Eri sorpreso di aver scritto una cosa del genere a 21 anni?
È una delle prime cose che ho scritto in assoluto. La scrittura ha a che vedere con l’esperienza: più ne hai meglio scrivi. Ma devi formarla, devi lasciar correre la tua immaginazione. Devi provare e ricamarci sopra. In quel periodo leggevo Pushkin, che scriveva storie autobiografiche. Non totalmente, perché lui non è mai stato in Siberia. Ci sono stati i suoi amici, e lui ha usato le loro esperienze.

Poi c’è stato Aftermath. Ha un significato importante per te?
È stato un punto di arrivo. Il primo disco interamente scritto da noi, ci siamo liberati dal fantasma di essere una band che faceva cover molto belle e interessanti, ma che comunque erano delle cover di vecchi pezzi R&B.

Perché Under My Thumb ha funzionato così bene?
Perché c’è Brian che suona le marimbas. Quel riff fa tutto. E poi per il fatto che le femministe ci si sono scagliate contro.

Ingiustamente, secondo te?
Era uno scherzo. Quel pezzo non è più antifemminista di altre canzoni.

Sullo stesso album c’è anche Stupid Girl.
Esatto. Molto più cattiva di Under My Thumb.

Che succedeva nella tua vita quando le hai scritte?
Ovviamente avevo qualche problema. La mia relazione non funzionava. O forse avevo troppe relazioni sbagliate. Avevo un sacco di fidanzate, e a nessuna sembrava importare che io non fossi soddisfatto.

Poi avete fatto Between the Buttons. È stato un disco importante?
No. Però dentro C’è Ruby Tuesday, vero? Quella è una bella canzone. Bella melodia, testo carino. Le altre no.

Il passo successivo è stato Their Satanic Majesties Request. Che cosa è successo?
Probabilmente ho iniziato a drogarmi troppo. Ci sono due pezzi buoni: She’s a Rainbow e 2000 Light Years From Home. Il resto sono stupidaggini.

L’ho ascoltato recentemente e ho pensato che sembra un disco degli Spinal Tap.
Sì, lo so.

Volevate essere i Beatles?
Stavamo solo prendendo troppi acidi. Ci siamo fatti prendere, pensavamo che qualsiasi cosa avessimo fatto sarebbe stata divertente e tutti l’avrebbero ascoltata. L’abbiamo fatto anche per fare incazzare Andrew.

Come lo consideravi quando è uscito?
Come una fase. Una moda passeggera.

Foto: Michael Ochs Archives/Getty Images

Subito dopo avete fatto Jumpin’ Jack Flash. Di cosa parla?
Di attraversare un momento difficile e provare a uscirne. Una metafora per lasciarci alle spalle il periodo degli acidi.

Ce l’avete fatta, ed è cominciata la vostra epoca d’oro. Cominciamo da Beggars Banquet. Che succedeva nella vostra vita?
Oh Dio, cosa facevo? Con chi vivevo? L’abbiamo registrato a Londra, io vivevo in un appartamento in affitto a Chester Square con Marianne Faithfull. O no? Sì, vivevamo ancora insieme. Scrivevo e leggevo molto, mi stavo facendo una cultura. Leggevo raccolte di poesie, libri di filosofia. Ero molto impegnato. Non prendevo più così tante droghe da incasinare il mio processo creativo.

Parlami di Sympathy for the Devil
Potrei sbagliarmi, ma credo di essermi ispirato a una vecchia idea di Baudelaire. L’ho scritta come se fosse una canzone di Bob Dylan. Sapevo che era una buona canzone, la cantavo in continuazione finché la mia cazzo di band non si è decisa a registrarla.

Ha un inizio molto forte, poi entra questo personaggio importante nella storia del mondo. Cos’altro la rende così potente?
Ha un groove ipnotico, è una samba, è una ottima musica da ballo. Il ritmo samba ha un che di primitivo, che ai bianchi suona in modo sinistro. Se l’avessimo fatta come una ballad non sarebbe stata così buona.

Dopo Altamont avete cercato di evitarla?
Sì probabilmente un po’. C’erano altre cose oltre Altamont.

La magia nera?
Sì. Non è quello che volevo dire. Non volevo parlare di magia nera e altre cose stupide senza senso, era una cosa diversa. Non era i Megadeth o tutto quello che è arrivato dopo.

Come vi siete sentiti dopo Altamont?
Male. Ti senti responsabile. Ma non ho fatto le riflessioni così profonde che avete fatto voi della stampa: la perdita dell’innocenza, la fine catartica di un’epoca… Non mi ha pesato tanto quello. Pensavo solo a quanto fosse orribile che una persona fosse stata uccisa, al dolore della sua famiglia e al comportamento terribile degli Hell’s Angels.

Altamont vi ha fatto smettere di giocare con l’immagine satanica?
L’immagine satanica è stata un’esagerazione dei giornalisti. Noi non volevamo seguire quella strada. Con quella canzone abbiamo detto basta. Nessuno vuole costruire la propria carriera intorno a quello. Qualcuno lo ha fatto, Jimmy Page per esempio.

In Beggars Banquet c’è anche Street Fighting Man. Perché quella canzone è così importante ancora oggi?
Non so se sia così. Non mi piace molto quella canzone. Era buona in quel momento, c’era molta violenza. Voglio dire, in Francia hanno quasi rovesciato il governo. In confronto, la situazione a Londra era molto tranquilla. Non c’è anche No Expectations su quel disco?

Sì, con quella splendida parte di steel guitar.
Quello è Brian. Eravamo seduti in cerchio, registravamo con i microfoni aperti. È stata l’ultima volta che ho visto Brian coinvolto in qualcosa che valeva veramente la pena. Aveva perso interesse in tutto.

Let It Bleed? Uno dei dischi più cupi che avete fatto.
Era un periodo duro, molto violento. Il Vietnam. In televisione c’erano sempre immagini di violenza, saccheggi e rivolte. La guerra in Vietnam non è stata come la Seconda guerra mondiale o la Guerra di Corea o la Guerra del Golfo, era una guerra terribile e alla gente non piaceva.

Invece Gimme Shelter?
Una canzone per la fine del mondo. L’apocalisse. Tutto il disco è così.

E poi You Can’t Always Get What You Want?
Una bella canzone, anche se me lo dico da solo.

Com’è il tuo rapporto con Keith? Ti dà fastidio avere qualcuno con cui condividere il comando?
No, credo che sia fondamentale. Alla gente piacciono questo tipo di relazioni, si identificano con le dinamiche.

Probabilmente siete la coppia di autori e performer più longeva dei nostri tempi. Perché tu e Keith siete sopravvissuti, al contrario di quanto successe a John Lennon e Paul McCartney?
Difficile rispondere, perché non conosco abbastanza Paul e John. Li conosco in parte, come te. Anzi, tu probabilmente hai conosciuto meglio John verso la fine. Posso azzardare una risposta: secondo me erano due personalità molto forti, ed erano in competizione per avere il controllo della band. E può succedere che uno sia più al comando dell’altro, ma non è una cosa su cui si può continuare a discutere tutto il tempo. Un rapporto del genere non può funzionare, non credi?.

Com’era stare con Keith, quando era sempre fatto di eroina?
Non sono a mio agio a parlare dei problemi di droga degli altri. Se lui vuole parlarne va bene. Come la gestivo? Con difficoltà. Prendere droga ogni tanto va bene, ma se la prendi in continuazione finisci per non produrre più cose buone, non quanto potresti. Può sembrare una cosa da puritani, ma lo dico per esperienza. Puoi anche tirare fuori qualcosa di buono, ma ci vuole un sacco di tempo.

Foto: Ethan Russell/ABKCO

Quando si è ripulito, è cambiato qualcosa nella band?
Era difficile lavorare con Keith quando si faceva di eroina. Era sempre creativo, ma ci metteva troppo tempo, era lento. Inoltre, tutti noi prendevamo droghe e bevevamo tantissimo. Ma non ne ho mai parlato con Keith, non so cosa provasse.

Non avete mai parlato di droghe?
No. Tiro sempre a indovinare. Ti dirò, probabilmente l’ho letto su Rolling Stone.

Com’è il tuo rapporto con lui adesso?
Buono. Ci vediamo tutti i giorni e suoniamo. Ma non è la stessa cosa di quando avevamo 20 anni e dormivamo nella stessa stanza.

Possiamo parlare di Brian Jones?
Certo. Brian era una persona estremamente difficile. C’era qualcosa di molto disturbato in lui. Aveva un gran talento, ma era troppo paranoico e certamente non era tagliato per il mondo dello spettacolo (ride).

È stato il mondo dello spettacolo a ucciderlo?
Sì. Cioè si è ucciso da solo, ma avrebbe potuto insegnare musica e suonare jazz tradizionale durante i fine settimana.

Qual è stato il suo contributo alla band?
All’inizio, tantissimo. Era fissato, il che è una cosa che aiuta.

Fissato con la band?
Sì. Con la sua immagine soprattutto: per lui gli Stones erano una blues band basata sulla tradizione, su Muddy Waters ed Elmore James. Non credo gli piacesse suonare i pezzi di Chuck Berry. Era un purista.

Cosa ha provocato le tensioni tra te, lui e Keith?
Brian era ossessionato dall’idea di essere il leader della band. Ma in una band le cose si fanno insieme, a volte qualcuno prende il comando, a volte ce l’ha un altro. Lui non è mai riuscito a capirlo.

Gli avete portato via la leadership?
Se sei il cantante di una band, sei sempre più al centro dell’attenzione rispetto agli altri. Quello che ha scatenato la sua gelosia era il fatto che io e Keith abbiamo cominciato a scrivere canzoni. A essere onesti, Brian non aveva talento come autore. Zero. Non ho mai incontrato uno con meno talento di lui a scrivere canzoni.

Credi che si meriti lo status quasi mitologico che ha conquistato tra i fan più accaniti dei Rolling Stones?
Era parte integrante della band. Una parte importante, per quanto può contare. Ci siamo allontanati in modo graduale, arrivava in ritardo alle registrazioni, non si presentava ai concerti. Si è buttato via, si è rovinato la salute bevendo troppo e prendendo tutte le droghe che giravano. Stava troppo in giro, dormiva poco e faceva troppe feste. Si è fatto scivolare via il talento dalle mani.

Alla fine lo avete licenziato?
Sì.

Com’è stato?
Non è mai bello licenziare qualcuno. Ma andava fatto. Eravamo arrivati al punto in cui non riuscivamo a suonare dal vivo. Non potevamo tenere su la testa e suonare tranquilli, perché Brian era una responsabilità, dovevamo sempre stare attenti a quello che faceva. Non suonava bene, a volte non suonava proprio. Non riusciva a tenere in mano la chitarra. Era patetico. Ovviamente oggi so che avremmo dovuto portarlo in qualche clinica a farsi disintossicare, ma purtroppo al tempo era una cosa che non si faceva. Ha provato ad andare da un sacco di dottori, ma lo hanno solo riempito di medicine.

Ti senti colpevole?
No. Mi rendo conto di essermi comportato in modo infantile, ma eravamo molto giovani e in qualche modo l’abbiamo preso di mira. Sfortunatamente lui ha fatto di tutto per diventare il bersaglio perfetto. Non ho compreso appieno il suo problema con le droghe. Nessuno era consapevole dei danni, tutti pensavano che la cocaina facesse bene.

Vorrei riferirti quello che mi ha detto Charlie: «Brian Jones voleva morire giovane. Non era in grado di guidare una band. Non era una bella persona da avere intorno».
Dritto al punto, vero? Non so se volesse davvero morire. Era un musicista con talento, ma lo ha buttato via ed è diventato solo un precursore triste di altri musicisti. È macabro, ma continua a succedere ancora oggi. Kurt Cobain. Perché? Succede anche nel mondo dei ragionieri? È una cosa che succede in tutte le professioni, ma noi non lo sappiamo perché nessuno dice quanti ragionieri muoiono?.

Dopo la morte di Brian avete fatto Sticky Fingers. È stato strano fare un disco senza di lui?
Sì. Era un altro mondo. Un’altra era rispetto a Beggars Banquet. Era arrivato Mick Taylor e avevamo una nuova etichetta discografica.

Quello sul retro della copertina sei tu?
No. È uno degli amichetti di Warhol. Credo che il modo più educato per definirli fosse protégé.

Perché Brown Sugar ha fatto impazzire il mondo? È una delle vostre più grandi hit, peccato che parli di schiavitù, sesso interrazziale e leccare la figa…
(Ride) E di droga! Dio solo sa cosa avevo in testa. È un insieme di mille cose. Probabilmente adesso non potrei scrivere una canzone del genere. Mi censurerei da solo.

Wild Horses è scritta da Keith?
La melodia e il titolo sono suoi, io ho scritto il resto. Mi piace. È un cliché orribile: cavalli selvaggi. Davvero orribile. Però la canzone lo rende efficace senza farlo sembrare un cliché.

Jagger e Richards mentre registrano ‘Exile on Main St’. Foto: Jim Marshall Photography LLC.

Secondo i critici l’album successivo, Exile on Main St., è il vostro capolavoro. Che ne pensi?
Lo trovo un po’ sopravvalutato a essere sincero, soprattutto rispetto a Beggars Banquet o Let It Bleed. Non dico che non sia un buon album, ma non contiene canzoni così notevoli come i due precedenti. Abbiamo suonato bene, è un disco molto diretto ed essenziale, ma non lo considero del tutto buono.

Com’era la band al tempo?
Credo che la parola giusta per descriverci al meglio sia: sballati (ride). Era un periodo difficile, eravamo in causa con il nostro manager Allen Klein e abbiamo dovuto lasciare l’Inghilterra per problemi di tasse. Eravamo al verde e siamo andati a vivere nel Sud della Francia. Da qui il titolo del disco.

Eravate allo zenith delle droghe?
Sì. Stavamo tutta la notte svegli a suonare.

Keith era un tossico a tutti gli effetti?
Totalmente.

E gli altri?
Sempre fatti di qualcosa. Non credo fosse particolarmente piacevole. Non mi sono divertito molto. Vivevamo tutti insieme sempre, non si capiva mai se avremmo suonato qualcosa o ci saremmo seduti a tavola a mangiare. Era molto difficile. C’era troppa gente che ci girava intorno. Io ho seguito la corrente, mi sono lasciato trasportare e alla fine l’album è venuto fuori in qualche modo.

Ti vengono i brividi quando ascolti alcune delle vecchie canzoni che parlano di droga?
A volte. Non solo per la droga. Mi vengono i brividi, punto. Ci pensavo l’altro giorno: non ero proprio tagliato per fare la vita dello sballato. Mangiare, bere, prendere droghe e fare sesso. Una vera noia. Si drogavano tutti in continuazione, non era poi una cosa così speciale.

Qual è stato il contributo di Mick Taylor?
Ha portato musicalità. È un chitarrista fluido e molto melodico, non ne avevamo mai avuto uno prima e non lo abbiamo neanche adesso. Né Keith né Ron Wood suonano con lo stesso stile. Per molti quella con lui è la versione migliore della band mai esistita.

Tu cosa pensi?
Ci sono stati diversi periodi interessanti. Non posso dire che Mick Taylor sia stato il migliore, perché vorrebbe dire sminuire la band adesso.

Dopo quei quattro album grandiosi c’è stato un periodo debole: Goats Head Soup e Black and Blue. Aveva a che fare con il consumo di droghe di Keith?
Credo di sì. Non mi ricordo. Siamo stati travolti dalla nostra stessa popolarità. Era una vacanza (ride). Ci tenevamo sempre, ma non come prima. E poi avevamo un sacco di problemi di soldi e ci siamo dovuti trasferire di nuovo. Un periodo difficile.

Però siete tornati alla grande con Some Girls. Merito di New York?
Sì, hai perfettamente ragione. Bravo! Mi sono trasferito a New York e la città mi ha dato nuovi stimoli e mi ha reso più forte. E poi c’era il punk, che è cominciato nel 1976. Il punk e la disco, che sono nati insieme. Molto più interessanti di tutto quello che è successo dopo.

Keith mi ha detto che tu volevi fare a tutti i costi un album disco, ma lui pensava che non fosse adatto agli Stones. Qual era il problema?
Non è vero. C’era solo una canzone con un groove disco: Miss You. Non volevo fare un album disco. Ho scritto anche Respectable, Lies, When the Whip Comes Down. È un album molto Rolling Stones. Essenziale, senza troppe cazzate.

Sulla copertina di Some Girls siete travestiti da donne. Da dove nasce il fascino androgino del rock’n’roll?
Da Elvis. I vecchi della generazione precedente avevano paura di lui. Eri attratto da lui inevitabilmente, perché era bello. Ma loro lo vedevano come un effeminato.

Quando hai cominciato a farlo anche tu?
Più o meno nel 1960. Molto presto, prima di fare i dischi. Non era certo una cosa di cui si poteva parlare come adesso, ma c’era sempre stata. Copiavamo tutti i nostri idoli: ho sempre pensato che Buddy Holly fosse effeminato. La sua voce, non necessariamente il suo aspetto. Ho spinto su questa cosa, perché mi sembrava la cosa più naturale da fare.

I Beatles non lo facevano. Tu invece indossavi la gonna, ti truccavi…
Sembrava una cosa sofisticata essere un po’ effeminato. È una cosa molto inglese: uomini travestiti da donna. Non è poi una gran novità. Ovviamente ha funzionato, ha scandalizzato tutti.

Quando ti sei reso conto che attraevi sia gli uomini che le donne?
Oh, fin dall’inizio.

Dal punto di vista sessuale?
Non ci pensavo molto. Voglio dire, gli uomini sono sempre stati una componente essenziale del rock’n’roll. Le donne erano soprattutto spettatrici. A 15, 16 anni cantavo questi vecchi pezzi rock’n’roll: Little Richard, Jerry Lee Lewis, Elvis. I maschi erano sempre molto più coinvolti delle femmine, volevano essere te. Alcuni di loro erano attratti senza neanche saperlo.

Foto: Fin Costello/Redferns

Quando hai compiuto 40 anni, Pete Townshend ha scritto una cosa che è stata pubblicata su Rolling Stone: «Quando sono con Jagger mi piace guardarlo. Lo trovo ancora molto bello. Molto è stato detto sul suo fascino androgino, e credo che la mia reazione alla sua presenza fisica sia una conferma».
Wow, Pete! Non lo diresti mai di uno come Pete Townshend, vero? A essere onesto, credo che lui sia l’ultimo a essere sensibile a quel tipo di fascino. John invece sì. John Lennon. Lo ha detto qui, sulle pagine di questa rivista. Gli hanno chiesto dei Rolling Stones e lui ha risposto: «Mi piace il lato macho, ma non quello frocio». Nessuno vuole essere macho per tutto il tempo. Ti fa uscire fuori di testa, no?.

Il rock’n’roll è un mondo molto maschile.
Sì, ma i Rolling Stones non sono solo una rock band.

Dopo Some Girls è arrivato Emotional Rescue. Ha lasciato il segno?
No. per niente. Emotional Rescue è fatto con gli avanzi di Some Girls.

Dimmi di Tattoo You.
Quello è un disco vecchio. Canzoni vecchie che ho tirato fuori io prendendole da periodi diversi e poi ho messo insieme in modo molto approssimativo. Il resto della band ha partecipato pochissimo.

Credo sia il vostro disco più sottovalutato. Il vostro modo di suonare è molto preciso, affilato. E poi c’è Start Me Up.
Una traccia dimenticata, uno scarto. Un gran riff di Keith, e io ho scritto il resto. La cosa divertente è che dopo i primi due take è diventato un pezzo reggae ed è andato avanti così per altri 20 take. Poi qualcuno ha detto: «Che schifezza, non lo possiamo usare». Così siamo andati a riprendere il take numero 2, la versione rock, che è quella che abbiamo messo nell’album.

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Foto: Gary Gershoff/Getty Images

Quando è iniziato il tour di Voodoo Lounge, la voce che girava era: sono troppo vecchi. Come l’hai presa?
Ho risposto: non credo proprio. La band suona ancora molto bene e non è molto diversa da prima. Se piacevo a tutti prima, piacerò a tutti anche adesso, probabilmente.

Come ti prepari a un concerto?
Mi piace sbirciare da dietro il palco, vedere cosa fa il pubblico mentre suona il gruppo di spalla. Un modo per avere degli indizi, dei suggerimenti su cosa fare.

Che cosa osservi esattamente?
La prima fila è ancora vuota? Vuol dire che sono i posti della parte di pubblico più vecchia, che vogliono arrivare giusto quando cominciamo. Sono qui solo per sentire il gruppo di spalla? Come stanno reagendo? Fanno casino? Il gruppo di spalla è molto importante, devono essere bravi e riuscire a comunicare con un pubblico che non è il loro. Non è facile. Io odierei fare il gruppo di spalla.

E un attimo prima di salire sul palco, cosa provi?
Di solito ho una buona energia. A volte penso: Gesù, devo proprio andare adesso? Mentre cammini dal camerino verso lo stadio, cominci a sentire una vibrazione. E poi senti il pubblico, la reazione che ha quando parte la musica. La musica sale, manca un secondo prima di uscire e senti di nuovo quella vibrazione. Poi esco e sono solo su un palco vuoto. Sono convinto di me stesso. È quello che faccio. L’ho fatto così tante volte. A volte però hai una sensazione diversa e pensi: Gesù, quanta gente. Oppure: oh Dio, quanti posti vuoti ci sono? Oppure cose più divertenti, tipo: spero che la pioggia forte che abbiamo avuto a Londra non intasi le grondaie di casa (ride). Ti può venire in mente qualsiasi cosa, ma la devi buttare fuori subito.

Com’è la sensazione, mentre ti esibisci?
Adrenalina pura, come correre forte in macchina o giocare la finale del campionato di basket. I nostri concerti hanno molto in comune con gli eventi sportivi. Anche perché si svolgono negli stessi posti. La sensazione è la stessa: sono stato al Super Bowl numero 17 o non so quanto, non mi ricordo neanche quali fottute squadre c’erano in campo, però ero lì. Magari non ti ricordi che canzoni hanno suonato gli Stones quando li hai visti all’Astrodome, però eri lì. È difficile da descrivere. Non mi lascio trasportare troppo dalla prima canzone, è pericoloso. Un tempo lo facevo, ma non è una buona idea. Ti puoi fare male, oppure stancarti troppo velocemente nei primi cinque minuti e poi sei finito.

Ero sotto al palco a San Antonio. Mentre cantavi Brown Sugar ho visto un’espressione di estasi sul tuo volto.
A un certo punto, durante il concerto, ti lasci andare. Cominci a interagire con il pubblico ed è bellissimo, devi lasciarti andare. Devi avere quei momenti in cui vai proprio fuori di testa. Ma il bravo performer sa anche quando arriva il momento di….

Fermarsi?
Sì. È una questione di concentrazione.

È una sensazione costante o arriva solo in certi momenti?
Solo in certi momenti. È un momento trascendente, non so neanche dire se sia gioioso. A volte lo è, altre è solo folle.

Charlie ha detto: «Mick è una versione più giovane di James Brown».
È un gran complimento. Ho copiato molte mosse di James all’inizio. Adesso non le faccio più. Credo che quello che Charlie voleva dire è che James è costantemente collegato al groove, alla batteria. Anche io lo sono, è una cosa naturale.

Come ti senti quando è finito tutto?
Stanco. Ti lasci andare. Poi ti riprendi velocemente. Dopo 10 o 15 minuti sei a posto.

Foto: Michael Hickey/Getty Images

Com’erano i rapporti tra i Beatles e i Rolling Stones?
Molto competitivi, ma amichevoli. Ripensandoci, odio quell’atmosfera di competizione che c’era al tempo. Però immagino che sia stato giusto così, perché alla fine ho vinto io. Non era solo una cosa tra noi e i Beatles. Mi ricordo un concerto a Philadelphia in cui gli Herman’s Hermits suonavano prima di noi. Siamo andati a mangiare un hamburger e un tipo ci fa: «Siete gli Herman’s Hermits?». Una cosa che ti stronca. Così rispondi: «Vaffanculo. Gli Herman’s Hermits sono una merda».

Non vi hanno mai particolarmente messi in paragone con i Beatles.
I Beatles erano così grandi che è difficile capirlo per chi non c’era. Non c’è paragone con nessuno, neanche oggi. Forse Michael Jackson, ma non è la stessa cosa. Erano immensi, mettersi in competizione con loro era impossibile.

Più grandi di Gesù Cristo?
Erano molto più grandi di Gesù Cristo.

E voi eravate al numero due?
Sì, nella seconda classe. Come le macchine a noleggio.

Che rapporto avevi con John Lennon?
Mi piaceva molto, uscivamo spesso insieme, andavamo ai concerti, lui aveva affinità con la musica che facevamo. Oltre all’amicizia, c’era anche un bel rapporto professionale. Parlavamo dei nostri problemi, ci scambiavamo opinioni. Soprattutto quando non era più nei Beatles, ci confrontavamo di continuo sulle canzoni e altre cose. Era una persona colta, molto intelligente, cinico e divertente. Era bello stargli accanto. Aveva anche un modo divertente di trattare gli altri Beatles. Se si vantavano troppo di quanto erano bravi, lui sapeva come farli stare zitti. Mi diceva: «Non ti preoccupare, si stanno solo abituando a essere famosi. Silenzio!» (ride). Come se lui fosse famoso da più tempo degli altri, capisci? Andavo d’accordo anche con Paul, è una persona molto gentile ed è facile stargli vicino, non ha quel lato acido. Con John sapevi sempre che ti sarebbero arrivati dei commenti sarcastici, e magari non eri dell’umore giusto per sentirli.

Qual era la sua motivazione ?
Voleva essere l’uomo più famoso del mondo (ride).

Lo ha anche detto: «Vogliamo essere più famosi di Elvis», o una cosa del genere.
Sì. Elvis ha sbagliato tutto, vero? Ha messo delle strane idee in testa alla gente.

Credi che fosse questo a spingere John?
Sarebbe incredibilmente superficiale e stupido, non trovi?

Sì. Però se credi di avere un messaggio importante… alla fine lo ha fatto davvero.
Sì. Non credo che avesse un messaggio all’inizio, forse pensava che ne avrebbe avuto uno in seguito. A meno che per lui il messaggio non fosse essere famoso. In quel caso ci rifletterò sopra più tardi (ride).

Qual è stato il suo più grande contributo?
Ha fatto cose fantastiche. John e Paul… Ho vissuto anche io un rapporto di collaborazione forte, con la gente che ti chiede sempre chi ha fatto cosa, e tu ovviamente o esageri la tua importanza o la sminuisci e non fai mai la cosa giusta. John era pieno di talento, ha influenzato tutti e ha scritto alcune canzoni meravigliose. Era divertente. Un uomo straordinario.

Gli altri Beatles sembravano prenderla più sul serio di lui.
La sensazione era quella, per questo ti ho raccontato quella storia di come lui li metteva a tacere. Sapeva che erano tutte stronzate.

È stato capace di tirarsene fuori. Non credi che il suo contributo sia stato un po’ di più di: ha scritto delle belle canzoni?
Ovviamente ha fatto molto più, ma è vero che ha scritto canzoni meravigliose e le ha cantate splendidamente. Dal vivo i Beatles non erano sbalorditivi, dopo il 1960 e qualcosa non hanno più suonato dal vivo. Il concerto allo Shea Stadium e quello sul tetto, e basta. Ma grande qualità di scrittura, grande personalità. John le aveva tutte.

Cosa hai pensato quando hai saputo che era stato ucciso?
Ero molto triste e sorpreso. Un paradosso terribile: John pensava di aver trovato un posto dove vivere la sua vita in pace. Si era abituato talmente tanto all’idea di non essere più uno dei Beatles da pensare di non aver bisogno di protezione, di una guardia del corpo. Mi raccontava che a New York si spostava in taxi. Con il fottuto taxi giallo, capisci? Una cosa da evitare, come sai bene, se in tasca hai più di 10 dollari (ride). Un conto è a Londra, ma a New York il taxi è un’altra cosa. Voleva avere la libertà di camminare per strada e di prendere un taxi, di poter diventare anonimo nella grande città.

La sua morte ti ha colpito nel profondo?
Ero molto triste per la morte di una persona che amavo molto. Non ho trattato la notizia come avrebbe fatto un pezzo del Guardian. I giornalisti hanno questa tentazione irresistibile a fare cronologie su tutto (ride). Tipo quelle che ci sono a scuola per i bambini: i dinosauri sono finiti qui, i mammuth lì… e qui è morto John Lennon.

John si merita la reputazione che ha? E i Beatles quella di più grande gruppo di sempre?
Non erano una grande live band. Forse quando suonavano al Cavern, sono sicuro che erano divertenti. Si meritano questa reputazione incredibile? Erano i Beatles. Sono arrivati prima di tutti, hanno aperto una strada ed è difficile sopravvalutarli.

Cosa pensi di Tina Turner?
Mi ha influenzato molto, una delle prime cantanti con cui ho lavorato che aveva la mia stessa aggressività. Era la versione femminile di Little Richard.

Foto: Ron Galella via Getty Images

Pete Townshend?
Mi è sempre piaciuto Pete. Un tipo molto intelligente, sempre immerso nei suoi pensieri. Anche se ha avuto quel periodo ribelle, folle e autodistruttivo. Mi ricordo il primo viaggio che abbiamo fatto con lui. Eravamo in aereo e stavamo andando da qualche parte, tipo in Belgio. Nel giro di un’ora era completamente ubriaco. Ha cominciato a fare il pazzo. Noi non potevamo fare altro che guardarlo. Voglio bene a Pete. Un performer esaltante nei tempi d’oro degli Who.

Hendrix?
Mi è piaciuto fin dall’inizio: era eccitante, sexy, interessante. Non aveva una gran voce, ma compensava con la chitarra. L’ho visto la prima volta al Revolution Club di Londra. Ero una delle sei persone presenti quella sera. Era incredibile, bravissimo.

Lo hai conosciuto?
Eravamo abbastanza amici. Un ragazzo molto dolce, ma un po’ confuso. La solita vecchia storia: Jimi Hendrix ha suonato ovunque con tutte quelle band. Per anni è stato nell’ombra e all’improvviso ha ottenuto ciò che voleva. Poi però gli tocca cantare Purple Haze ogni sera. E quando tutti hanno cominciato ad andare a fondo, lui è andato giù con loro. È diventato un eroinomane.

Cosa pensi di Prince?
Va molto di moda parlare male di Prince (ride).

Per il fatto che non ha più un nome?
Quella è diventata una barzelletta. No, credo che Prince sia un grande artista. Ha aperto un sacco di mode musicali e inventato un sacco di stili e non è riuscito a stare al passo con se stesso. Molto prolifico, il che è raro. È uno dei migliori. Non c’è nessuno dei nuovi artisti che può competere con lui.

Cosa pensi della musica attuale?
Non c’è niente che mi appassioni. Non sono mai andato pazzo per i Nirvana, troppo angosciati per me. Mi piacciono i Pearl Jam, li preferisco a molti altri. Ma non sono un fan della musica deprimente.

Molte di queste cose mi ricordano gli anni ’60. Sei d’accordo?
Per il fatto che sono quattro persone che suonano la chitarra e altri strumenti, sì. Ma il groove è diverso, è tutto influenzato dalla musica dance. Dopo 30 anni non puoi suonare sempre lo stesso beat. Il che va bene. Non credo che nessuna di queste band avrebbe il coraggio di definirsi diversa dalle altre. Trovo che il ritorno della musica dal vivo sia incoraggiante, soprattutto per gente come me. Rende ancora valida la formula originale del rock’n’roll, quello che ci ha fatto innamorare.

Puoi definire per me il rock’n’roll? Che cos’è? Sesso, violenza, energia, rabbia?
Tutte queste cose insieme: energia, rabbia, paura, entusiasmo, una certa spontaneità. È emozione. Ed è tradizione: ci sono delle regole e delle formule, che sono basate sul folk e sul blues, ma vanno cantate con energia giovanile, o per meglio dire con l’indolenza giovanile, perché la gioventù ha anche questo lato apatico, languido e ribelle. Vengono cantate come forma alternativa di sfogo. Un languore leggermente femminile, la noia e la rabbia della gioventù. Per rappresentare tutte queste emozioni la formula del rock’n’roll funziona particolarmente bene.

Noia e rabbia. Sono tutte e due forme di ribellione.
Sì. Un’affermazione di ribellione che segna il punto in cui si trova la tua generazione.

L’energia, la carica sessuale fanno parte di questo aspetto giovanile?
Sì. La sessualità è potente e molto evidente. Non ha niente di discreto, viene direttamente dalla musica nera.

E la violenza?
La violenza è soprattutto una posa. C’è nei testi, ma è anche un atteggiamento.

Foto: Evan Agostini/Invision/AP

Invecchiando, è cambiato qualcosa nel tuo rapporto con il rock’n’roll? Provi ancora la stessa cosa?
No.

Che cosa è cambiato?
È molto più vecchio. Quando abbiamo iniziato, la musica rock era una forma musicale completamente nuova. Io ero lì quando è cominciato tutto. L’abbiamo cambiato portandoci dentro il rhythm & blues. Ci sentivamo tra i pochi eletti che potevano giocare con questo nuovo gioco. Avevamo un fervore evangelico. Era esaltante, nessuno sapeva se sarebbe durato a lungo e dove sarebbe arrivato. All’inizio veniva considerato un forma di ballo, tipo il cha-cha-cha o il calypso. La storia del rock è piena di canzoni che parlano della speranza che non muoia mai. Quindi adesso il mio atteggiamento è cambiato: il rock ha 40 anni. A me piace ancora esibirmi, ma non è più una forma di espressione nuova ed evangelica. È in grado di esprimere qualcosa, di creare cambiamenti e novità, ma non è più così esaltante per me. Non è più lo strumento giusto per un uomo della mia età considerata la carica ribelle, la rabbia e lo spirito giovanile che si porta dietro. È folle provare a ricreare la stessa cosa.

Guardi mai indietro alla tua carriera?
Ho paura di farlo. Puoi essere soddisfatto oppure dire: che merda. Potresti ritrovarti a pensare: avrei dovuto farlo per qualche anno e poi smettere.

Ti viene mai in mente una cosa del genere?
Certo. Invece di fare il cantante rock, avrei potuto fare qualcos’altro. Speri di aver fatto la cosa giusta, hai passato un sacco di tempo a farlo e quindi sarebbe meglio avere ragione. «Hai buttato via molto tempo?». Sì, lo hai fatto. «Hai usato tutte le tue qualità fisiche e intellettuali?». Sì e no. Il rock’n’roll non è poi così impegnativo a livello intellettuale. Diventi pigro. Non credo che nessuno sia mai davvero soddisfatto di quello che ha fatto nella vita.

Gli Stones sono la più grande rock’n’roll band del mondo?
È solo un epiteto stupido. Mi ricorda Barnum & Bailey, sai?, il circo.

Come spieghi la tua resistenza fisica?
È una questione di energia, davvero. Sono pieno di energia, quindi non lo vedo come un problema nell’immediato.

Come va l’udito?
Molto bene. Me ne prendo cura, perché suoniamo a un volume molto alto. A volte uso dei tappi, perché lo sento troppo alto nell’orecchio sinistro.

Perché proprio il sinistro?
Perché alla mia sinistra c’è Keith (ride).

Come riassumeresti gli ultimi 30 anni?
Oh, Dio. Vaffanculo, non lo farò, non sono in grado. Direi che possiamo finirla qui.

Da Rolling Stone US, 14 dicembre 1995.

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