L’intervista doppia a Davide Shorty e Elio: i talent, le meteore televisive, la depressione | Rolling Stone Italia
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L’intervista doppia a Davide Shorty e Elio: i talent, le meteore televisive, la depressione

"Canti ancora?!". Shorty se l'è sentito ripetere talmente tante volte dopo X Factor da scriverci una canzone. Ma attenzione: Elio, che la interpreta con lui, dice che i talent sono solo il capro espiatorio della crisi della musica

L’intervista doppia a Davide Shorty e Elio: i talent, le meteore televisive, la depressione

Elio e Davide Shorty in un dettaglio della copertina di 'Canti ancora?!'

Artwork: WUMZUM

Canti ancora?! è una canzone che parla di meteore televisive, di un pubblico maleducato e ossessionato dalle foto e di musicisti in crisi d’identità. L’ha scritta Davide Shorty, cantautore, rapper e beatmaker che ha partecipato alla nona edizione X Factor nella squadra di Elio, che collabora anche a questo pezzo. Canti ancora?! è anche una canzone sui talent. Ha una produzione raffinata, una melodia leggera e azzeccata, e un testo-sfogo ironico con cui Davide Shorty si libera definitivamente della lunga coda di X Factor, un periodo in cui si sentiva «una testa senza faccia». L’ha scritta nel 2018 – nel periodo in cui iniziava la collaborazione con i Funk Shui Project, collettivo torinese con cui ha pubblicato gli album Terapia di gruppo e La soluzione –, dopo una serata a Bologna in cui si è sentito fare la stessa domanda decine di volte: ma canti ancora?

«Mi è stato chiesto così tanto spesso che alla fine l’unico modo per ribaltare la situazione era scriverci su e prenderla sul ridere», dice. «Ho scritto questo pezzo per invitare le persone ad andare oltre al talent, spero che si sentano stimolate a sentire le mie cose». Il brano farà parte di un album in cui proverà a mettere insieme tutte le sue influenze: hip hop, funk, soul, jazz e «tanto cantautorato italiano, ascolto da anni Fabio Concato, Alan Sorrenti e Battisti».

Davide, come nasce il singolo? 

D: L’ho scritto un paio d’anni fa e l’ho lasciato da parte, aspettavo il momento giusto. Ero a Bologna, lavoravo con i Funk Shui Project, e passeggiando per la città mi hanno fermato decine e decine di volte per farmi sempre le stesse domande. “Ma tu sei quello di The Voice?”, “ma canti ancora?”. Ho pensato: e ora come glielo spiego che anche chi fa un talent forse ha una carriera prima e dopo, che non c’è bisogno di essere in tutte le radio e le televisioni per essere un professionista?

Cosa ti ha colpito di più di quelle frasi?
D: Non capivo come fosse possibile che nessuno avesse la delicatezza di chiedermi semplicemente cosa stessi facendo. Tutti ti dicono: “Sei un grande, la tua voce è pazzesca, ci facciamo la foto?”. Però nessuno segue quello che fai, perché viviamo nell’era dei fenomeni. Sei un fenomeno televisivo e la gente ti guarda in televisione, poi quando il programma finisce si comincia a dimenticare. Questa è una cosa che succede a tutti, e ne ho parlato con tantissimi concorrenti di talent.

Come reagiscono gli altri?
D: Alcuni la vivono con più leggerezza, altri in maniera pesante, perché è una cosa che va a toccare la tua identità. Non ti senti riconosciuto, sei solo una testa senza faccia, che è quello che dico anche nel pezzo.

Ho letto che dopo X Factor hai vissuto un periodo difficile, che hai sofferto molto per il contraccolpo. Questo singolo però è molto leggero e ci scherzi sopra. Come sei riuscito a superare quel momento?

D: Io l’ho vissuto in maniera pesante. Dopo essere uscito da quel mondo sono caduto in depressione. Mi ci è voluto un po’ per superarla, almeno un anno. Lo switch è arrivato con la musica, scrivendo e circondandomi di persone che credevano in me. A un certo punto ho capito che dovevo rivedere il mio bisogno di approvazione e concentrarmi solo sul mio percorso, su quello che volevo dire a chi mi ascolta. Perché dopo un’esperienza del genere hai un seguito, quindi una responsabilità, come dice il grande Peter Parker (ride). Non importa chi ricorda il mio nome, o chi continua a inquadrarmi nel modo sbagliato. Certo, è fastidioso che le persone riducano la tua carriera alla sua parentesi più visibile, ma non è davvero importante.

Foto: Ambra Parola

Elio, tu cosa pensi del contraccolpo che vivono molti concorrenti dei talent?

Elio: X Factor, come credo tutti i talent, è certamente una cosa grossa. È un tuffo improvviso nell’iperspazio. Quando arrivi alla fase finale passi da zero a mille in un attimo. Dunque mi sembra più che normale che poi ci siano dei contraccolpi grossi. Però è anche qualcosa che appartiene a questo mondo. Quando passi da cantare per te stesso o per i tuoi amici, a farlo per centinaia, migliaia, decine di migliaia, centinaia di migliaia o, come succede a X Factor, anche per milioni di persone… non puoi pensare di non avere dei contraccolpi.

Ma se ne parla durante il programma? I concorrenti ne sono consapevoli?
E: Per conformazione non mi piace seguire la corrente, per cui tutta questa fama dei talent dannosi non mi convince, non mi trova d’accordo. Il contraccolpo non c’entra con i talent, dipende dalla fama. Dalla fama improvvisa, forse. Ma succede anche ai calciatori, così come a tutte le persone che fanno un lavoro che ha come obiettivo cercare la fama. Io dico che è un prezzo che uno paga anche volentieri. I talent sono come tutte le cose della vita, non mi viene in mente qualcosa che faccia solo bene. È un po’ come la droga, o l’amore. Il talent è un acceleratore incredibile, quando ti va bene accelera in maniera impensabile per quelli della generazione di Elio e le Storie Tese. Noi non avevamo queste possibilità, forse succedeva solo con il festival. Se imbroccavi il pezzo di Sanremo passavi improvvisamente dall’anonimato a una fama incredibile. Anche lì c’era il contraccolpo, ma a nessuno è mai venuto in mente di accusare il festival. Anzi.

Allora da dove viene la cattiva fama dei talent? 

E: Secondo me è nata dal desiderio di trovare un colpevole per la crisi della musica e della creatività. Ma la crisi c’era già, io ne sono convintissimo. È qualcosa che parte da molto lontano. Dopo la spinta rivoluzionaria, culturale e artistica degli anni ’60 non c’è stato più niente. Poi se parliamo dell’Italia ci sono anche altri fattori, tra cui l’impreparazione e l’incompetenza dell’intero mondo della musica. Il talent è come un master: è veloce, sono pochi mesi in cui se sei intelligente puoi imparare decine di cose da persone che con le tue sole forze avresti forse incontrato in una carriera intera. Forse, eh!

Davide, credi che i talent non facciano vedere abbastanza il percorso e la storia dei loro artisti?

D: Dipende dal giudice, da tante cose. Il talent non può dare un’immagine a 360° di un’artista: le esibizioni durano due minuti, avvengono per la maggior parte su strumentali prefabbricate, magari da produttori che molto spesso non si curano effettivamente dell’identità dell’artista con cui stanno lavorando. Io sono stato fortunato: Elio mi ha dato tanta libertà di azione, e avevo un rapporto fantastico anche con il produttore che lavorava con me, Alberto Tafuri, un pianista jazz pazzesco. Quella è stata una grossissima fortuna, perché mi ha dato modo di esprimermi con strumenti che conoscevo e mi ha aiutato a portare a termine quel percorso. Ma io non sono un personaggio, e questo nel contesto televisivo probabilmente è una pecca.

In che senso? 

D: Il pubblico mi vedeva con quei capelli grossi, ogni tanto mi perdevo nei concetti… In quel contesto servono personaggi più efficaci, che comunicano in maniera diretta. Questa è una cosa che mi ha fatto riflettere: bisogna essere aperti a tutti i cambiamenti, soprattutto nel modo di comunicare. L’importante è mantenere un’integrità. Io dopo il talent sono stato male perché non mi sentivo integro. La gente mi conosceva per canzoni non mie, andavo a suonare nelle discoteche con delle basi e delle cover in cui io mettevo solo la mia interpretazione di alcune strofe rap. Io invece mi sento più un cantautore che un interprete.

E in televisione non sei riuscito a farlo vedere. 

D: Il talent mette in primo piano gli interpreti. Per esempio: My Soul Trigger, il mio inedito di X Factor, è stato scritto da Chantal Saroldi, una cantautrice fortissima che per fortuna aveva quel pezzo pronto, perché io avevo fatto sentire i miei pezzi, quelli che sarebbero andati sull’album Straniero, e le etichette mi dicevano che erano troppo complicati, troppo raffinati, troppo complessi. Io mi sono sentito tarpare le ali: da un lato senti che l’industria ti volta le spalle, dall’altro pensi di non essere abbastanza.

Elio, non credi che il programma dia poco spazio alla musica originale? A X Factor si sentono soprattutto cover… 

E: Io non voglio fare la difesa dei talent a tutti i costi, dico solo che non c’è niente di alternativo. Noi abbiamo tentato con una trasmissione diversa, abbiamo invitato gli Area… ma devi far convivere la qualità con la quantità, cioè il grande pubblico. Devi riuscire a inventare qualcosa che riesca ad attirare il grande pubblico e al tempo stesso fare qualità. Se ci fosse qualcosa di più bello di X Factor io sarei qui a spada tratta a difenderlo. Se vogliamo trovargli un limite, è che non esiste un piano, un progetto per seguire i cantanti dopo la trasmissione. Bisognerebbe farlo. Dopo il programma è tutta un’altra pagina, e servono delle professionalità che non esistono in Italia: produttori, autori, compositori, discografici, una squadra di persone all’altezza che sposi il progetto. È qui che casca l’asino.

Si incolpano i talent delle mancanze di un sistema? 

E: Esatto, è facilissimo incolpare i talent.

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