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Lina Simons, il rap tra le palazzine campane e i blocks londinesi

La giovane rapper di origini nigeriane ha lasciato Benevento per Londra («qui nessuno mi chiama scimmia») e per la sua musica ha sogni ben chiari: «Ci lavoro ogni giorno, so che potrebbe cambiarmi la vita»

Foto: T.J. Roderick

Classe 1998, madre nigeriana e padre italiano, Lina Simons, al secolo Pasqualina De Simone, era una dei 3000 abitanti di Cerreto Sannita, in provincia di Benevento, prima di trasferirsi a Londra due mesi dopo aver preso il diploma, nel 2018. Nella City fa musica e studia imprenditoria e, a suo dire, ha trovato il suo posto nel mondo: «Qui» assicura «nessuno mi chiama scimmia».

La sua musica è l’incontro di queste radici, da qualche parte tra l’Afrobeat, la grime, l’inglese, l’italiano e il dialetto napoletano. Lina Simons racconta le palazzine in cui è cresciuta e i blocks londinesi, senza cedere a romanticismi e mitologie. Racconta anche della sua esperienza di italo-africana, del suo rapporto altalenante con il nostro Paese che le piace ma da cui ha sentito il bisogno di evadere, e ci offre degli scorci sulle sue origini nigeriane, lei che l’Afrobeat lo ascoltava da bambina con sua madre senza mai essersi preoccupata di come si chiamasse dalle nostre parti quel genere che la riportava con la mente a una delle sue tante case.

Il suo è un multiculturalismo fluido, in cui le radici si fondono spontaneamente e senza forzature, creando di brano in brano, di strofa in strofa delle configurazioni sempre nuove. Per questi motivi, per la sua scrittura precisa, lucida, e per lo stile a palate la abbiamo inserita in Classe 2023 insieme agli artisti che ci piacerebbe veder emergere durante quest’anno. Abbiamo voluto fare due chiacchiere con lei.

Sei nata da madre nigeriana e padre campano a Pozzuoli e sei cresciuta tra Castel Volturno e Cerreto Sannita. Come hai vissuto questi luoghi?
Amore e odio. A me piace tanto il sud Italia, credo che il livello culturale sia molto alto e mi piace tutto quello che riguarda la cultura, il folklore, i dialetti e in generale l’atmosfera di quei posti. Sono stata bene lì, mio padre ha deciso di spostarci da Castel Volturno per tornare al suo paese natale, Cerreto Sannita, quando avevo cinque anni. Credo che la sua idea fosse quella di farmi crescere in un contesto più tranquillo e protetto, e per certi versi è andata così. D’altro canto però è stato difficile perché in un paese di tremila persone io e mia madre eravamo le uniche nere, a scuola ero sempre l’unica ed è una cosa che per un motivo o per l’altro ti senti addosso. Ci sono tante persone che te lo fanno pesare. Ti faccio un esempio: quando ho raggiunto un’età in cui ero un po’ più sviluppata è capitato più di una volta che delle persone, vendendomi in giro con mio padre, andassero da lui per fargli i complimenti, dando per scontato che io fossi la sua amante, perché non ritenevano plausibile che io potessi essere sua figlia. Quindi sì, direi che per certi versi ho un buon rapporto con quelle radici, per altri è stato difficile.

C’è anche un altro esempio di cui hai parlato, anche in altre occasioni, su cui hai anche fatto un video che qualche anno fa era diventato virale.
Un’amica di famiglia qualche anno fa aveva portato me e mia sorella a lavorare in un ristorante per guadagnare qualche soldo. Quando siamo arrivate la moglie del proprietario del ristorante lo ha portato nel retro e ha iniziato a urlargli addosso cose del tipo “ma chi mi hai portato, ma le hai viste?”. Si riferiva al fatto che fossimo nere. L’amica di mia mamma ci ha portato via, e ho visto mia sorella che piangeva e non ci ho più visto. Da un po’ di tempo facevo diversi video in cui scherzavo sugli stereotipi che alcuni white italians avevano su di noi, perché per me era una forma di terapia, scherzare anziché farmi travolgere da certe cose, e ho usato quel canale per fare un video in cui raccontavo l’accaduto. Il video è diventato virale e la signora del ristorante ci ha offerto ottanta euro per toglierlo. Ovviamente ho rifiutato e le ho detto che la mia dignità non si comprava. Il video rimarrà dov’è. Forever and ever.

E invece che rapporto hai con i tuoi?
Purtroppo mio padre è venuto a mancare nel 2018, mentre per quanto riguarda mia madre ho un bellissimo rapporto. Lei è nigeriana e ha sperimentato prima di me e per molto più tempo la vita da nigeriana nel sud Italia, quindi mi ha aiutato tantissimo ad affrontare certe situazioni che possono capitare a causa di questa circostanza e in generale mi è sempre stata vicina. Le sono grata anche per avermi trasmesso tutto quello che poteva rispetto alle mie radici nigeriane: mi ha trasmesso la lingua, le tradizioni, mi ha dato il nome con mia madre bel rapporto, lei è nigeriana, io sono molto stretta a lei, mi sono molto ritrovata in lei, quando mi sentivo poco capita avevo mia madre come punto di riferimento che mi ha aiutato a capire come affrontare certe situazioni, e poi perché mi ha fatto stare tantissimo vicino alla mia cultura nigeriana, ad esempio trasmettendomi le tradizioni della tribù bini, a cui io e lei apparteniamo. Anche se sono nata e cresciuta in Italia, grazie a lei ho potuto sviluppare un rapporto anche con il mio Paese d’origine.

Ora invece sei a Londra, come ci sei finita?
Diciamo che ho sempre cercato la mia indipendenza e fin da quando ero piccola ho sempre avuto il desiderio di andarmene in generale e, in particolare, di andare in un posto in cui l’inglese fosse la lingua principale: all’inizio scrivevo soltanto musica in inglese e quindi ho sempre avuto quel pallino. Inizialmente volevo andare negli Stati Uniti, scelta che oggi non farei più e che, in ogni caso, non ho potuto fare perché quando avevo quel desiderio non avevo i mezzi per procurarmi la Green Card. Quindi ai tempi avevo scelto l’Inghilterra come ripiego, e in realtà alla fine credo sia stata la scelta migliore, perché qui mi trovo benissimo.

Tutte queste esperienze biografiche si traducono in altrettante radici musicali. Tu hai percezione di questo? Se ascolti la tua musica, riesci a riconoscere queste tue radici?
Sì, assolutamente. Sento davvero le influenze di tutte queste radici all’interno della mia musica. Innanzitutto perché quella è la mia arte e quindi rappresenta me, e rappresentare me significa rappresentare tutte queste sfaccettature. Credo lo si possa vedere nei pezzi che ho rilasciato fino ad ora, che magari proprio per questo possono anche sembrare molto diversi tra di loro. Ti faccio degli esempi: c’è In the Block in cui racconto la mia visione delle palazzine londinesi, e c’è Shaku Shaku in cui invece viene maggiormente a galla il mio “lato nigeriano”. Quello ad esempio è un pezzo che oggi viene riconosciuto come afrobeat perché è un genere che oggi è più popolare rispetto a qualche anno fa, ma quando lo ascoltavo io con mia mamma non esisteva questa definizione, per noi era just music, solo musica della nostra terra d’origine senza troppe etichette.

Hai vissuto diversi “blocchi”, in Campania e poi a Londra. Credi che abbiano qualcosa in comune? E in generale, è un tipo di ambiente che vai a ricercare o da cui cerchi di evadere?
In generale credo che tutti i ragazzi che vivono certi ambienti siano parte di un’unica grande comunità, sono e siamo tutti accomunati dalla stessa struggle che è quella di essere cresciuti in questi luoghi vivendo esperienze molto simili. Non penso né di andare a ricercarlo, né di evadere: semplicemente vado dove so che sto bene e dove mi sento al sicuro, che può accadere in diversi contesti e non necessariamente tra le palazzine. Vado da persone che so che possono capirmi e con le quali non mi sento sotto pressione, e mi è capitato spesso di trovarle in quei contesti. Ma non è una scelta a priori.

Te lo chiedo perché nella cultura hip hop, a cui tu fai riferimento, c’è molto l’elemento del ghetto, del blocco e dell’appartenenza, ma a me sembra che il tuo modo di approcciarti a questa cosa sia tutt’altro che romanticizzato.
Sì, sono d’accordo. Certe realtà, in sostanza, le ho vissute quando ero molto piccola e ci sono tornata più tardi. Buona parte della mia crescita è avvenuta in questo paesino-cupola, appunto Cerreto, in cui entrava poco e usciva ancora meno. Non romanticizzo anche perché sono molto legata ai miei genitori: loro hanno vissuto certe cose che hanno voluto che io vivessi il meno possibile e io ho sempre rispettato questo. Inoltre credo che all’inizio molte persone che si approcciavano all’hip hop volessero usare la musica per uscire da certe situazioni e riscattare intere comunità, non per romanticizzarle. Non condanno chi lo fa, ovviamente, e io stessa ascolto molta musica fatta da persone che lo fanno, ma io personalmente non mi sento di voler romanticizzare certi ambienti perché le cose positive che ci ho visto sono molto poche. Da un lato forse mi hanno dato alcuni strumenti a livello personale, hanno forgiato il mio carattere e hanno contribuito a formare la mia visione della vita. Ma non mi viene da dire “wow, le persone si sparano per strada e i miei amici vanno in galera”.

Il tuo ultimo pezzo si chiama Guardami ora: chi deve guardarti e cosa vede chi ti guarda ora?
Cosa vede lo sa solo chi mi sta guardando. Io posso dire cosa vedo io: credo di essere sempre stata una persona che cerca di trovare forza nelle cose negative, e di vedere il lato positivo di quello che mi succede. Mi è sempre piaciuto mostrare alle persone che io so fare delle cose, e quindi questo pezzo è una “dedica” a tutti quelli che in questi anni hanno dubitato e ancora dubitano che io possa fare musica e possa dare forma a quello che ho nel mio cervello. Sono sempre stata una persona con grandi sogni, a volte forse troppo grandi per essere capiti da tutti, e quindi tante persone della mia vita non li hanno compresi: cosa vedono adesso lo sanno solo loro, ma io spero che vedano che lo sto facendo, che sto facendo questa cosa su cui loro erano scettici.

Ti ricordi come è nato questo pezzo? In generale come scrivi?
Il mio modo di scrivere dipende dai miei stati d’animo. La cosa più importante per me è mettermi nel mood giusto. C’è un piccolo studio a Hoxton in cui vado per lavorare ai miei pezzi: la prima cosa che faccio è ascoltare tantissima musica. Ho diverse playlist in base ai mood e le ascolto per entrare nello stato d’animo giusto. Dopodiché ascolto i vari beat di Gransta, il mio produttore, e pian piano le parole iniziano a scorrere. A volte ci metto un’ora, a volte ci metto dei giorni, quando poi mi sento pronta registro quello che ho scritto e poi mi confronto con Gransta e gli altri del team, e ci consigliamo a vicenda.

Ti ricordi la prima volta in cui hai scritto un pezzo?
Sì come no, me lo ricordo benissimo anche perché l’avevo pubblicato. Avevo tredici anni ed ero nella mia stanza in Italia. Era un po’ che pubblicavo sul mio YouTube – che per fortuna ora è privato – cover di canzoni hip hop, e avevo iniziato a dirmi che assolutamente avrei dovuto iniziare a fare roba mia. Il primo pezzo però si chiamava Maybe One Day e ricordo di averla scritta dopo aver visto un programma di MTV in cui si raccontava la storia di Macklemore e Ryan Lewis. L’ho scritta, sono andata da un mio amico e l’ho fatta ascoltare alla mia giudice preferita, cioè mia sorella, che è la persona più schietta che conosco. Quel pezzo le era piaciuto, e quindi lo avevo addirittura messo su SoundCloud.

Dalla cameretta al Miami dell’anno scorso: i palchi cambiano e crescono, ma lo spirito? Come sei cambiata in questi anni?
Ho sempre vissuto la musica come una parte della mia vita però quando ero più piccola la vivevo in modo più spensierato. Avendo visto i miei genitori soffrire molto per dare a me e a mia sorella quello che abbiamo avuto, ho sempre visto la musica anche come un modo per portare un po’ di libertà e leggerezza alla mia famiglia, oltre che un modo per rilasciare quello che avevo dentro. Mio padre ha sempre pensato che sarei riuscita a fare musica a livello professionale perché secondo lui avevo tante cose da dire e la musica era il modo che avevo e che ho di far uscire tutto questo. Con gli anni comunque quella pressione si è fatta sentire sempre di più perché una carriera musicale non si costruisce in un giorno. Ci sto lavorando praticamente da quando ne ho consapevolezza. Oggi so di come la musica potrebbe cambiare la mia vita, e forse questo mi mette un po’ più di pressione.

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