Lepre, un abito da sposa dietro la batteria | Rolling Stone Italia
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Lepre, un abito da sposa dietro la batteria

Il musicista della scena romana ha fatto tour con Motta e Giancane ed è stato uno dei protagonisti di OGR Club. Nel girovagare tra i palchi della penisola, stasera torna a Torino per presentare il suo album, 'Malato'

Lepre, un abito da sposa dietro la batteria

Lepre

Foto: Giorgio Perottino x OGR Torino

Romano classe 1978, Lorenzo Lemme in arte Lepre riverbera un certo tipo di passato in cui, senza alcun tipo di nostalgia, la musica si faceva principalmente nelle sale prove e i brani si scrivevano a forza di suonarli, e lo effonde in un presente, il suo, fatto di sofferti raggiungimenti di maturità artistica e personale, di intimità e di scrittura d’autore tra le mura di casa. Lo fa con indosso un vestito da sposa e tra le mani le bacchette dello strumento di una vita, la batteria, che suona, oltre a cantare, anche nei suoi concerti dal vivo. Il primo e attualmente ultimo lavoro, Malato, è uscito ormai lo scorso maggio: da allora Lepre saltella per i palchi di tutta Italia e ha da poco annunciato una manciata di date nuove a partire già da questo mese, che, tra le altre cose, lo riporteranno questa sera a Torino, ai Magazzini sul Po, città nella quale cinque mesi fa ha eseguito il suo primo disco alle OGR per OGR Club: un concerto-evento che è stato interamente ripreso e pubblicato su YouTube. Lo abbiamo raggiunto per parlare con lui

Hai trascorso una vita nelle band, preferibilmente alla batteria, e solo dopo tanti anni di carriera sei arrivato a pubblicare un disco solista. Cosa ci racconti di questo percorso per molti versi anomalo?
Ho iniziato a suonare la batteria da molto piccolo, attorno ai sette anni, ma pochi anni più tardi mi sono approcciato anche alla chitarra, e di conseguenza al canto e alla scrittura. Ho davvero l’adolescenza nelle band, sia come batterista che come cantante, ma erano per lo più progetti piccoli, di quelli che si fanno a sedici anni per cacciare via un po’ di insicurezze. A un certo punto, verso i 23 anni, ho iniziato a fare il musicista con un approccio un po più professionale, finché dai trenta in poi ho deciso di vivere solo di musica, principalmente musica live in band indipendenti.

Nello specifico, hai avuto sostanzialmente tre progetti che ti hanno impegnato particolarmente, ed erano tutti in seno alla scena romana di quegli anni.
Sì, ho avuto un trio per più di dieci anni, i BOX84: quella è la band in cui sono cresciuto artisticamente. Con loro suonavo la batteria e cantavo, ma la scrittura era tutta da band e non c’era nulla di solitasta. Abbiamo fatto uscire dei dischi con la Trovarobato, che è anche una delle etichette del primo lavoro di Lepre. Dopo questa esperienze sono passato a un duo insieme a Jacopo Dell’Abate, ci chiamavamo LeSigarette. Infine ho suonato per diversi anni con Lucio Leoni, di cui sono stato batterista.

Ma nel frattempo cominciavi a scrivere i tuoi brani.
Esatto, di fatto è andata così: ho iniziato a scrivere alcune canzoni per conto mio, a casa, e a registrare alcuni provini. Solo a un certo punto di queste registrazioni primordiali ho realizzato che stavo di fatto lavorando al mio primo progetto solista. A quel punto ho iniziato a contattare i miei amici musicisti e a chiedere consigli su come arrangiarli e come valorizzare questa manciata di canzoni. Ho lavorato ai pezzi innanzitutto con Daniele Borsato, e poi ho incontrato Fabio Grande, con cui poi ho prodotto il disco, coinvolgendo anche Giovanni Pallotti. Tra l’altro sono molto contento per lui dato che ha appena vinto il Festival di Sanremo lavorando al brano di Mengoni.

Il disco suona molto crudo e per certi versi quasi imperfetto. É una scelta legata al tuo background?
Sì, ho un passato da suonatore di band, e quindi ho voluto assolutamente che nel disco si sentisse, e che emergessero gli strumenti, con tutta la loro pasta e le loro imperfezioni.

Lepre live | OGR Club

Il disco si chiama Malato. Di che tipo di malattia parli?
Io parto da esperienze mie personali, su cui però cerco di non soffermarmi troppo: diciamo che utilizzo le mie esperienze come suggestioni per cercare di arrivare a una specie di universale. Mi piace condividere il mio vissuto e penso che sia l’unica cosa di cui io possa e sappia parlare con certezza. Quando parlo di malattia penso a tutte quelle malattie invisibili che si accompagnano a momenti di crisi o di passaggio in cui cambiano i comportamenti e le persone che ti conoscono si accorgono che qualcosa non va.

Nel tuo immaginario c’è molta natura, quasi come se quello fosse il tuo punto di riposo.
Sì, è così, la natura, gli spazi poco antropizzati, per me sono delle pause di pace e silenzio rispetto agli stress quotidiani, almeno per chi come me è abituato a vivere in città. Sono momenti e spazi in cui la mente si apre, e che poi si riverbera anche nei momenti difficili, in cui il solo pensiero di quel tipo di riposo aiuta ad andare avanti anche in ambienti più ostili e rumorosi come quelli della città. Ricerco sempre molto un equilibrio tra questi estremi e per questo credo di parlare spesso di conflitti interiori tra gli individui e la società. Cerco spesso di crearmi dei momenti di pace, che siano di meditazione o anche solo di riposo, per fermare in qualche modo il tempo e la frenesia. Credo che la ricerca di questo equilibrio sia stato un po’ il mio mondo e il mondo dei miei brani fino ad adesso. Vedremo con le cose nuove che sto scrivendo dove si arriverà.

Quali sono i momenti in cui ti sei sentito davvero malato?
Tutti quei momenti in cui mi sono scoperto a fare cose che non volevo fare davvero e in cui mi sono reso conto di non essermi ascoltato. Quei momenti formano quella patina di dolore che sfocia in varie manifestazioni, che possono essere attacchi di panico o principi invisibili di depressione. Per me è stato molto faticoso diventare adulto, per certi versi.

In ogni caso, il tuo primo disco ti ha portato su palchi anche importanti.
Sì, sembrava impossibile perché quando è uscito il mio progetto si prospettava la prima estate libera dalle restrizioni della pandemia, quindi c’era una coda di progetti più grossi e affermati che attendevano di suonare. Però mi sono capitate fin da subito alcune belle occasioni. Per esempio, quell’estate, sia Motta, sia Giancane, di cui sono amico perché facciamo parte tutti dello stesso contesto, chiamiamolo “scena romana”, mi hanno proposto di andare in tour con loro come autista, dato che ho lavorato spesso nelle produzioni di tour e concerti. In questo contesto mi è capitato di fare qualche apertura dei loro live, suonando voce e chitarra alcuni dei miei pezzi.

E poi c’è stata l’esperienza alle OGR di Torino.
Sì, per me è stata un’esperienza molto bella. Probabilmente è stato il mio live più emozionante. La loro produzione è stupenda e io sono onorato di essere stato chiamato, perché è un luogo che ospita artisti di calibro molto elevato, persone che si mettono in gioco nella loro arte. Io avevo già conosciuto le OGR quando ero nella produzione del tour di Motta della scorsa primavera e già da quel live mi ero reso conto di trovarmi in un luogo al di fuori della media italiana, in cui si lavora benissimo e si può ospitare molta forza e molta cultura, anche economicamente utilizzando i fondi giusti nel modo giusto, mettendo in condizione le persone di fare il proprio lavoro. É un posto difficile da definire, non sembra nemmeno di stare in Italia, sono cose che non ti aspetti nel nostro Paese. Quello che mi interessa dire è che a OGR sono stato messo in condizione di suonare nel migliore dei modi, da tutti i punti di vista, dallo staff tecnico alla comunicazione, anche banalmente nell’ospitalità. Il live in sé, poi ripreso e rivisto in video per me è stata un’arma in più: dopo OGR è stato tutto un pochino meno difficile. Io sono agli inizi e di fatto ho iniziato a manifestare che Lepre fosse un progetto live proprio grazie a questa esperienza. È stato un battesimo.

In quel live, durante il brano Mio Marito, suoni la batteria e canti indossando un vestito da sposa. Come è nata quest’idea?
É nato tutto dal video di Mio Marito. Tra le idee del regista Giacomo Bolzani per quel video c’era anche quello di riprendermi mentre correvo in solitaria. Volevamo aggiungere un elemento svolazzante per dare dinamicità alla scena e abbiamo pensato che fosse una buona idea vestirmi da sposa. Così ho poi deciso di portare quest’idea live perché quando faccio quel brano, che è un brano che parla di libertà da raggiungere in mille modi, mi piace anche che ci sia un uomo bianco occidentale di quarantacinque anni che si mette un vestito da sposa. Diciamo che è un tipo di messaggio che mi piace, al di là del fatto che scardini o meno qualcosa nel caso ce ne fosse bisogno, o che si tratti anche solo di deridere millenni di patriarcato. In generale poi piace a me e piace anche a chi mi viene a vedere, quindi ho deciso di mantenere questa idea.

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