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Leon Bridges ha portato il soul nel futuro


Con il secondo album ‘Good Thing’ ha mescolato la sua voce alla Sam Cooke con suoni hip-hop e atmosfere moderne. Abbiamo intervistato il cantautore texano per la nuova campagna di Gap, dove canta un classico di Heavy D & The Boyz

Leon Bridges in una delle immagini di "Meet Me in the Gap", la nuova campagna di Gap.

Nonostante sia cresciuto ascoltando Usher e Michael Jackson, a 25 anni Leon Bridges è stato folgorato dal soul degli anni ’60, dalla voce di Sam Cooke e Otis Redding e dal loro modo di stare sul palco. «Sono rimasto così affascinato da quel suono da volerlo ricreare alla perfezione», dice, parlando del suo esordio Coming Home, un successo che gli ha fruttato una nomination ai Grammy e l’etichetta – manco a farlo apposta – di “nuovo Sam Cooke”. Un paragone entusiasmante, ma che ha fatto sentire il cantautore di Forth Worth, Texas, come se fosse bloccato nel passato.

La “liberazione”, se così possiamo chiamarla, è chiara sin dalle prime note del secondo Good Thing, un album molto più movimentato e con suoni più contemporanei. L’operazione ha funzionato, e Bridges non vede l’ora di evolversi ancora. «Ascolto molta musica poliritmica, soprattutto africana, e sarebbe fico incorporare quei suoni nel prossimo album», dice. «Ma non devo correre troppo, voglio godermi Good Thing fino in fondo».

Abbiamo intervistato il cantautore in occasione della nuova campagna in collaborazione con Gap “Meet Me in the Gap”, per cui Bridges ha cantato una nuova versione di Now That We Found Love. «Sono cresciuto guardando i loro spot musicali, e ritrovarmi in uno di questi è folle. Now That We Found Love è un brano grandioso. Ho sempre amato Heavy D & The Boyz, e mi piace il messaggio di questo pezzo, questo amore universale anche a grandi distanze. Ed è grandioso ballarci sopra!».

Leon Bridges in una delle immagini di “Meet Me in the Gap”, la nuova campagna di Gap.

A proposito, è vero che hai iniziato come ballerino?
Sì, ho cominciato facendo quello. Da ragazzino ero fissato con Michael Jackson e con l’hip hop in generale. Quando sono cresciuto un po’, al college, ho seguito alcuni corsi di balletto classico, danza jazz e cose più moderne. È un’esperienza che adesso è molto utile, visto che devo imparare un sacco di coreografie complesse per i miei show.

Il tuo esordio discografico, però, è lontano dall’hip hop, è quasi un disco di soul tradizionale.
Sì, è vero. Quando ho scritto Coming Home ero giovane, molto giovane, e ho cercato di riprodurre quello che mi ispirava in quel periodo. Adesso sono cresciuto molto, anche come artista, e credo che il nuovo album mi rispecchi in maniera più completa.

Perché?

Non voglio legarmi a un genere, questo album è un modo per far vedere a tutti che posso fare cose diverse: suoni diversi, melodie diverse, testi diversi.

Quasi una dimostrazione di versatilità…

Sì, scriverlo è stata un’esperienza liberatoria. Ho cercato di non avere limiti, di incorporare tutte le mie esperienze. Pensa a una canzone come You Don’t Know, che ha atmosfere da discoteca anni ’70, oppure Georgia to Texas che ha tutti quei contrappunti jazz. Sono due brani molto personali, ma con arrangiamenti diversi: io voglio suonare musica che non abbia etichette.

È stato difficile vivere il paragone con Sam Cooke?

No, è un paragone che mi ha sempre lusingato. È fantastico che la mia voce ricordi quella di una leggenda come Sam Cooke. Allo stesso tempo il paragone mi ha impedito… diciamo che ha falsato la percezione che il pubblico poteva avere della mia musica. Io non sono solo un cantante retro-soul, sono tante cose diverse.

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