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Leo Pari: «Sostituire Tommaso Paradiso nei Thegiornalisti sarebbe mostruoso»

L’autore di ‘Bacia brucia ama usa’ lo dice in modo perentorio: non entrerà a far parte della band romana. «Era una fake news». Qui racconta anche come sarà il suo prossimo album e spiega perché Battisti è il fondatore dell’it-pop

Foto: Beatrice Tunisi

Con chi ti piacerebbe collaborare nel prossimo disco? «Tommaso Paradiso». Segue una fragorosa risata. Ma attenzione, perché Leo Pari è abituato a stupire. E infatti, tutto quel che è stato scritto, e cioè fiumi di inchiostro sull’imminente sostituzione del frontman dei Thegiornalisti proprio con l’autore di Bacia brucia ama usa, lo ha spazzato via in una dichiarazione lapidaria: «Sarebbe mostruoso».

I fan dovranno mettersi il cuore in pace. L’artista romano, che alle tastiere aveva condiviso i palchi di tutta Italia dal 2016 al 2019 con la band in grado di riportare il cantautorato al tutto esaurito nei live, non sarà il nuovo leader. Dopo l’ondata mediatica che lo ha investito, per quella che ha definito una fake news, lo abbiamo incontrato a Milano a margine delle registrazioni del nuovo album. Oltre a darci qualche anticipazione su un disco che «parlerà alle donne, più che parlare di donne», ci ha spiegato in che modo, tra i tre litiganti, forse sarà proprio il quarto a godere.

Inutile girarci intorno: sarà Leo Pari il nuovo frontman dei Thegiornalisti?
No! Mi sono ritrovato investito da questa fake news, che di certo non ho messo in giro io. Non so da chi sia uscita, forse dal pubblico. Mi fa piacere, anzi, ringrazio per la stima, però è qualcosa che non farei mai. Diventare il frontman dei Thegiornalisti al posto di Tommaso, che per me è un fratello con il quale ho condiviso migliaia di momenti importanti, non sarebbe razionale. Anzi, mostruoso. Non vado a letto con le ex ragazze degli amici, per intenderci. E poi come potrei cantare le sue canzoni, per quanto sono belle? È una follia, nonostante abbia suonato con loro.

Con quello che hai appena detto è chiusa in generale anche la tua esperienza nei Thegiornalisti?
Non credo. Se la band un domani si riorganizzasse, con lo stesso nome o un altro, e avesse bisogno di un songwriter sarei disponibile. È il mio mestiere: scrivere canzoni per me e gli altri. Ma prendere il posto di Tommy sarebbe come entrare in un film dell’orrore. Il giorno che è uscita la notizia mi ero svegliato tardi e ho avuto il cellulare invaso dalle chiamate e dai messaggi. Pensavo fosse uno scherzo. Quando ho visto i social, ancor di più, mi sono reso conto della portata di quel che stava succedendo.

Con Marco ‘Rissa’ Musella e Marco Primavera vi siete sentiti?
Non ancora. Il casino che si è scatenato non vorrei creasse dei malintesi con loro o Tommaso, infatti non voglio speculare e colgo l’occasione per dirlo senza giri di parole, che non sono interessato a prendere il posto di nessuno. Non so come si stanno organizzando, io continuo a fare canzoni e se mi viene chiesto di volta in volta vaglio l’opportunità e posso collaborare con chiunque.

Eppure, i fan ne erano certi. Anche perché su Instagram un po’ ci hai giocato.
Il mio Instagram in questo periodo è equivocato per qualsiasi pubblicazione. Ogni cosa che dico sembra richiamare altri significati, come Helter Skelter per Charles Manson. Ma la foto in cui ero in piscina e dicevo “calma ragazzi” era perché non pensavo a quello che si sarebbe scatenato. Di solito scherzo su tutto, sarei in grado di ironizzare anche a un funerale, ma ora si sta formando una lettura equivoca e ringrazio Rolling Stone per avermi dato la possibilità di chiarire. 

Neppure con Tommaso Paradiso vi siete fatti una chiamata?
Non ancora, però mi auguro che accada presto. Non ho un’opinione sulla sua uscita dal gruppo. Sono dinamiche loro e non sono affari miei. Il mio atteggiamento nel supportarli nei live è sempre stato molto sereno. Non ho mai sentito il desiderio di far parte della band o avere più spazio.

Quali sono stati i momenti indimenticabili con loro?
Sono stati davvero tanti. Il Circo Massimo è un apice e, senza saperlo, un grande commiato. Ho sempre lavorato con loro in un bellissimo clima di amicizia e divertimento. Gli scazzi c’erano tra loro, ma come in ogni band che si rispetti. Mi spiace per lo scioglimento, sia dal punto di vista affettivo che artistico. Sono stati quattro anni magnifici e tutti i palazzetti sold out sono stati indimenticabili. Se dovessi scegliere qualche immagine, mi porto nel cuore il 1° maggio del 2016 e il Circo Massimo del 2019. La prima e l’ultima volta che abbiamo suonato insieme.

Constatato che Leo Pari non entrerà nei Thegiornalisti, come ti definisci per chi ancora non ti conosce?
Un pazzo! Sicuramente quello che racconto nelle canzoni non è tutto rose e fiori, come nella vita. Descrivo la realtà in modo oggettivo e crudo. In definitiva sono un semplice autore di canzoni. La forma cantautore, però, mi va un po’ strettina. Mi piace affrontare lo scenario musicale sotto tutti i punti di vista: autore, interprete, producer. Ho prodotto i miei dischi e quelli di altri, come Gazelle in Superbattito. La mia tendenza naturale è di vedere la musica a 360 gradi e grazie al cielo sento di avere ancora molto da dire.

Chi critica la nuova generazione di cantautori sostiene che parli solo di amore e non di quello che succede in Italia o nel mondo. Vi vorrebbe più impegnati.
È vero che c’è una tendenza all’estrema semplificazione. Va un po’ così, forse perché alla gente riesce più semplice seguire. Ma sento forte un grande ritorno al romanticismo, perché le canzoni classiche più importanti sono sempre state d’amore. È un po’ nell’indole italiana, diverso il discorso se ci affacciamo ai vicini del rap e della trap dove si parla di tutt’altro. E non è neanche completamente vero. In una canzone oggi si può mettere un po’ tutto, anche a discapito dell’intelligibilità e della chiarezza di certi passaggi.

Passata la bufera mediatica e dopo Hotel Califano, stai preparando un nuovo disco. Puoi anticiparci qualcosa?
Il titolo non è ancora definitivo, ma sarà un disco più personale. Le influenze sono le più disparate, come al solito, ma non uso solo Spotify per ascoltare musica. Sono anche un collezionista di cd e vinili. Soprattutto italiani. Mi considero tra i fondatori di questo it-pop romano, infatti ritrovo spesso sonorità o idee che erano passate in mente a me qualche anno prima e ora propone qualcuno più giovane. Mi sento parte integrante di questa onda, ma penso di aver trovato una mia personale forma di espressione riconoscibile e peculiare. Sono contento di quello che uscirà.

Di cosa tratterà in particolare il prossimo disco?
Si parla alle donne, più che parlare di donne. Io le amo, sono importantissime. Ormai è vecchio parlare di emancipazione femminile e persino il #MeToo lo trovo un concetto sorpassato. Non ha più senso neanche fare differenza tra uomo e donna, visto che per fortuna ci sono tante vie di mezzo. Trattando dell’universo femminile, poi, indirettamente parlo di noi uomini. Adoro osservare l’universo femminile, sia in positivo che in negativo e un uomo può parlarne più facilmente nelle canzoni perché lo conosce meno, quindi l’esercizio affascinante da scrittore è cercare di spiegare questa realtà aliena.

Sei sempre stato abituato a sperimentare nella musica, sarà così anche per questo disco?
Sarà molto diverso da quello precedente, perché più un disco di canzoni. Rispetto a Hotel Califano, che era una digressione elettronica, dance, disco e house, tornerò a fare quello che ho sempre fatto: canzoni con ritornelloni e strumenti suonati. In altri album sono andato un po’ più a braccio, seguendo basi e beat per lasciarmi trasportare. Con una scrittura quasi da rapper. Questi pezzi invece sono tutti nati di notte. Sono sentiti, sinceri, personali e di cuore.

Niente elettronica, quindi?
Come no? Non sarebbe possibile. Sono un amante dei sintetizzatori. Le sonorità saranno ibride. Mi sembrerebbe assurdo non utilizzarli oggi, alle soglie del 2020, come andare in giro con una macchina d’epoca. A me piace il suono del momento. Strumenti sì, ma con l’elettronica.

Con chi vorresti collaborare in futuro?
Di italiani? Con Tommaso Paradiso! (Scoppia in una fragorosa risata, nda). Detto adesso fa ridere, ma è così. Oppure con Lucio Battisti, peccato non sia possibile. Fra gli stranieri, su tutti Kevin Parker o Travis Scott. Mi affascina il mondo del rap americano un po’ underground, per modo di dire perché fa comunque numeri pazzeschi, che però sperimenta suoni acidi, moderni, nuovi. Peccato che nella nostra lingua certe cose non calzano per niente.

In una intervista a Tommaso Paradiso hanno chiesto come si costruisce un ritornello perfetto. Non è che sia stato così chiaro. Per te come avviene quella magia?
Si chiudono gli occhi e si fa uscire qualcosa dalla bocca seguendo quello che provi. Deve emozionare te per primo e poi gli altri. Non c’è mai niente di certo, ma se non ti convince all’inizio è difficile che lo farà in futuro. Scrivo tanto da solo e con altri. In generale mi applico, mi esercito parecchio. Forse perché non è che mi piaccia fare tante altre cose nella vita. Il mio lavoro è anche la mia passione. Non è mai un peso mettermi al pianoforte e quando mi ci metto è perché ho già un’idea e sono costretto a tirarla fuori e darle una forma per non impazzire. Di solito l’ispirazione mi viene più facilmente quando vado a correre, senza cuffie nelle orecchie. Torno a casa con blocchi interi di canzoni. Parto dalle parole e poi cerco di accompagnarle con una melodia.

E da produttore, il primo consiglio che dai a un giovane?
Di non cercare solo il ritornello. Non si può fingere, ti sgamano subito se ce stai a provà. C’è anche chi è bravo a provarci con sincerità, ma è molto raro. Comunque, a chi si mette per la prima volta a scrivere una canzone, direi semplicemente di dire quello che prova. Parla di te, anche se non in prima persona, ma tira fuori qualcosa che ti riguarda.

Qual è il tuo rapporto con il successo?
Per ora non sono stato investito da una forma di successo che non ti permette di fare due passi per la città. Non l’ho mai ricercato. Non lo trovo un punto di partenza o un punto di arrivo. A me interessa fare le mie cose al meglio, registrando bene, con ottime collaborazioni e poi ben venga quello che accade. Del resto, di quel tipo di notorietà non me ne faccio nulla.

E il tuo rapporto con i soldi?
A me piacciono. Trovami qualcuno a cui fanno schifo. Certo, non sono tagliato per fare economia. Non si può dire che guadagno male, però spendo solo in vestiti e strumenti musicali.

Nelle tue canzoni sono spesso descritti gli eccessi. Tutto autobiografico?
In questo periodo sono molto sereno e pulito. Ci sono momenti in cui si possono fare delle follie, altri in cui è bello stare in pace con se stessi. Sono in una fase in cui ho tanta voglia di fare, conoscere, provare cose nuove. Non mi sento di dare consigli su questo argomento, visto che di cazzate ne ho fatte tante. Eccessi sì, ma con la testa sulle spalle. «Faccio un sacco di sbagli, li racconto nelle canzoni», come ho scritto su Instagram. È l’unica risposta che saprei darti.

Cosa ti fa più incazzare nella vita?
Le voci di corridoio, come quella che è stata messa in giro sui Thegiornalisti. Generalizzando, però, le ingiustizie. Non c’è niente che mi causi un rodimento come qualcosa che è ingiusto, nei miei confronti e in quelli di altri. Non riesco a stare zitto. Può essere un limite, perché chi sta zitto campa cent’anni, ma a me non riesce. Basta aprire il giornale ogni giorno e ci trovi una serie di soprusi.

Però torniamo ai detrattori, che vi accusano di non parlare abbastanza della società.
Alcuni sono più immersi in queste tematiche politiche, come Lo Stato Sociale o Willie Peyote. Io no, perché vieni etichettato. Ti schieri e il tuo discorso è meno generalizzabile. Ma anche attraverso l’amore si può fare politica. Basta una parola, messa al posto giusto, che ti fa capire come la penso. Per lanciare un messaggio non devo per forza trattare di attualità, semplicemente si trova un modo differente per descrivere una società come quella attuale ormai alla frutta. Oggi i nuovi cantautori stanno provando a sperimentare un nuovo linguaggio, per spostare il canone del bello per come lo abbiamo conosciuto finora, creando qualcosa di completamente inaspettato. Per me, già il fatto che qualcosa sia nuovo contiene una qualità positiva.

I numeri per ora vi danno ragione.
Negli ultimi 2-3 anni si è tornati ai concerti come nei primi anni ’80. Sta riaccadendo dopo tanto tempo. I palazzetti dello sport chi se li immaginava di riempirli? Nonostante il web o i social, la gente ha una voglia matta di vedere i propri artisti preferiti dal vivo.

Forse è più in crisi la forma disco, non credi?
Me lo dicono in tanti, ma io sono ancora legato all’album. Lo trovo fondamentale per un cantautore. In tutti i suoi aspetti: le note, la copertina, il suono di ogni singola traccia. È vero che i singoli vengono lanciati come se fossero album, visto che viviamo di playlist, però alla fine dopo i vari singoli è bello produrre un disco che diventi anche un vinile. Hanno numeri inferiori al passato, ma è bello che ci siano, da comprare e tenere in ordine negli scaffali.

Mi dicevi che ti senti tra i fondatori della scena romana. Come la si potrebbe definire?
Tutto quello che è forte in musica oggi viene da Roma. È un mosaico che si forma in una Capitale in totale decadimento. Nei momenti peggiori di una cultura, scatta lo sviluppo di un movimento di reazione. A Roma c’è stato un periodo molto buio, tutto sembrava succedere a Milano. Non è stata una cosa indotta, ma che è scaturita naturalmente. Per adesso, evidentemente, lo zeitgeist del pop italiano si è fermato intorno al Colosseo.

E chi è il riferimento, cioè quell’artista che vi accomuna tutti?
Ancora e instancabilmente Lucio Battisti. Altri autori hanno lasciato un’eredità diversa, raccolta più altrove. Nel suono romano, invece, c’è molta voglia di pop e l’unico in Italia a fare pop è stato Battisti. La sua attenzione per il suono l’ha avuta solo Franco Battiato, ma con direzioni diverse. Il resto del cantautorato è caratterizzato da figure come De André, che però si è ispirato alla scuola francese. L’ho sempre trovato poco italiano. Non è una critica, De André andrebbe studiato a scuola per i testi, però Battisti è la parte pop dell’Italia. Insieme a Mogol, sono i due artisti che hanno dimostrato che nelle canzoni non si deve per forza parlare di politica per fare politica, ma che anche il quotidiano è rappresentativo dello stato in cui versa una società. Insomma, Battisti e Mogol sono i fondatori dell’it-pop.

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