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Leftfield: «Fare musica brutta è molto più semplice con tutta questa tecnologia»

Con il loro suono hanno fatto la storia della musica elettronica, in particolare di quella made in UK. Per l'uscita del nuovo disco abbiamo intervistato Neil Barnes, metà del progetto

Foto: Gullick

Essere dei pionieri nella musica elettronica, l’universo sonoro che, più di ogni altro, invecchia con una certa rapidità, non è di certo semplice. La storia dell’elettronica, infatti, è anche e soprattutto storia dello sviluppo tecnologico – come dimostrano i grandi cambiamenti che negli ultimi 30 anni hanno stravolto il genere, rendendone più semplice e democratico l’ingresso, tanto nella produzione domestica quanto nella distribuzione globale – e per questa ragione è molto semplice che un sound considerato cool diventi, a stretto giro, vecchio, già sentito, superato.

I Leftfield sono stati i pionieri del suono UK uscito negli anni ’90, mettendo a segno un paio di album seminali come Leftism e Rhythm and Stealth, prima di separarsi definitivamente nel 2002. Il duo, formato originariamente da Neil Barnes e Paul Daley, ha segnato il suono di quell’epoca diffondendosi endemicamente tra film (Trainspotting, The Beach), pubblicità (Guinness) e videogiochi (Wipeout, F1 2000) unendo in sé generi come UK rave, techno, house, drum’n’bass, dancehall creando un sound peculariare e incoparabile, unico nella scena. Il progetto è rinato nel 2010 con una serie di attività live che si sono infine concretizzate nell’album Alternative Light Source del 2015. Ad affiancare Brames, da quel momento, è presente Adam Wren, visto che Paul Daley, pur benedicendo la prosecuzione del progetto, ha preferito dedicarsi alla propria carriera solista.

In occasione dell’uscita di This Is What We Do, il nuovo disco del duo, abbiamo raggiunto Barnes in videochiamata in una particolare giornata di sole di una Londra novembrina. per farci raccontare come si può essere ancora rilevanti, nel mondo dell’elettronica, a trent’tanni dall’esordio.

Dal vostro ultimo disco, Alternative Light Source, sono passati sette anni. Storicamente avete fatto trascorre sempre molto tempo tra le vostre uscite. quando decidete che è il momento per un disco?
Questo disco ha iniziato a prendere forma nel 2019, ma è quello che ha avuto la gestazione più corta nella nostra carriera. Sarà stato per via del Covid. Abbiamo lavorato a delle demo che poi ciclicamente riprendevamo e provavamo a migliorare. È stato un lavoro di costruzione graduale, un pezzo alla volta. È difficile capire quando hai abbastanza materiale, o semplicemente quello giusto, per un album. Arriva una sorta di sensazione che però te lo fai capire; a volte sei semplicemente felice del gusto che ha preso.

La storia della musica elettronica è anche una storia di evoluzioni tecnologiche. Come è cambiato il vostro approccio dagli anni ’90 a oggi?
La tecnologia è avanzata così tanto che ho più potenza oggi sul mio smartphone che nei computer dove abbiamo iniziato a far musica. Ma il processo con cui lavoro è rimasto lo stesso. Ora è tutto a portato di mano, tutto è raggiungibile, è vero, ma jammare, creare loop, modificare le tracce non è cambiato, almeno nella sua essenza. C’è una sorta di filtro interno che si attiva quando lavori ha una traccia e ti fa porre delle domande: l’ho già fatto prima? È un’idea nuova? La tecnologia mira ad aiutare il musicista a darsi queste risposte, ma posso dire con certezza che oggi è molto più facile fare della brutta musica. Questo è evidente. Fare bella musica è difficile, oggi come ieri. Quello che conta sono le idee, sempre.

Proprio a causa di questo rapido sviluppo tecnico, il suono nella musica elettronica tende ad invecchiare presto. Voi siete sulla scena da trent’anni, come vi relazionate a questo? Avete paura di suonare vecchi?
Il mio approccio, e quello di Adam, è di continuare a fare musica interessante per noi. La musica elettronica oggi è ovunque, non è più una cosa relativamente nuova come negli anni ’90 quando abbiamo iniziato noi; lì era una situazione molto differente. Ai tempi l’elettronica non era in controllo delle major, ma in mano a giovani artisti indipendenti. Io posso ancora entusiasmarmi con un giro di basso e penso che per questo ci siano ancora molto da dare al genere. Mi entusiasmo ancora di cose per cui perdevo la testa da ragazzino. Il punto è quello che ti dicevo: continuare ad avere buone idee, continuare ad avere un senso.

Tu sei stato un pioniere di questo genere e immagino che tu abbia una certa pressione – interna ed esterna – di continuare su certi standard, anche di innovazione.
Sì, quella pressione esiste ed è una realtà, soprattutto oggi che è così difficile ‘esistere’. Non mi trovo bene con questa pressione o con l’ansia di dover far rientrare i Leftfield in certi canoni, in particolari mondi. Non voglio fare i dischi che ho già fatto, che la gente si aspetta. Io faccio il dj, e spesso chi viene a sentirmi si aspetta che io metta i dischi dei Leftfield o roba di quel primo periodo: vogliono la nostalgia. La nostalgia ti fa sentire bene, ti fa dire ‘i miei tempi erano meglio di questi’. Ma non è quello che voglio, non è quello che voglio fare con Leftfield: voglio solo fare buona musica.

Hai sempre avuto questo pensiero a riguardo o lo hai sviluppato lungo la carriera?
Non mi è mai piaciuto il mondo attorno alla musica. In passato, certo, abbiamo flirtato con il pop, o con i grandi festival, suonando tracce vecchie, ma è sempre una lotta per me. Vorrei suonare roba nuova. Il materiale vecchio è buono, mi piace, ma preferisco essere motivato nel guardare avanti.

Questo nuovo disco, This Is What We Do, è bello dancefloor-oriented…
Menomale

L’obiettivo era riconquistare la pista?
Assolutamente sì. Sai, è comunque un impegno complesso perché ci vuole molto tempo a fare un disco e spesso il suono giusto per il dancefloor cambia molto in fretta. Ma l’idea dietro cui nasce questo lavoro è proprio il dancefloor, uno strano luogo che immagino nella mia testa.

Andare a ballare è sempre stato un modo per affermare se stessi, conquistare delle libertà, scappare dalla vita quotidiana. Pensi che abbia ancora questo valore oggi?
È ancora un posto dove la gente vuole scappare dalla normalità, ed è un bene che continui. E io apprezzo che sia così, un luogo dove chi ha una vita intensa o un lavoro asfissiante può trovare spazio per se stesso.

Negli ultimi dieci anni però la cultura del dancefloor mi pare molto cambiata.
È cambiata la cultura dei dj, questo ha modificato tutto. Quando ho iniziato il dj non era la star, quasi scompariva nel locale, non sapevi dove fosse. Ora il pubblico si aspetta di vedere il dj. Prima era anonimo, ora è il protagonista. Per me il dancefloor però dovrebbe essere un luogo anonimo dove non c’è una star e le persone possono perdersi. Ora le persone si aspettano certe cose, alzano le mani tutte nello stesso momento, guardano fissi al dj. Ora il dj comanda tutto, è diventata una forza dominante che sovrasta anche la cosa più importante: la musica.

Ho letto in alcune tue interviste che mentre componi un album ascolti molta musica contemporanea. È una dichiarazione che mi ha colpito perché gli artisti spesso raccontano di isolarsi da ciò che sta accadendo per non farsi influenzare. Come funziona per te?
I miei ascolti sono una combinazione tra cose nuove e altre senza tempo. Essendo un dj, sai, ascolto musica nuova, di continuo, è parte del mio lavoro. Oltretutto ascoltare musica altrui è importante, amo farlo, è sempre un’ispirazione, ti fa stare in contatto con ciò che accade e ti fa riflettere se quello che stai facendo in studio ha senso con quello che ci sta fuori. Sapere quanta bella musica stanno scrivendo altre persone per me è fonte d’ispirazione. Anche fare comparizioni mi è utile. Però, ecco, è anche importante avere dei momenti in cui non si ascolta musica del tutto.

E cosa ti ispira nella musica contemporanea?
La scena clubbing underground. Solamente più etichette che artisti, ma se devo farti dei nomi direi Overmono e Bicep per il loro modo di fare crossing di generi differenti. Ma anche i locali sono una fonte di ispirazione abbastanza forte, poste dove puoi sentire ottimi dj o dove puoi permetterti di fare dei dj set più sperimentali.

Nella vostra carriera avete più volte coinvolto dei vocalist, ma in questo album avete chiamato Grian Chatten dei Fontaines D.C.; come è nata questa collaborazione?
Gli artisti con cui collaboriamo sono sempre musicisti di cui sono fan e questa collaborazione ne è un esempio. Seguo i Fountains DC e Grian Chatten è un cantante e poeta che ammiro e a me piace inserire passaggi poetici nei dischi dei Leftfield. Quindi gli ho mandato una demo e lui ha accettato.

In trent’anni immagino ci siano state anche tante collaborazioni che, per i più disparati motivi, non sono riuscite ad andare in porto.
Sì, ci sono una marea di cose che vorresti fare e non accadono. Succede sempre, è pieno di idee che muoiono per i motivi più disparati.

L’anno prossimo tornerete in tour; siete ancora fissati con il fatto di suonare a folli di volume?
Sì, assolutamente.

Come vi approcciate per portare la vostra musica in un contesto live?
Questa domanda è la sintesi di tutta l’intervista, è la cosa più importante. L’approccio è quello di remixare tutto per un ambiente differente dall’ascolto, in cui la cosa fondamentale è far ballare. E per arrivare a certi risultati ci facciamo molto aiutare con la tecnologia. E poi, certo, continuano a piacermi i grandi impianti dove poter suonare a volumi alti. L’obiettivo è far divertire le persone, farle godere. Questa è l’unica cosa che conta.

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