La lunga notte di ‘We Are the World’ raccontata dall’«arma segreta delle session» | Rolling Stone Italia
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La lunga notte di ‘We Are the World’ raccontata dall’«arma segreta delle session»

Tom Bahler è l’uomo che ha assegnato le parti alle superstar. Qui spiega come gli sono venuti certi abbinamenti e parla del disagio di Dylan e della presunta rivalità fra Michael Jackson e Prince

La lunga notte di ‘We Are the World’ raccontata dall’«arma segreta delle session»

Lo spartito di ‘We Are the World’ autografato dagli artisti

Foto: Gareth Cattermole/Getty Images

Corista al Comeback Special di Elvis Presley, co-autore di She’s Out of My Life di Michael Jackson, arrangiatore delle voci di An Innocent Man di Billy Joel, collaboratore di Quincy Jones: Tom Bahler ha avuto una carriera incredibile. Per come la vede lui, che oggi ha 80 anni, l’apice lo ha raggiunto nel gennaio del 1985, quando Jones l’ha chiamato per curare gli arrangiamenti vocali delle superstar di We Are the World.

In occasione del nuovo documentario sulla canzone, La notte che ha cambiato il pop, Bahler ha raccontato come è andata nell’ultimo episodio del podcast Rolling Stone Music Now.

Quincy ti ha sempre definito l’arma segreta delle session.
Ci coprivamo le spalle a vicenda. È stato Ken Kragen a mettere in piedi tutto quanto. Ha chiamato Lionel, e poi Quincy, che ha chiamato me. Una delle cose che più mi è piaciuta è quando, una o due sere prima di registrare, siamo andati a casa di Lionel: eravamo lui, Ken, Quincy e io. Non eravamo certo tipi da pensare a cosa poteva andare storto, ma nessuno aveva mai radunato nella stessa stanza 46 artisti, fra cui anche molti grandissimi. Stevie Wonder appena ti distrai un secondo inventa qualcosa e di sicuro è buono. Il problema è che poi si crea il caos. Anche Diana Ross è così: intelligentissima, sempre sul pezzo, se c’è un momento morto, lei lo riempie. Cyndi Lauper era un’altra da tenere d’occhio, è una di quelle che non vogliono che le si dica cosa fare, ma è una cantante e un’artista meravigliosa. Quindi ci siamo messi lì e abbiamo pensato: «Cosa potrebbe andare storto? Troviamo le soluzioni». Se vuoi la pace, prepara la guerra.

Michael Jackson è una delle forze creative dietro la canzone. Tu avevi già lavorato con lui alla fine degli anni ’70 e poi negli ’80. C’è qualcosa di lui che sfugge alla gente, come musicista e artista?
Ho imparato tantissimo da lui, era l’artista più preparato con cui abbia mai lavorato, ma era anche molto timido. Quincy l’ha sbloccato. Alla Motown c’erano solo due persone a cui era consentito esprimersi e contribuire con le proprie idee: Marvin Gaye e Stevie Wonder. Michael continuava a dire: «Potremmo…» e si sentiva rispondere: «No, fai quello che ti viene detto». Michael era di un altro pianeta, super competente, bravissimo. Ricordo che, ai tempi di The Wiz, aveva imparato a memoria le parti di tutti. Quincy lo proteggeva e lui non era abituato a essere difeso da gente più grande. Era bello lavorare con lui.

Tom Bahler. Foto: Netflix

Qual è stata la prima cosa che ti hanno detto a proposito di We Are the World?
Mi ha chiamato Quincy: «Ho appena parlato al telefono con Ken. Hai presente Do They Know It’s Christmas? È un gran pezzo, ma a marzo nessuno vorrà più ascoltarlo. Hanno sbagliato e Bob Geldof lo sa». Così Ken ha chiesto a Lionel di scrivere una canzone con Michael. «Devi occuparti tu della parte vocale», mi ha detto, «perché la registreremo con un sacco di gente subito dopo gli American Music Awards». Avevo già lavorato con almeno la metà di quei cantanti, Ken mi ha mandato i loro dischi.

Il tuo compito era decidere chi avrebbe cantato cosa. Quali sono stati i primi passi compiuti per creare l’arrangiamento vocale?
Quincy mi ha fatto due sole richieste. Uno: visto che Lionel era il primo autore della canzone, la sua avrebbe dovuto essere la prima voce che si sente. Due: dato che Michael ha contribuito a scriverla, l’attacco del primo ritornello doveva essere suo. E poi, e questo è tipico del suo senso dell’umorismo: «Penso anche che dovresti far entrare Diana Ross subito dopo Michael, perché c’è chi crede che quei due siano la stessa persona». Tutto il resto lo avrei deciso io.

La prima cosa che ho pensato è stata che, con la voce cristallina di Michael nel primo ritornello, volevo per il secondo un timbro ruggente, quindi il Boss. Dopo Lionel ho pensato che mi sarebbe piaciuto sentire Stevie. Di Tina Turner volevo sfruttare le tonalità basse, calde e pastose. Così ho scritto la sua parte nel registro basso. Quincy, guardando lo spartito, era scettivo: «Non credo che Tina ci possa arrivare con la voce». È stata l’unica cosa che ha messo in dubbio.

Il passaggio più estremo di tutta canzone è quello da Dionne Warwick a Willie Nelson: come ti è venuto in mente?
D’istinto. Ho sentito lei e poi ho immaginato lui. Onestamente volevo Willie perché aveva cantato She’s Out of My Life e le mie incisioni preferite di quel pezzo sono quelle di Michael e di Willie. È uno puro.

Avevi previsto molto ottimisticamente una parte per Prince, anche se non aveva ancora accettato di partecipare.
Volevamo Prince, ma avevo la sensazione che avesse un problema con gli uomini. Faceva tutto con le donne. Lo faceva stare bene. Ma non è vero che lui e Michael si detestavano. Michael si trovava bene con lui e l’avrebbe voluto in Bad.

Prince ha detto che non voleva cantare il verso “your butt is mine”.
Credo fosse una scusa. Secondo me aveva paura di Michael, ma è solo una congettura. Di certo Michael non aveva paura di lui. Non aveva paura di nessuno. Voleva bene a tutti.

La gente è andata in fissa per il disagio di Bob Dylan durante la session.
Lo capisco perfettamente. È abituato a lavorare da solo e non si considera un cantante. Ok, sa cantare, ma a modo suo. E all’improvviso siamo arrivati noi a dirgli: «Ora devi cantare questo verso». Una delle cose più divertenti della serata è stata quando Stevie gli ha cantato la sua parte. E Bob ha detto: «Ok, va bene». È stato Stevie a ricordare a Bob chi era.

Da Rolling Stone US.