Per sei anni e mezzo Andrew Watt ha parlato praticamente ogni giorno con Ozzy Osbourne. L’ha fatto anche il giorno prima che venisse stroncato da un infarto, a luglio. «Era tutto normale», dice, «è stato scioccante sapere della morte il giorno dopo».
Il rapporto fra i due s’è consolidato quando il musicista e produttore ha lavorato agli ultimi due album di Ozzy Ordinary Man del 2020 e Patient Number 9 del 2022. Secondo Watt, Osbourne gli ha aperto una porta, consentendogli di lavorare poi con Rolling Stones, Lady Gaga e altri.
Com’è stato suonare a Back to the Beginning?
Incredibile. Se ci ripenso, mi sembra un sogno. Tutto l’ultimo mese della sua vita lo sembra. Ero a Londra per lavorare a un progetto, sono andato a Birmingham e c’era questo grande servizio fotografico con tutti quanti. Pazzesco, c’era anche Jake E. Lee, che non vedeva Ozzy da 30 anni e poi gente che aveva conosciuto in ogni fase della sua vita e musicisti che apprezzava. E insomma c’era questo bellissimo servizio fotografico che stava facendo Ross Halfin e Ozzy lo mandava a fare in culo di continuo e lui rispondeva mandando affanculo Ozzy. È stato divertente e bellissimo. Sembrava la colonia estiva dei metallari. E poi siamo stati insieme tutti i giorni con Sharon, Jack, Kelly e gli altri… Ricordo che la sera prima del concerto sono uscito con Sharon per un curry, perché è quello che si mangia a Birmingham. Ne abbiamo portato uno in hotel a Ozzy. Abbiamo passato un sacco di tempo a chiacchierare. Abbiamo passato un paio d’ore nella sua stanza la sera prima del concerto. (Pausa) Mi è difficile parlarne.
È stato un po’ come perdere un familiare.
Sì. Lui vedeva in me qualcosa che io non vedevo ed è una cosa che ti dirà chiunque gli abbia voluto bene e sia stato abbastanza fortunato da essere ricambiato. Sapeva vedere in te il bene, il male, ti vedeva per quello che sei veramente. Aveva qualcosa di stregonesco questa cosa. Spesso sapeva le cose prima che accadessero, aveva un sesto senso incredibile. Si stava riprendendo dall’infortunio (la caduta in casa, ndr) quando abbiamo fatto quei dischi. Per la prima volta in vita mia mi sono reso conto che fare musica non significa solo fare fare canzoni. Gli stava dando uno scopo di vita in un periodo in cui stava male, lo faceva sentire alla grande, lo faceva ridere, cantare, ballare, era una forma di guarigione. Quei due album sono stati incredibili, sono il motivo per cui sono oggi, a parlare con te.
Perché ti hanno cambiato la carriera.
Hanno cambiato tutto per me. È stato lui a considerarmi un vero produttore. Fino a quel momento non avevo lavorato ad album interi. Avevo collaborato a un paio di dischi, ma mai in quel modo. E lui ha capito che ero in grado di farlo. Era un sogno che si avverava, per me. Mi ha dato fiducia e mi ha insegnato tanto su come mixare il rock. Credeva in me. Mi ha lasciato suonare la chitarra nei suoi dischi e questo ha dell’incredibile. Eravamo importanti l’uno per l’altro, sia come collaboratori che come amici. E, cazzo, più di ogni altra cosa mi mancano le risate. È la persona più divertente di tutti i tempi.
Cosa ti ha insegnato nello specifico sull’arte del mixing?
Stiamo parlando di uno che ha registrato Paranoid quand’aveva 21 anni e che ha avuto una carriera di 55 anni ai massimi livelli. È una delle persone più intelligenti che abbia incontrato, un appassionato di storia e un genio, un vero genio. Il suo personaggio pubblico era per l’appunto solo un personaggio. Era incredibilmente brillante e acuto. Aveva orecchio. Sembrava che non stesse ascoltando e invece sentiva tutti. Magari eravamo in studio ad ascoltare qualcosa, lui stava scarabocchiando e io pensavo: «Mmm, non sta veramente ascoltando». E invece poi diceva una qualche frase che colpiva nel segno, in modo positivo. Mi diceva sempre: «Ascolta i Led Zeppelin e dimmi qual è la cosa più forte». E io con la mia bella sicurezza rispondevo: «È la batteria, è John Bonham». E lui: «Non è la batteria, è il basso».
Avrei detto anch’io la batteria.
Lui diceva che in un pezzo rock il basso è la cosa più importante. Che devi assicurarti che sia presente, che pompi, che passi, che dia ritmo perché è il ponte tra batteria e chitarre. È il basso che rende il pezzo heavy, che fa in modo che le chitarre vengano fuori se le mixi nel modo giusto. Il basso è difficile da tirare fuori e al tempo stesso rappresenta la profondità. Quando mixavamo era molto concentrato sul basso, voleva assicurarsi che emergesse. Difatti se ascolti i dischi che abbiamo fatto assieme c’è tantissimo basso. Under the Graveyard ha tantissime frequenze basse, vattela a risentire. Si occupava di ogni dettaglio di ogni singolo mix, questo per dire quanto ci teneva.
Avete inciso cose rimaste inedite? C’è qualcosa negli archivi?
(Fa una pausa). Di questo non posso parlare.











