Lars Ulrich e l’arte di invecchiare facendo headbanging | Rolling Stone Italia
Lux più o meno Æterna

Lars Ulrich e l’arte di invecchiare facendo headbanging

«Abbiamo 60 anni e non lo nascondiamo: lo celebriamo», ci ha detto il batterista dei Metallica. E poi: la resa di ’72 Seasons’, la vita sana per reggere i concerti, il metal che non è più mainstream, fare dischi anche se nessuno li ascolta

Lars Ulrich e l’arte di invecchiare facendo headbanging

I Metallica dal vivo nel 2023

Foto: Christian Petersen/Getty Images

Ai tempi del debutto dei Metallica, Lars Ulrich aveva 19 anni. Da allora ad ogni album i quattro speravano che il mainstream si accorgesse di loro. È successo nel 1991 col Black Album e pezzi come Enter Sandman e Nothing Else Matters. Tutti i dischi che hanno pubblicato in seguito sono arrivati al numero uno o due della classifica americana e, di recente, Master of Puppets è stata riscoperta grazie a Stranger Things.

Oggi il batterista ha 59 anni e picchia ancora come un dannato nell’ultimo album dei Metallica 72 Seasons, mentre i compagni di band sfoderano riffoni e cantano delle difficoltà legate alla crescita. Il titolo si riferisce ai primi 18 anni di vita di una persona, e canzoni come Lux Æterna, Too Far Gone? e 72 Seasons mettono in campo tutto lo spleen e l’incazzatura tipici del gruppo.

In una chiacchierata fatta prima dell’esibizione della band al Power Trip, Ulrich spiega che i Metallica suonano in questo modo, in parte, perché si sentono a proprio agio con la loro identità e sono perfettamente consci delle loro capacità. «In passato, in diversi dischi, abbiamo fatto degli esperimenti, ma credo che i nostri ultimi tre lavori rispecchino sempre più quella che è la nostra comfort zone. È per questo che tutto è molto naturale».

Avere festeggiato da poco il vostro 40esimo anniversario. Come vi è venuta l’idea di fare un album come 72 Seasons?
Pubblicare nuova musica, al giorno d’oggi, è sempre una sfida e anche un po’ una scommessa. Ti chiedi sempre perché lo fai e chi t’ascolterà. Abbiamo accettato il fatto che abbiamo bisogno di scrivere musica, di fare dischi per mantenere il nostro equilibrio mentale, per il nostro benessere, per vivere. Sarà sempre una parte importante di ciò che siamo come persone. So che molti artisti in giro da un sacco di tempo stanno mettendo in dubbio la validità o l’importanza di fare nuovi album. Io invece penso che continueremmo a farne anche se nessuno li ascoltasse. Essere creativi è una necessità.

I semi dell’album sono stati gettati durante il lockdown, nell’incertezza di quel periodo: è stato un inizio impegnativo per il progetto. Con la consapevolezza della situazione generale, senza aspettarci che qualcuno ascolti i nostri album e non sapendo nemmeno cosa significhino i dischi al giorno d’oggi, abbiamo notato che amici, fan, coetanei e persone di cui rispettiamo e apprezziamo l’opinione hanno accolto questo lavoro in modo a dir poco positivo e incoraggiante. La risposta a questo disco è probabilmente la migliore che abbiamo avuto da quando abbiamo iniziato a lavorare col produttore Greg Fidelman: Death Magnetic, Lulu, Through the Never, Hardwired

I vostri fan sembrano contenti che dopo tutti questi anni suoniate ancora musica veloce e da headbanging.
Pare che questo disco abbia davvero fatto centro con la sua energia, la sua potenza, i testi e gli argomenti trattati, con l’idea delle 72 stagioni come fil rouge. Credo che la gente sia colpita anche dalla vulnerabilità e da come parliamo apertamente dell’invecchiamento. Due di noi sono poco più che sessantenni e due stanno arrivando alla soglia dei 60 e non facciamo nulla per nasconderlo: anzi, lo stiamo celebrando. Quindi, se si tiene conto di tutti questi elementi, l’accoglienza è andata ben oltre le più rosee aspettative.

L’età è un tema importante in 72 Seasons. Pensi che parlare di quando si arriva ad avere una sessantina d’anni abbia aperto un nuovo fronte di dialogo con i fan?
Non credo che ci sia stata un’apertura che ha sostituito una qualche chiusura. Piuttosto continuiamo a dare priorità all’onestà, nel bene e nel male, e alla trasparenza. Man mano che invecchiamo e percorriamo il cammino della vita, sia individualmente che insieme, come band, ci piace condividere i nostri pensieri a proposito di tutto ciò che capiamo o non capiamo, e tutte le prospettive diverse a cui si va incontro maturando. Coi nostri fan abbiamo un dialogo molto limpido. Quando si invecchia, non si deve fingere di aver trovato la fonte della giovinezza, né riposare sulle glorie del tempo che fu: c’è sempre un percorso da seguire. Anche 40 anni dopo, io penso sempre al futuro.

Pezzi come Lux Æterna e Too Far Gone? sono velocissimi. Come si spiega il fatto che i Metallica resistono e continuano a suonare thrash, mentre altri artisti vostri coetanei rallentano?
Non ci sentivamo così bene da diverso tempo. Ovviamente, la nostra musica da sempre ci impegna molto, a livello fisico, e ci sono momenti in cui ci sentiamo più in forma rispetto ad altri. Per quanto mi riguarda, quando abbiamo ricominciato a fare concerti dopo lo stop per la pandemia, mi sono reso conto che tenersi in forma, stare in salute e fare scelte di vita sane sono le cose migliori per mantenere una buona condizione fisica. Suonare queste canzoni dal vivo è divertentissimo. Siamo noi a condurre, non loro. Alcuni artisti preferiscono non registrare una canzone se poi non può essere riproposta dal vivo… noi finora abbiamo rifatto otto brani su dodici del disco, ma abbiamo capito come adattarli tutti alla situazione live e ne siamo molto soddisfatti.

Metallica. Foto: Tim Saccenti

Pensi che siano stati fatti dei passi avanti, dal punto di vista creativo, con 72 Seasons?
Sono fiero della forza implacabile del disco, che è frenetico senza sembrare artificioso, forzato o unidimensionale. Man mano che arrivavano le canzoni, percepivo che nel songwriting si stava sviluppando un’energia che abbiamo poi catturato nella registrazione. Un altro elemento emerso in molti commenti che ho ricevuto riguarda il suono dell’album. Conosciamo Greg da 16 anni e ci fidiamo reciprocamente. Ognuno di noi quattro, singolarmente, ha dedicato parecchio tempo ad assicurarsi che il suo strumento suonasse come voleva, quindi la definizione dei suoni è stata lunga. Ma non credo di avere quasi mai parlato con lui di come doveva suonare la batteria: questo perché ci conosciamo a fondo. Rispetto ai dischi precedenti, Greg non si è concentrato solo su ciò che funzionava per ciascun membro, ma anche a livello di sound del gruppo, nel complesso. Sono piacevolmente sorpreso dal fatto che molte persone abbiano commentato molto positivamente il suono di questo disco, ascoltato con gli AirPod di Apple o con qualsiasi altro tipo di cuffie, ma anche in salotto, come nelle vecchie pubblicità della Memorex. È fantastico.

A proposito di suono, cosa succede alla fine di Inamorata, quando si sente uno di voi parlare del “best button”. È l’ultimo istante del disco. È qualcosa che ha a che fare con la registrazione?
Button è la parola che usiamo per indicare la fine di una canzone. Quindi l’ultima frazione o l’outro di un pezzo sono il button. Se parli con dieci artisti diversi, probabilmente sentirai dieci termini gergali diversi e altrettante spiegazioni stravaganti su come chiamano le cose, quando lavorano.

Nell’album avete anche sperimentato delle sonorità nuove. Le armonie vocali di You Must Burn sono misteriose e inquietanti.
Volevamo qualcosa di etereo o sognante per quella parte, in contrapposizione a ciò che accade nel resto della canzone. Avevamo in mente qualcosa che non sembrasse tanto una parte vocale, un middle eight, ma un elemento d’atmosfera. Robert [Trujillo] si è fatto avanti e ha dato il suo contributo, che ha un suono tutto particolare, sia dal punto di vista creativo che dell’esecuzione.

Come sono mutate le canzoni da quando avete iniziato a suonarle dal vivo?
Come è ovvio, abbiamo fatto qualche ritocchino alle dinamiche, soprattutto nelle intro… una pausa più lunga qui, una più corta là. Ma niente di sconvolgente. Scrivi la canzone, la registri, poi decidi di suonarla. La reimpari e cominci a farla dal vivo. Per ora siamo arrivati a otto, e stiamo andando benone: probabilmente ne faremo di più. Abbiamo date fissate per un altro anno, da adesso, quindi se fra un anno parleremo di nuovo il numero di pezzi avrà superato gli otto. Ne sono entusiasta.

Da quando siete stati in lizza per un Grammy la prima volta (era il 1989 e una band non metal, i Jethro Tull, ha vinto nella categoria metal contro i Metallica), quasi tutti gli album che avete pubblicato hanno raggiunto le vette delle classifiche. Pensate che il mainstream comprenda meglio la musica heavy, ora?
Probabilmente questa è stata l’estate migliore di sempre, per noi, in termini di biglietti venduti per le date europee e americane. È incredibile, visto che siamo in giro da 42 anni. Ma allo stesso tempo sembra che l’hard rock sia sempre più una sottocultura e molto meno mainstream di quanto fosse in passato. Guardando indietro, agli anni ’80, con MTV e le radio AOR e le riviste da Rolling Stone a Kerrang! si ha l’impressione che l’hard rock fosse molto più trattato, in ambito mainstream, rispetto a ora. Quindi, anche se i numeri sono pazzeschi – e so che molte altre band stanno facendo numeri da capogiro, come i Guns N’ Roses, gli Slipknot, i Ghost, i Disturbed – sembra che l’hard rock faccia più parte di una sottocultura e sia nuovamente fuori dal mainstream, come quando abbiamo iniziato con i Metallica.

Non so se ho la stessa conoscenza di 20 o 30 anni fa di ciò che accade intorno a me e non so neppure se mi interessa ancora entrare nel merito come allora, ma quando me lo chiedono rispondo che di sicuro sento che ciò che stiamo facendo nell’hard rock, in generale, sta arrivando a molte persone. Ma, in termini di zeitgeist e di cultura dominante, non mi sembra che siamo parte del mainstream come in passato.

Dal numero di Rolling Stone US dedicato ai Grammy 2014.

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