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«L’arresto, la comunità e il rap mi hanno aiutato a farmi un’altra vita»: la prima intervista di Simba La Rue

Risse, coltellate e sparatorie, la vita in galera («lì ci sono le persone vere»), la musica come salvezza (grazie a Baby Gang), il disco che uscirà a gennaio. «Sono uno che ha vissuto delle cose e le racconta»

Foto: Argante Baschiera

Di lui sappiamo poco, quasi nulla. Fino ad oggi non ha mai concesso interviste. Questa è la sua prima vera occasione di farsi conoscere, oltre alla musica e alle vicende giudiziarie che hanno occupato le pagine di cronaca dei giornali. Seduto nello studio di registrazione, Mohamed Lamine Saida ovvero Simba La Rue parla del passato, del presente e del futuro, ovvero l’album che i fan aspettano da tempo. Metto in REC l’intervista e lascio che sia lui a presentarsi.

«Il nome Simba La Rue nasce un po’ per scherzo, mio zio mi chiamava Leone e così anche i miei amici. Poi il nome sì è trasformato in Simba, il cucciolo leone, e La Rue perché ero sempre in strada dalla mattina alla sera. Mia mamma mi rincorreva in quartiere perché non tornavo mai a casa fino a sera, io le dicevo “mamma, a me piace la strada”. Ed ecco Simba La Rue».

Dove sei nato? E cosa hai fatto prima di iniziare con la musica?
Sono nato in Tunisia, e sono rimasto lì fino a 6, 7 anni. Mio padre era già in Italia, ha fatto i documenti a me e mia madre e lo abbiamo raggiunto. Ho studiato fino alla seconda superiore, quando mi hanno mandato a fare uno stage da metalmeccanico, ho litigato col datore di lavoro e mi hanno cacciato sia da lì che dalla scuola, che poi ho mollato.

Dopo che hai lasciato la scuola cosa hai fatto?
Tante tarantelle. Dopo un paio d’anni sono stato arrestato, ho fatto il carcere minorile al Beccaria, poi mi hanno mandato in una comunità da cui sono scappato, e ho fatto la latitanza. Alla fine mi sono consegnato alle forze dell’ordine, ho finito il mio “aggravamento” (per la latitanza) al Beccaria e poi sono arrivato alla comunità Kairos di Don Claudio (Burgio) e da lì mi è cambiata la vita: è lì che è arrivata la musica, che è arrivato tutto. Ho smesso con le droghe – usavo tanto gli psicofarmaci – e quel percorso mi ha aiutato molto a farmi un’idea della vita, di quello che avrei voluto fare in futuro

E lì hai iniziato a fare musica…
È nato tutto quasi per scherzo, in comunità insieme e a me c’era Baby [Gang]. Stavamo cazzeggiando mentre lui faceva freestyle con le sue basi su YouTube: ho iniziato a fare due barre così per gioco e Baby mi ha detto: «Bella! Registriamola!». All’inizio non mi faceva impazzire l’idea, ma dopo aver registrato è uscita Sacoche, ha fatto il suo successo e allora ho continuato, ho preso la strada della musica.

Che musica ascoltavi prima di iniziare a fare rap?
Ho ascoltato tanta musica francese, perché ho vissuto un periodo della mia vita in Francia. Chi mi ha influenzato di più sono stati i PNL e Kalash Criminel. Anche se faccio tutt’altra musica la mia ispirazione rimangono i PNL.

Che ricordi hai del carcere minorile?
Credo che il minorile traumatizzi. Lì non ci sono vie di mezzo: o esci peggio o esci che hai paura pure della tua ombra. È difficile da spiegare, ma i minorili sono peggio delle carceri per maggiorenni, avendo fatto tutti e due. Vedevi ragazzini che si volevano impiccare, o gli assistenti che picchiavano i ragazzi, queste cose vuoi o non vuoi capitano. Poi quando si è piccoli si sente tanto la mancanza dei genitori…

Chi ti ascolta si chiede sempre se quello che dici nei pezzi ti sia successo davvero. Rapine, spaccio, criminalità sono solo un racconto di fantasia o fanno parte della tua storia personale?
Non è un racconto di fantasia, quello che dico – anche nei testi – l’ho sempre fatto, oltre ai reati. Perché essere real non vuol dire solo raccontare i reati che hai fatto, ma quello che fai davvero nella vita di tutti i giorni. Io sono così, ho fatto il carcere e la gente sa chi sono, dal più piccolo al più grande, dal più bravo al galeotto. Non ho niente da nascondere.

Il carcere è una parte importante della tua vita…
Dalla brutte cose si impara sempre qualcosa di buono. Stando in galera ho imparato che le persone vere e sincere sono in galera, sono lì chiuse. Tutti i miei amici che stanno con me ogni giorno li ho conosciuti in galera. In cella puoi conoscere meglio una persona rispetto a beccarla in giro a bere un caffè.

I tuoi episodi di vita criminale quanto hanno influito sul fare rap?
La musica per me è uno sfogo, magari da ragazzino mi sfogavo litigando o facendo risse, adesso è gridare al microfono quel che penso, le mie sofferenze.

Quali sono queste sofferenze?
La più grande è aver passato poco tempo con la mia famiglia, con mia madre e i miei fratelli. Sono cose che noti solo quando non le hai e ti mancano.

Foto: Argante Baschiera

Oggi come stai vivendo i domiciliari e cosa pensi rispetto a quello che è successo e che ti ha visto coinvolto? (Una condanna di aggressione per una sparatoria nel 2022 a Milano e un’accusa di sequestro e aggressione sempre nello stesso anno, ndr).
Gli arresti domiciliari sono stati una pausa della mia vita dove per la prima volta ho riflettuto su me stesso e sul mio futuro. Su quello che mi ha visto coinvolto ultimamente… no comment. Sono abituato a queste cose, da minorenne ho pagato anche per reati che non erano i miei ma sono stato zitto. Vedremo come si evolverà.

Fare musica ti sta aiutando?
Faccio musica per questo, per uscire dalle mie tarantelle, dallo schifo. Non voglio fare il cantante, non mi è mai interessato, ma – credendo molto in Dio – penso che l’arresto, entrare in comunità, iniziare a rappare mi abbiano aiutato a farmi un’altra vita. Sono un’altra persona rispetto a cinque anni fa: prima ero un maleducato, con me non si riusciva a parlare.

E tra cinque anni come sarai?
Spero di mettermi a posto, di avere una famiglia e di mettere a posto mia madre a i miei fratellini. Questo è l’obiettivo.

Ti sei mai pentito per quelle che chiami “tarantelle”?
No, mai. Da credente quando mi succede qualcosa penso sempre «Alhamdulillah» (grazie a Dio), penso che nella nostra vita sia già tutto scritto.

Senti la responsabilità di quello che dici nei pezzi? Credi che possa influenzare negativamente chi ti ascolta, soprattutto i più giovani?
Credo che il regista di Tony Montana quando ha fatto il film (Scarface) non si sia posto questa domanda. Non faccio certi video per dire ai ragazzini che devono spacciare tutti la bamba, essere dei narcotrafficanti e sparare alla polizia. Penso non sia quello il messaggio. È arte e basta: uno se lo può inventare e un altro lo può raccontare perché l’ha vissuto davvero. Io dico sempre di non essere un esempio per nessuno.

Foto: Argante Baschiera

Pensi che oggi ci siano tanti ragazzini che fanno rapine o risse solo per guadagnare la famosa street credibility del rap? O lo fanno perché non hanno i soldi per mangiare?
Ho visto tanti ragazzini con genitori benestanti fare rapine, o vestirsi con le tute false, anche quando potrebbero permettersi tutto. È un fenomeno recente, prima i figli di papà non facevano come noi. Quando sono stato al Beccaria c’erano ragazzi i cui genitori venivano ogni settimana a portargli la stecca di sigarette o i vestiti nuovi, e io andavo da loro e gli dicevo: «Che ci fai qui? Perché hai fatto reati?». Mia madre veniva una volta al mese portandomi i vestiti bucati che avevo da tre anni.

Cosa fa tua madre?
Mia madre la badante, mio padre è metalmeccanico.

Marracash nel 2010 rappava “Conosco un criminale, vorrebbe fare il rapper / conosco un rapper, vorrebbe fare il criminale”. È ancora così oggi?
I ragazzi di strada come me sono cresciuti col rap, mentre prima i criminali non sapevano quasi nulla del rap, l’avevano appena scoperto e magari tentavano di farlo male imitando Marra e Guè. Oggi invece il criminale può fare il rapper, io ad esempio lo ascoltavo in famiglia con mio padre e con mio zio.

Ti consideri un criminale?
Non più, ma fino a cinque anni fa ti potevo rispondere di sì.

La violenza fa parte del mondo in cui vivi? In che modo?
Faceva parte del mondo in cui vivevo, ora non più.

Hai mai rischiato di morire?
Più volte. Tra risse, coltellate, agguati, anche sparatorie. Ma come ti dicevo prima queste cose non mi fanno paura perché sono sicuro che tutto è scritto, se deve succedere succede.

Di cosa hai paura?
Di tornare povero, di crescere mio figlio come sono cresciuto io.

C’è qualcosa che ti rende felice?
Le cose che mi sono mancate sempre da piccolo: una scarpa nuova, una vacanza. Quando ero bambino esistevano solo i soldi. Non voglio ripetere i discorsi che fanno tutti, ma quando ti manca tutto pensi solo ai soldi, a come averli. La vita era quella finché non ho iniziato a fare musica e da lì i primi viaggi, le prime vacanze, poter comprare qualcosa per mia madre o semplicemente poter star insieme ai miei amici senza l’ansia di non aver un soldo in tasca e di dover andare a vedere “questo” a “quello”. Solo a 18 anni ho scoperto davvero cosa era la vita. Chi ti dice che i soldi non fanno la felicità è un bugiardo! Se cresci senza avere niente e sei fissato solo con le cose materiali, poi quando fai i soldi e viaggi e conosci altra gente, altre lingue, capisci che è questa la vita. Ma a questo ragionamento ci arrivi solo quando hai i soldi, prima pensi solo a come farli.

In Levante dici di essere un maranza. È così?
Io non so neanche esattamente bene cosa voglia dire essere un maranza. Spesso mi dicono che sono “il più ascoltato dai maranza”. Bene, io allora sono un maranza che ti compra casa (citando il pezzo Levante, ndr).

Ora ci sono molti rapper di seconda generazione che stanno avendo successo: tu, Baby, Neima Ezza e altri. Vi unisce questo? In che modo?
Come ti dicevo, io non mi considero neanche un rapper, non sono un rapper, solo uno che ha vissuto delle cose e le racconta. Poi ora è diventato un lavoro, ma io non faccio parte dei rapper. Anche perché molti di loro raccontano cose che non fanno.

Hai annunciato il tuo primo album, Tunnel, che uscirà il 5 gennaio. Cosa puoi dirci? Ci saranno ospiti nel disco?
È un viaggione di 16 tracce, ci tengo molto. E sì, ci saranno ospiti importanti. Ma non ti dico altro.

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