La vita violenta degli Afterhours | Rolling Stone Italia
Interviste Musica

La vita violenta degli Afterhours

Occasioni, rimpianti e speranze: Manuel Agnelli racconta i primi 30 anni degli Afterhours a un’intervistatrice speciale, Carolina Crescentini.

Foto di Fabio Leidi. In tutto il servizio: abiti Emporio Armani

Foto di Fabio Leidi. In tutto il servizio: abiti Emporio Armani

Alla fine degli anni ’90 io ero un’adolescente che cantava a squarciagola guidando un motorino scassato. Loro erano tra le mie band di riferimento. Le comitive attraverso la musica scrivevano la loro identità, e se ti piaceva il rock non potevi uscire con gli amanti del pop, perché sarebbe stato troppo difficile capirsi. Sono passati tanti anni e siamo cresciuti tutti, ma le mie cuffie ancora oggi continuano a soffiare le loro liriche beffarde e sensuali. Oggi con Manuel Agnelli ci siamo fatti una chiacchierata, abbiamo parlato di musica, di rapporti, di famiglia, di televisione e di groupies.

A 30 anni si fanno dei bilanci. Cosa siete diventati?
Non so cosa siamo diventati. Quello che volevamo diventare era una sorta di megafono di noi stessi che ci concedesse di parlare a gli altri con il nostro linguaggio. “Il mio diploma in fallimento è una laurea per reagire”. Si dice che nell’evoluzione della specie non sia il migliore ad andare avanti, ma il più adatto.

Vi siete mai sentiti falliti, o semplicemente inadatti?
Inadatti sempre, continuo a sentirmi fuori posto. Penso di sentirmi un disadattato cronico ancora adesso, ma ho imparato a conviverci, riesco anche a controllare questa cosa. E non so dirti se sono troppo diverso da quello che c’è, oppure ho dei limiti di empatia. Una volta, in un’intervista a Lou Reed, gli contestavano di essere troppo poco socievole, e lui rispose: “Vuoi dire introverso?”. Ecco, sono un introverso, mi sono dovuto adattare a stare su un palco, ma preferirei stare in una biblioteca.

Dicevi “Non si esce vivi dagli anni ’80”. Come ne siete usciti voi? Vi manca la vostra giovinezza?
Ne siamo usciti malconci. Vivi ma malconci. I vantaggi di avere una certa maturità, e quindi sapere quello che vuoi e come ottenerlo, sono enormi rispetto ai vantaggi dell’energia della gioventù. Lo ricordo come un periodo turbolento, pieno di malessere.

Un matrimonio di 30 anni ha bisogno di una divisione dei ruoli. Come sono cambiati col tempo?
I ruoli non sono cambiati, sono cambiate le persone: quando non si adattavano più, o quando non volevano più adattarsi al ruolo che avevano. Io dalla band credo di aver allontanato due persone su una decina che se ne sono andate. È abbastanza fisiologico che dei musicisti dopo un po’ vogliano cercare altro, perché gli After sono comunque un progetto totalizzante, ti porta via tanto tempo, ti dà tanto ma ti prende tanto. La band non è un organismo fatto per degli ultra 40enni, per delle persone che hanno raggiunto la maturità e sanno come vogliono vivere e non vogliono mettere a votazione ogni volta tutto quanto. Una band è fatta per ragazzi che hanno bisogno di un nucleo, dove possano riconoscersi e trovare conforto. Gli adulti vogliono stare soli e non vogliono altra gente alla quale sottoporre il loro pensiero. Per cui dopo i 40 è molto difficile tenere in piedi una band.

E quando sono cambiati i componenti della band, come ti sei sentito nel momento dell’abbandono? Ti sei sentito rigenerato con l’arrivo dei nuovi?
Sarò schietto, è sempre stato più positivo che negativo. Fa male quando una persona se ne va, ma se tu non vedi un’occasione di cambiamento allora sì che ti fa male. È una forma di difesa. Io non mi pento di niente, se è quello che mi stai chiedendo.

No, ti sto chiedendo della tua emotività. Immagino che la band sia un po’ come una famiglia…
Lo è, ma ha anche tutti i lati deteriori della famiglia. Le abitudini, i preconcetti nei confronti dell’altro, gli obblighi morali, quelli materiali, diventa un matrimonio anche dal punto di vista negativo. Per cui, quando è cosi, è meglio finirla.

Cosa succede a una band, quando si allarga il numero dei collaboratori?
Bisogna stare attenti a non farla diventare un’azienda, altrimenti senti gli stessi doveri di un imprenditore: mantenere delle famiglie e fare scelte per dare lavoro, invece che creare qualcosa di bello. Abbiamo passato periodi così, in cui ho sofferto tantissimo perché mi trovavo rinchiuso. Un momento claustrofobico che porta spesso allo scioglimento di un progetto, ma ne siamo usciti. Adesso riesco a gestire meglio questa cosa perché ho demandato la parte logistica e operativa, così posso pensare alla musica.

Foto di Fabio Leidi. In tutto il servizio: abiti Emporio Armani

Foto di Fabio Leidi. In tutto il servizio: abiti Emporio Armani

Come cambiano i testi? Quando canti qualcosa che hai scritto 30 anni fa, come ti senti?
Alcuni non ho proprio più voglia di cantarli perché non sono più quella persona. Non li rinnego ma non mi dicono più molto. Altri si sono rinnovati tantissimo perché la chiave di interpretazione era sufficientemente aperta. Poi ci sono quei pezzi che non hai voglia di suonare ma sono talmente simbolici, dopo 30 anni, che in realtà comunque ti fa piacere.

Quindi lo fate per il pubblico…
Ma sì… non abbiamo mai fatto niente per il pubblico perché siamo nati come disturbatori, ma bisogna prendere atto che non puoi essere disturbante e avere un pubblico che ti segua. Quando hai dei fan diventi più accondiscendente e non c’è niente di male. Dare energia al pubblico è davvero bello.

Come vi siete organizzati quando dovevate scegliere le 76 canzoni per il cofanetto?
Ho fatto la prima scrematura aiutato da Rodrigo D’Erasmo, che è un po’ il mio braccio destro perché, oltre ad avere un talento straordinario, è molto intelligente e un grande lavoratore. Abbiamo fatto girare questa scrematura non solo tra i membri della band attuale ma anche del passato, tipo Giorgio Prette che ha lavorato 25 anni con me. Ci tenevo che sapesse cosa ci sarebbe stato nel disco prima dell’uscita.

Quanto è stato importante rimanere fedeli a voi stessi e quanto cambiare idea?
Credo sia più importante saper cambiare idea, chi rimane fedele a se stesso perché deve farlo, diventa un imbecille. Gli artisti sono le persone più incoerenti in circolazione perché devono saper rinnegare quello che hanno amato. Non parliamo di fede ma di creatività e personalità, e quando una persona cresce cambia, come cambia anche la sua musica. Non so se sia giusto, ma sicuramente è naturale.

Avete tradotto Ballate per piccole iene in inglese facendo un tour americano. Come è stato?
Le differenze sono tante ma più dovute alla dimensione che abbiamo nei diversi Paesi, a Londra abbiamo fatto 800 persone, ma quando abbiamo aperto per Lanegan o i R.E.M. ci siamo trovati anche con 2 o 3mila persone. In America ci siamo trovati anche con sette persone. È formativo perché ti riporta al vero valore della musica, a quello che riesci a comunicare indipendentemente dalla tua storia, dalle copertine dei giornali e dai video.

Succede anche a noi attori…
Ti riporta con i piedi per terra perché devi arrabattarti con situazioni complicate. L’America ha grandi club meravigliosi ma anche piccoli, che puzzano di vomito e di piscio. Ti riporta all’inizio della carriera, così quando hai i mezzi per fare concerti di un certo tipo spacchi il culo.

Pensi che la gavetta sia importante per arrivare a suonare in un palazzetto?
La gavetta è importante comunque, è necessaria per crescere, a prescindere dai risultati. Per un palco del genere serve una faccia di bronzo, anche se a me fa più paura suonare di fronte a 10 persone, mi innervosisce.

Ma tu sei uno di quegli artisti che quando cantano vanno in una sorta di stato di trance? Te lo chiedo perché a volte agli attori succede…
Trance forse è esagerato, per me il concerto ha sempre avuto un ritmo. L’ho sempre interpretato come un rito, come un evento sciamanico nel migliore dei casi o come una partita di basket nel peggiore. Certe volte è vero che l’endorfina sale così tanto che ti fai male e non te ne accorgi neanche.

Ci saranno novità nel concerto del 10 aprile?
Vogliamo invitare un po’ di ragazzi-non ragazzi che hanno fatto parte degli After, ci sembra il momento giusto per farlo. È soprattutto una festa, dopo 30 anni si può anche fare.

Sei stato ideatore e organizzatore del Tora Tora, un festival che riuniva i migliori della scena alternativa italiana. Lo rifaresti?
No, per tanti motivi. Prima di tutto per motivi personali, è faticosissimo organizzare un festival senza mezzi e quindi doversi inventare tutto, perché non ci sono soldi. In qualche modo, è anche umiliante. C’è una soddisfazione enorme nel riuscire a mettere in piedi questa cosa. Ma direi che una volta nella vita basta.

Umiliante perché?
Un po’ per i fondi, un po’ per far funzionare le cose, un po’ perché devi avere un atteggiamento non naturale nei confronti dei musicisti. Il Tora Tora funzionava perché eravamo un nucleo di musicisti uniti dallo stesso percorso, oggi non funzionerebbe. C’era un senso di unità nella differenza musicale, era più facile dire: “Facciamo un festival insieme e facciamo vedere che esiste un altro modo di fare e di pensare la musica”. Oggi non vedo una scena così forte, così aggressiva, nel senso positivo. Però si sta ricreando in qualche modo una nuova scena sostenuta da etichette che lanciano artisti spesso ignorati dalle major, penso a Bomba Dischi, Woodworm, 42 Records, come fece la Mescal con noi.

Nel 2000 uscì una copertina con i migliori di quegli anni, c’eravate voi, i Subsonica, i Marlene, oggi potrebbero esserci Calcutta, Iosonouncane, Thegiornalisti… chi metteresti tu su quella copertina?
Non sono particolarmente coinvolto in questa nuova scena, non credo che abbia la forza di altre situazioni, né per l’interesse musicale che crea in me né per quello che sta muovendo e come lo sta muovendo a livello sociale. C’è una grande confusione. C’è una voragine generazionale, quello che noi davamo per scontato adesso non è più scontato. È una scena musicale che si definisce indie ma per me non lo è, perché credo che sia giusto che le cose si chiamino con il proprio nome.

Foto di Fabio Leidi. In tutto il servizio: abiti Emporio Armani

Foto di Fabio Leidi. In tutto il servizio: abiti Emporio Armani

Hai prodotto diversi artisti, dai Verdena ai Casino Royale. Oggi chi produrresti?
Beh, i Måneskin, come tutti i ragazzi che erano in squadra con me a X Factor e alcuni delle altre squadre. Credo che i Måneskin abbiano un’occasione d’oro per poter cambiare il modo di pensare musica che c’è in questi ultimi anni. Non so se hanno la lucidità, alla loro età, per capire bene cosa devono fare. Sono giovanissimi e non gli si può dare questa responsabilità. Spero non si lascino sfuggire l’occasione di fare qualcosa di più grosso del successo.

Torniamo a te. La canzone che ti piace più suonare qual è? E quella di cui vai più fiero?
Sono fiero di tante canzoni, perché ho avuto la fortuna di poterle scrivere e suonarle in giro. Se ne dovessi dire una ti dico Quello che non c’è, riassume un po’ tutto quello che penso.

Perché non hai mai fatto un album da solista?
Così lo faccio adesso. Ho una nuova strada da esplorare. Potrebbe succedere.

In questi anni hai anche messo su famiglia. Come si gestisce il rapporto con una vita rock?
È abbastanza difficile da gestire. Il problema non è l’aggressività del rock, il problema è la famiglia. Non c’è niente di più aggressivo della famiglia. Non c’è niente che abbia una forza primordiale così grande. E giustamente la famiglia non è un hobby. Ho trovato molto difficile far conciliare le due cose rimanendo sincero e fedele a me stesso.

Raccontami la cosa più assurda che ti sia mai successa con una groupie.
Una volta stavo facendo stage diving, mi sono buttato di schiena in mezzo alla folla. Questa tipa è arrivata e, strappandomi la zip, mi ha preso in mano l’oggetto della vergogna. Lo tirava per portarselo a casa, mi ha fatto veramente male. Cercavo di fermarla ma non riuscivo a fare forza. Alla fine l’ho guardata e le ho tirato due gomitate sul naso. Pensavo di essere invulnerabile, ma mi sono reso conto di essere diventato talmente grottesco che ho capito l’idiozia che stavo vivendo. È stata l’ultima volta che ho fatto stage diving.

Dopo X Factor hai avuto un programma tuo sulla Rai, Ossigeno. Funzioni in televisione?
Non spetta a me dirlo e saperlo. Credo che ci sia una volontà, forse inconsapevole, da parte del pubblico di vedere delle cose che non siano fintamente vere ma che siano semplicemente vere e che magari non abbiano già visto prima. Forse una visione e una persona come la mia negli ultimi anni non è stato facile vederle in Tv. La novità funziona sempre anche se a diventare grottesco ci metti veramente poco.

C’è stato un momento in cui ti sei censurato?
Spesso, perché comunque hai un minimo di responsabilità. Anche se funzioni proprio perché sei un personaggio che dice le cose come stanno, è giusto pensarci bene. Ogni tanto la verità fa bene, ogni tanto è superflua. Bisogna stare attenti alla propria vanità. Non so se è vero, ma si dice che spesso il picco dello share si tocchi nel momento della sconfitta.

Come ti senti quando gli autori ti chiedono di sostenere una sorta di gogna mediatica per manovrare la puntata?
Non me l’hanno mai chiesto e non me lo possono chiedere. Prima di andare a X Factor ci ho pensato un anno e ho fatto delle richieste precise. Dello share non me frega niente. Hanno scelto me per quello che ero, non per farmi diventare un altro.

Cosa cambieresti di questi 30 anni?
Tantissime cose. Chiuderei alcune situazioni prima di quanto non sia successo. Devo sempre arrivare in fondo al baratro per prendere delle decisioni e, sinceramente, è un po’ da vigliacchi. La si può far passare per grande umanità e magari lo è, però è la vigliaccheria del non volere o non volersi fare del male che alla fine ti porta ad aspettare l’esasperazione, e quindi l’inevitabile.

Te lo devo chiedere. Hai più paura del buio o di perdere i capelli?
A 30 anni avevo paura di perdere i capelli, credo che per gli uomini sia una cosa pazzesca. Ho visto che molti di quelli che mi criticano su Internet sono pelati, cazzo! Ci dev’essere un nesso!

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