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La vita meravigliosa di Bruce Dickinson

Il frontman degli Iron Maiden ci ha raccontato i segreti della sua autobiografia, della sua battaglia con il cancro e di quella notte a Sarajevo che ha cambiato tutto per sempre

La vita meravigliosa di Bruce Dickinson

Bruce Dickinson, foto IPA

“A cosa serve questo pulsante?”, l’autobiografia di Bruce Dickinson, è in libreria, edizioni HarperCollins

«Non leggo autobiografie», dice Bruce Dickinson proprio mentre è impegnato nella promozione della sua. «Quando ho deciso di scrivere il mio libro ne ho provata qualcuna – andavo in libreria, sfogliavo a casaccio e pensavo: “Ok questa sembra una lista della spesa”, “questa è egocentrica e noiosa”. Le biografie delle celebrità mi sembravano vuote, alcune disperate». Per fortuna Dickinson ha abbastanza senso dell’umorismo e autoironia per provarci comunque. E con il suo A cosa serve questo pulsante? è riuscito a essere tanto interessante quanto divertente. È riuscito a mescolare le storie della gloria degli Iron Maiden con quelle del concerto a Sarajevo – quando la città era dilaniata dalle bombe – e con vari aneddoti esilaranti, cadute dal palco e tutto il resto. Apre spiragli nella sua vita lontano dalla band, e racconta tutti gli incidenti, le ferite, i brutti sentimenti e le terrificanti anomalie del suo mondo. E, nel capitolo più lungo del libro, anche della sua battaglia con il cancro che ha rischiato di stroncare per sempre la sua carriera di cantante.

Iron Maiden, foto IPA

Per almeno un decennio, dice, gli hanno chiesto di scrivere questo libro, ma ha sempre resistito alla tentazione. «È ancora presto, dicevo. Non ho ancora finito». Ha cambiato idea con la malattia. «Quando sono guarito ho pensato: “Questa è la natura che mi dice che è arrivato il momento”», racconta. «Non è un brutto finale per un libro, non ho certo intenzione di morire nei prossimi giorni. Anzi, è l’inizio di un capitolo tutto nuovo. Quindi ho pensato: ho il mio finale, l’inizio sarà una passeggiata». Ed è così che ha cominciato, appuntando la sua storia su vecchi quaderni del college.

Oggi Bruce Dickinson siede in un’altrimenti anonima sala conferenze negli uffici del suo distributore, in un grattacielo di Manhattan. Alcune copie del libro sono poggiate su un tavolo di cristallo, vicino al porridge che non ha neanche sfiorato prima di concludere l’intervista. Mentre parliamo si rilassa e mi guarda negli occhi, sembra che non abbia niente da nascondere. Ha la stessa intensità che ho visto tante volte sul palco, quando dice al pubblico “Urlate con me!”. Ma, nonostante tutto, guarda al passato con un’aria riflessiva.

Foto via Facebook

Ti sei dato delle regole quando hai iniziato a scrivere?
Sono felice di rivelare parti nascoste di me stesso, ma non è affar mio fare lo stesso con quelle degli altri, soprattutto se non vogliono parlarne in prima persona. Non è il loro libro. Con lo stesso spirito ho deciso di non parlare di mogli, figli, divorzio… non è il loro libro. L’ho fatto perché se sei una celebrità tutto quello che scrivi ha un’impatto sulla gente, che tu lo voglia o no. Non ho bisogno di soffermarmi sugli aspetti pruriginosi della mia vita. Non serve, non è certo il libro dei Mötley Crüe.

Non ti è sembrato strano scrivere delle tue prime fidanzate ma non di tua moglie?
Ho pensato che se avessi parlato del mio matrimonio avrei dovuto raccontare anche il divorzio e tutto il resto. È parte della mia vita, certo, ma non è rilevante per gli altri. Sarebbe stato come aprire un grosso vaso di vermi, e non ho trovato un buon motivo per farlo. Ho scritto il libro per raccontare storie grandiose.

Nei capitoli dedicati alla tua infanzia, hai raccontato di essere stato preso di mira per la tua altezza. Cosa ti colpisce, oggi, guardando indietro fino a quel periodo?
Ho passato tutta la mia vita cercando di dimenticare la mia altezza… Il punto è che da tutta quella storia ho tirato fuori una mia moralità. Litighi e combatti per difendere quello che credi sia giusto, non per fare casino. Non sono un grande ammiratore dell’aggressività, ho passato troppo tempo con gente così. Mio figlio ha avuto un sacco di problemi per aver detto la verità su alcune persone. Gli ho spiegato: “Non dire così, anche se è vero”. Lui mi ha chiesto perché, e gli ho detto che è complicato. Fa parte della crescita.

Se fossi rimasto nei Maiden non avrei mai capito niente, perché nessuno mi diceva cosa pensava davvero

Nel libro racconti di quando hai dichiarato che i Maiden erano meglio dei Metallica. Cosa ne pensi oggi?
Oggi sono perfettamente consapevole che dire cose del genere significa scatenare la rabbia della gente. La dichiarazione sui Metallica, a essere sincero, è stata un bel colpo. Abbiamo un bellissimo rapporto con loro, non volevo certo prendermela con la band. Volevo dire al resto del mondo: “Siamo tornati e facciamo sul serio. Siamo così incazzati che diremo qualcosa di sconvolgente, perché non venite a vedere se abbiamo ragione?” Era una sfida, e io sono il frontman. È il mio lavoro, è quello che faccio. Sono stato arrogante? Sì, certo. Se sei il cantante degli Iron Maiden devi essere arrogante, almeno ogni tanto. Fa parte del personaggio. Mick Jagger, lo definiresti arrogante? Probabilmente sì, è Mick Jagger, cazzo! C’è una differenza tra il Bruce sul palco e quello che cammina normalmente per strada.

Come descriveresti questa differenza?
È come avere un palloncino dentro la testa. Di solito, quando cammini per strada, è sgonfio e nessuno lo vede. Quando sali su quel palco, però, lo devi gonfiare, e devi riuscire a colpire ogni singola persona del pubblico. Più grande il palco, più grande il palloncino, e dopo tanti anni diventi Mr. Mongolfiera. Poi, alla fine del concerto, si deve sgonfiare così da permetterti di tornare insieme al resto dell’umanità. Ci vogliono parecchie ore, te lo dico io. E ti dico anche che molta gente non riesce a farlo, si rifugia nell’eroina o in non so che altro, in qualche modo devi rendere la transizione possibile. Il palloncino è una cosa seria, permanente, e non è facile conviverci. È un’abilità particolare.

Quando hai imparato a farlo?
Non è facile trovare il momento preciso. Direi che tutto è cominciato dopo il tour di Number of the Beast. Mi sono reso conto di poterlo fare, ho capito che non potevo vivere tutta la mia vita così. Quando sei giovane le cose vanno più o meno in questo modo: sei fatto, vai in giro per bar e locali, cosa che facevo molto spesso all’epoca, ti fai due birre ed ecco che viene fuori il palloncino. È un po’ come Jekyll e Hyde. Mr Hyde viene fuori solo sul palco, e devi imparare a contenerlo e rimetterlo nella sua scatola. “Torna a letto, il tuo momento è finito”. Ho cominciato con il tour di Number of the Beast ed è lì che ho avuto a che fare per la prima volta con il successo. Poi ho lasciato la band, e quando sono tornato ero molto più equilibrato, avevo un’idea chiara di come doveva andare tutto. Abbiamo fatto il tour di Brave New World e pensavo “Ok, so come si fa. Posso dire che siamo meglio dei Metallica e so che si incazzeranno tutti”. L’ho fatto di proposito, sapevo benissimo che ai Metallica non sarebbe fregato nulla. Dai, sono i Metallica!

A proposito del tuo abbandono, mi ha molto colpito leggere della disillusione che sentivi durante gli anni ’80, molto prima di lasciare il gruppo. Cosa ti stava succedendo?
La linea che divideva l’autocritica dall’autodistruzione era molto sottile. Sei in una band di successo, hai uno stile ben definito, e tutto va alla grande. Non importa cosa fai davvero, vendi comunque i tuoi dischi. Questo mi preoccupava molto. Pensavo: “Se tutti vanno in giro a dire quanto sia grandiosa la mia musica, come faccio a sapere se è vero?” Ha un po’ a che fare con l’infallibilità papale: come fa il Papa a sapere se ha sbagliato? È il Papa, no? E se avesse torto?

Mi sentivo così, ed ero l’unico. Tutto è esploso con il mio disco solista (Tattooed Millionaire, 1990), che è stato accolto benissimo ma era un vero casino. C’erano un paio di belle canzoni, era suonato molto bene, ma era di maniera, come una puntata di Saturday Night Live dedicata al rock. C’era lo sketch con la ballata, quello con il groove e quello in stile AC/DC. È andata proprio così, abbiamo assemblato tutto in due settimane. È stato un grande successo e mi è sembrato strano. Volevo fare qualcosa di diverso ma nessuno la pensava come me. Mi dicevano: “fanne un altro così, identico”. Erano tutti felici a parte me. Artisticamente parlando credo che l’unica canzone valida fosse Born in ’58, il resto era assolutamente dimenticabile. Non cambieremo la storia della musica rock con roba del genere, con ogni album devi aspirare al fottuto Santo Graal, non spostare leggermente gli orpelli dell’altare.

Foto via Facebook

Mi sono reso conto che suonare nei Maiden significava immergersi in una certa cultura, e mi sembrava che quel mondo avesse indebolito il mio senso artistico. Ho lasciato la band e tutti pensavano avessi un piano, ma non era così. Il testo di Tears of a Dragon racconta molto bene come mi sentivo all’epoca – “I throw myself in the sea/Release the wave, let it wash over me“. Ho lasciato i Maiden per capire se ci fosse davvero qualcosa di diverso. Se fossi rimasto non avrei mai capito niente, perché nessuno mi diceva cosa pensava davvero di quello che stavo facendo.

E ora cosa è cambiato?
Il mio rapporto con gli altri è completamente diverso. È molto più reale, più… adulto. Siamo tutti consapevoli che a volte ci vogliamo bene, altre no, ma andiamo avanti perché dobbiamo. La nostra lealtà è verso la nave-madre Iron Maiden. Oggi condividiamo molte più cose che in passato, e questa è la differenza principale. Controlliamo di più il mondo della band, e riusciamo a dire cose tipo “OK, non faremo un tour di 13 mesi”. Anche perché se lo facessimo saremmo tutti morti. Ho detto al mio manager: “Adesso dobbiamo fare concerti incredibili. Negli anni ’80 non era così, suonavamo spesso e con quella frequenza è impossibile fare serate grandiose, perché il tuo corpo si indebolisce e la voce finisce”. Prima del tour di Somewhere in Time pensavo: “Sarò solo il cantante, non farò nient’altro”. Qualche anno dopo ho lasciato il gruppo. Una volta tornato ci siamo dati delle regole: “Facciamo tre mesi di tour ogni anno, e andrà alla grande”. Ci piace lavorare duro, non autodistruggerci. Sono più felice ora che negli anni ’80, mi diverto molto di più.

Uno dei passaggi più affascinanti del libro è legato a un concerto che hai suonato da solo a Sarajevo, proprio durante la guerra in Bosnia. Come ti ha cambiato quella serata?
L’umanità riesce a ispirarmi e deludermi allo stesso tempo, soprattutto in una zona di guerra. Il conflitto fa emergere il meglio e il peggio in maniera estrema. Riesci a vedere gesti di grande altruismo e, a pochi metri, brutalità e crudeltà da togliere il fiato. Non riesci a credere che degli esseri umani possano fare certe cose ai loro simili. Quello di Sarajevo è stato l’assedio più lungo della storia, peggio di Stalingrado. Ed è successo alla fine del 20esimo secolo, in Europa. La gente viveva come ratti, con provviste sufficienti per solo tre giorni e senza benzina. Niente energia elettrica. C’è un documentario incredibile su quella serata – Scream for Me, Sarajevo -, il regista chiedeva alla gente come quel concerto avesse cambiato la loro vita. Mi ha sconvolto. C’era questo ragazzino di 11 anni, sua madre piangeva perché non poteva dargli da mangiare, la loro casa era stata spazzata via dalle bombe. Le ha detto “Non preoccuparti, mamma”, e ha bruciato i mobili per bollire l’acqua. “Non preoccuparti, mamma, ci penso io a te”.

È stato brutale. Sono stato lì solo tre giorni ma mi ha cambiato la vita: quando sono tornato nell’Occidente consumista, con i regali di Natale e tutto il resto… è stato difficile. Non mi sono mai sentito così fortunato e, allo stesso tempo, vedevo che nessuno se ne rendeva conto. Sarajevo era una città meravigliosa, piena di cultura. Come è potuta succedere una cosa del genere? Diventi impaziente con chi si comporta in maniera egoista, con gli egocentrici. Gli dici: “Sei solo uno stronzo. Dovrebbero spedirti sul fronte, vediamo se riesci a farti una vita lì”.

Quella serata ti ha cambiato davvero.
Sì. Puoi solo immaginare come possano sentirsi soldati che vivono ambienti come quello per mesi, anche chi fa missioni di pace. Vedi cose orribili. Per anni ho fatto il pilota, andavo in Sierra Leone e restavo lì tre o quattro giorni. Era durante la guerra, ma facevamo tutto prima del coprifuoco. Non è stato come Sarajevo, certo, ma nemmeno una passeggiata. Vai nelle tende degli amputati e vedi gente senza braccia, che vive letteralmente nella merda. E sto parlando del centro amputati delle Nazioni Unite! Vedi gente che non ha nulla, e sono tutti così generosi, gentili.

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Il tuo libro parla anche del cancro. Come hai affrontato la depressione e la sensazione di non avere più speranze?
Quando ho ricevuto la diagnosi mi sono sentito come se fossi fuori dal mio corpo, come se stessero parlando a qualcun altro nella stanza. Pensavo: “Io? Il cancro? Sul serio?” Poi capisci che potresti morire, poi pensi che forse è tutto un errore. Ma non lo è. Poi arriva quel momento, l’accettazione: “Ok, cosa faccio ora? Devo avere un piano e rispettarlo”. Pensavo che forse sarebbe stato meglio arrabbiarmi. Forse dovevo sedermi e accoltellare quel cancro. Ma ho capito che non potevo sprecare tutte le mie energie per odiare qualcosa, era un vero spreco. Mi sono detto: “Ci sarà la chemio. Poi le radiazioni. Devo provare a vivere la mia vita e guardare oltre”. È così che l’ho superato. Alla fine, quando sono guarito, mi sembrava assurdo. Quasi mi mancava. È come la sindrome di Stoccolma, ti senti un fottuto scemo. Hai quasi paura di tornare alla tua vita normale, perché hai vissuto in un posto molto brutto per sei mesi. Non sai cosa fare del resto della tua vita. Poi, quando sono tornato a cantare ne sono uscito, ho capito che la vita è incredibile.

Cos’altro è cambiato?
La mia visione della morte non è cambiata. È inevitabile, è sempre stato così e sarà sempre così. La mia visione della vita, invece, è completamente diversa. Vivere è vivere adesso, ogni minuto, ogni secondo, ogni istante. E non la vedo così perché domani succederà qualcosa di terribile. La mia è una celebrazione. La vita è fottutamente meravigliosa. Questo è il piccolo regalo che mi ha lasciato il cancro, e questa è una delle ragioni che mi hanno portato a scrivere il mio libro. Non volevo scrivere una merda di storia negativa. Volevo solo dire “Wow, non pensate che la vita sia bellissima?”

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