La vita esagerata di Rick Wakeman
I punk che fingevano di odiarlo, la collaborazione con David Bowie, la scelta di smettere con l’alcol e con gli Yes: i ricordi di una carriera movimentata. E no, non smette
Foto: Antonio De Sarno
Rick, i mille mantelli e le mille tastiere, le gare di velocità con Keith Emerson, le mogli di Enrico VIII, Re Artù e il Viaggio al centro della terra. Rick pomposo, magniloquente, eccessivo. Musicalmente e non, uno che prima dei 25 anni aveva già avuto tre attacchi di cuore a causa dello stile di vita non proprio da educanda. Rick, una delle cause del crollo del prog rock. Lo sanno bene i punk dell’epoca che soprattutto sulla sua figura si accanivano quando si trattava di mettere alla berlina quel genere barocco e autoindulgente.
Rick che se ne è sempre fregato, che è andato avanti tra molte entrate e uscite dagli Yes, session leggendarie con David Bowie e altri giganti della musica e un numero spropositato di album solisti (l’ultimo della serie, Melancholia, per solo piano, è uscito pochi mesi fa). A 76 anni Rick Wakeman resta l’eterno esagerato del rock. Lo abbiamo raggiunto al termine del suo ultimo tour per farci raccontare schegge disordinate di vita.
L’hai vista la serie tv sui Sex Pistols diretta da Danny Boyle?
No.
Compari parecchio nei primi episodi, ci sono video, tue musiche….
Davvero?
Sì, sei citato spesso. Vien fuori che all’epoca eri considerato il capro espiatorio della scena musicale, il cattivo… il simbolo di tutto il progressive che ai punk non andava a genio. Dicevano anche che avevi parlato male dei Sex Pistols.
Era una bugia inventata dal loro ufficio stampa per salvare il posto al direttore generale di A&M Records. Pensavano di farla franca perché vivevo in Svizzera, credevano non me ne sarei accorto e lo hanno pure ammesso dopo. È tipico dell’industria musicale.
Nella serie si vede uno dei Pistols rubare il microfono di David Bowie. In generale Bowie è lodato mentre tu vieni attaccato. Proprio tu che avevi suonato con lui. Ma i punk non avevano messo insieme i pezzi.
La cosa più stupida è che registi come Boyle non fanno ricerche: dire che odiavo certi gruppi è ridicolo. Sono io che ho scoperto i Tubes in America e li ho portati a firmare un contratto. Ho amici in ogni epoca musicale, anche nell’era punk.
Sei reduce da un tour inglese, com’è andata?
Benissimo. Sono tornato tardi ieri sera e ho avuto un’accoglienza meravigliosa dai miei cani e gatti. Ho detto: «Scusate, sono dovuto andare a comprare il cibo per voi» (ride).
Stai suonando con la nuova formazione dell’English Rock Ensemble, giusto?
Sì, nove elementi, contando me. È senza dubbio la miglior versione che abbia mai avuto: straordinaria. Uno spettacolo difficile ma fantastico. Vorrei farlo di più, ma portare in giro nove musicisti non è economico. Per ora abbiamo suonato solo nel Regno Unito. Mi piacerebbe portarlo all’estero, ma servono agenti e promoter che capiscano cosa vuoi fare, e non sempre accade. Mi hanno chiesto se potevo ridurre la formazione e ho detto di no. Alla mia età voglio fare le cose come piace a me. Il mio piano è suonare Journey to the Centre of the Earth, King Arthur, The Six Wives of Henry VIII e un set dedicato agli Yes, un programma su due giorni. Se si può fare, bene. Se no, pazienza. Ho comunque moltissimo da fare.
Vent’anni fa parlavi di ritirarti. Cos’è cambiato?
I divorzi (ride)! E il costo della vita, diciamo. Ma soprattutto mi piace ancora suonare, circondato dalle persone giuste. Quando dissi che mi sarei ritirato ero stufo di chi mi stava intorno, di farmi dire cosa fare. Poi mi sono detto: aspetta, perché devo seguire ciò che vogliono gli altri? Ho ancora tanta musica da scrivere. Ora ad esempio sto scrivendo per un balletto, poi farò altri concerti nel Regno Unito nel 2027, e ho un’offerta dall’Italia per tre o quattro date. Anche dal Sud America, dove credo farò un tour tra il 2026 e il 2027. Non voglio smettere. Al limite rallentare un po’ e passare più tempo con la famiglia.

Foto: Antonio De Sarno
Hai iniziato a suonare in tenera età. Cosa avresti fatto se non fossi diventato un musicista? Riesci a immaginarlo?
Sarei entrato in politica, credo, o sarei diventato un rivenditore di auto (ride).
Com’è stato guadagnare con la musica e in così giovane età?
Ad essere onesti, non lo so… Ricordati che mi hanno pagato una miseria per alcune mie session passate alla storia. Cose come Bang a Gong (Get It On) dei T-Rex o Morning Has Broken di Cat Stevens, per citarne solo due. Però sono state la mia rampa di lancio.
Prima si parlava di Bowie: molti non sanno quanto fossi coinvolto nei suoi primi lavori.
La gente dimentica che ho lavorato con David già prima di Hunky Dory. In Space Oddity ad esempio. Ho fatto quello e altri pezzi meravigliosi come Wild Eyed Boy from Freecloud e Memory of a Free Festival.
Che ricordo hai di David?
Un genio, puro e semplice. Quando mi ha chiamato per suonare su Hunky Dory, in particolare su Life on Mars?, ricordo che mi ha detto soltanto: «Fai quello che senti». Così ho suonato in maniera spontanea e quello che ascolti nel disco è praticamente la prima take. Era così: tutto accadeva in modo naturale. Nessuno discuteva troppo, non serviva. David sapeva esattamente dove voleva arrivare, ma lasciava spazio alla creatività di chi aveva accanto. Questo lo rendeva unico. Dopo Hunky Dory ho suonato anche in un paio di brani di Ziggy Stardust, poi mi ha chiesto di incontrarlo per un drink con Mick Ronson. Ci siamo visti in un club a Hampstead e mi ha detto: «Sto mettendo insieme una band, gli Spiders from Mars, e vorrei che tu fossi coinvolto. Che ne pensi?».
Che proposta!
Sì, ma per coincidenza proprio quel giorno mi avevano chiesto di entrare negli Yes. Gliel’ho detto e lui: «Pensaci un po’ e fammi sapere». Ci ho riflettuto su. Bowie è la persona più influente con cui abbia mai lavorato, lo adoravo in ogni senso. Ho imparato più da lui che da chiunque altro su come registrare, su come dare tutto in studio. Ma ho anche pensato che era già molto più grande degli Yes. Se mi fossi unito a lui, avrei suonato solo la sua musica. Con gli Yes, che stavano ancora crescendo, avevo la possibilità di contribuire con qualcosa di mio. Così ho scelto la band e David mi ha detto che mi avrebbe consigliato la stessa cosa. Siamo stati vicini di casa in Svizzera per quattro anni e continuava a ripeterlo: «Hai fatto la scelta giusta».
Ti sei mai chiesto cosa sarebbe successo se avessi scelto diversamente?
Sì, ma so che David cambiava spesso band in base alla musica che voleva fare. Dopo tre o quattro anni probabilmente non avrei più suonato con lui.
Eri già a conoscenza della musica degli Yes, all’epoca?
Conoscevo bene il loro manager, Brian Lane. Avevo sentito The Yes Album appena uscito e li avevo anche visti dal vivo: con gli Strawbs avevamo fatto da spalla a un loro concerto a Huddersfield.
Com’è stato prendere il posto di Tony Kaye?
Non difficile. Alcune parti le ho mantenute, ad esempio in Yours Is No Disgrace o Your Move. Poi abbiamo registrato Fragile, che è diventato la base per tutto il futuro, ma continuavamo a suonare anche vecchi brani come Starship Trooper. Quando suoni musica altrui, puoi adattarla al tuo stile purché non alteri l’insieme del suono.
E più avanti ti sei ritrovato di nuovo con Tony Kaye, durante il tour di Union, giusto?
Sì, e siamo andati d’accordo, nessun problema.
In quel periodo hai anche suonato con Elton John in Madman Across the Water. Che ricordi hai di quelle sessioni?
Bellissime. Elton in studio era fantastico. C’era una piccola orchestra, io suonavo l’organo perché Elton non amava farlo. Ci siano incontrati quando lui era presidente del Watford Football Club e io ero direttore del Brentford. A una partita tra le due squadre mi ha detto: «Non mi piace suonare l’organo, lo fai tu?». E così è andata. Ho suonato anche dal vivo con lui, credo alla Royal Festival Hall. È stato un grande piacere. Ho enorme rispetto per Elton: oltre che un compositore incredibile, è un pianista eccezionale, e a volte questo si dimentica.
Hai nominato Brian Lane: si dice che volesse metterti insieme a Bill Bruford e John Wetton per formare una band.
In realtà l’idea era nostra, di me, John e Bill. Abbiamo lavorato molto insieme a casa mia nel Buckinghamshire, abbiamo scritto parecchio. Brian avrebbe dovuto gestirci. Ma poi qualche giornale ha dato notizia della band Wakeman-Wetton-Bruford e le case discografiche – ciascuno di noi era sotto contratto con etichette diverse – sono andate su tutte le furie. Ci siamo visti a casa mia e ci siamo detto: non ce la facciamo, noi vogliamo solo fare musica. Era l’inizio del periodo in cui le case discografiche venivano gestite da contabili e avvocati. E così abbiamo mollato tutto.
Nessuno di quei brani è stato pubblicato?
Alcuni frammenti sì. Bill ha usato un pezzo ritmico chiamato Beelzebub nel suo primo album solista e John ha ripreso alcune idee qua e là.
Sei ancora in contatto con Bill?
Certo, siamo ottimi amici. Il fatto che sia tornato a esibirsi ora non mi sorprende, perché è un musicista favoloso, un percussionista unico. Ho capito, ai tempi, le sue ragioni per il ritiro e oggi rispetto la sua decisione di tornare a suonare. John invece è scomparso nel 2017. Io e lui abbiamo provato più volte a formare un gruppo, ma non siamo mai riusciti a concretizzare per colpa dei soliti manager e agenti che mettevano bocca su tutto.
Quando hai lasciato gli Yes per la prima volta avevi appena avuto un grande successo solista con The Six Wives of Henry VIII. Ha influenzato la tua decisione?
No, per niente. Tutto ciò che ho fatto è sempre dipeso solo dalla musica. Stavamo lavorando a Tales from Topographic Oceans, che a mio parere non era un vero album degli Yes. Non mi piaceva il modo in cui era costruito. La musica è dare e avere: devi dare qualcosa, ma anche ricevere qualcosa. E io non sentivo di poter ricevere nulla da quell’accozzaglia di note, quindi non avevo molto da dare.
Però le tue parti su quel disco sono ottime.
Sì, ci sono bei momenti ma secondo me avrebbe dovuto essere un album singolo. Troppi “riempitivi” e gli Yes non erano fatti per i riempitivi. Ricordo tutti in studio a improvvisare per allungare i pezzi e pensavo: non è così che dovrebbe funzionare negli Yes.
C’era anche un nuovo membro, Alan White, appena arrivato.
Un grande batterista, ma ancora non abituato al metodo Yes. Diversissimo da Bill Bruford ed era giusto così. Non serviva un clone di Bill, serviva un batterista più rock.
Mentre lavoravate a Tales from Topographic Oceans hai registrato anche con i Black Sabbath. Ti è sembrato strano in qualche modo?
Per me la musica o è buona o non lo è, indipendentemente dal genere. Amavo molto i Sabbath e il modo in cui creavano il loro heavy metal. Ozzy e Tony sapevano cosa stavano cercando di creare.
Come hai preso la morte di Ozzy?
Malissimo… Qualche giorno fa ero a Birmingham e ovunque andassi c’erano foto e murales di Ozzy. Era un personaggio unico e con Sharon ha formato la coppia perfetta per lo showbiz. Penso che il mondo della musica sentirà la mancanza di Ozzy… certamente a me manca tanto.
Recentemente è venuto a mancare anche Dave Cousins. Purtroppo gli Strawbs non sono mai stati visti come una band molto influente e questo rende la sua scomparsa ancora più triste…
La tragedia è stata davvero quando sono diventati una pop band con canzoni come Part of the Union. Quando Dave ha cercato di riportarsi nel campo del folk-rock il danno era stato fatto. Ma hanno composto alcune grandi canzoni: Where Is This Dream of Your Youth, Martin Luther King’s Dream e Sheep indicano cosa sarebbero potuti diventare gli Strawbs se avessero continuato sulla stessa strada. Sono molto orgoglioso del tempo trascorso con loro, anche se è durato solo poco più di un anno.

Foto: Antonio De Sarno
Tornando agli Yes, hai ascoltato Relayer quando è uscito?
È stato interessante, perché da BBC Radio 1 mi avevano chiesto se volevo dire cosa ne pensavo. E così ho fatto. Ho ascoltato l’album e mi hanno chiesto: «Allora, che ne pensi?». Ho detto: «Beh, la verità è che è esattamente ciò che mi aspettavo fosse. Molto più influenzato dal jazz, meno melodia, più ritmo». E ho aggiunto: «Penso che sia una gran cosa». Mi hanno chiesto perché e ho risposto: «Perché dimostra che ho fatto la scelta giusta ad andarmene. Non avrei potuto contribuire con nemmeno una nota a questo album».
Quando nel 1976 sei rientrato per Going for the One sentivi che eravate di nuovo allineati?
Assolutamente. Quando ho ascoltato per la prima volta alcune delle canzoni che avevano cominciato a scrivere, tipo Wondrous Stories e Awaken, ho detto: «Questo è l’album che sarebbe dovuto venire dopo Yessongs».
Davvero?
Sì. E Jon ha detto: «Probabilmente hai ragione».
Ti sei riunito con gli ex Yes per il disco a nome Anderson Bruford Wakeman Howe. Com’è stata quell’esperienza, a ripensarci ora?
Anderson Bruford Wakeman Howe è stato uno strano spin-off degli Yes che sarebbe dovuto andare avanti. Purtroppo, si è fuso con gli Yes in America e questo ha rovinato tutto con un album molto debole, Union, ma ha anche dato vita a un brillante tour in otto che non dimenticherò mai.
Nel 2010 hai pubblicato un album con Jon Anderson, The Living Tree. Com’è nato questo progetto?
Sia io che Jon sentivamo che molta musica si era allontanata troppo dalla melodia e dai temi memorabili e The Living Tree in un certo senso serviva a riaffermare quei valori. I tour acustici che abbiamo fatto in seguito sono stati davvero ben accolti. Ci è stato chiesto di fare di più, ma entrambi sentivamo di aver raggiunto ciò che ci eravamo prefissati. Sono invece rimasto deluso dal fatto che non mi sia stato chiesto di avere un qualche coinvolgimento nell’album Symphonic Live, perché pensavo che le orchestrazioni non rendessero giustizia alla musica. Tuttavia, all’epoca non ero nella band, quindi capisco perché non mi è stato chiesto di partecipare.
Che fine ha fatto invece il progetto con Jon e Trevor Rabin? I concerti sono stati fantastici, ma non è uscito alcun album in studio.
È stato frustrante per tutti e tre. L’unico modo in cui sarebbe potuto accadere sarebbe stato trascorrere alcune settimane tutti insieme nella stessa stanza a giocare con le idee. Ma dove? Vivevamo tutti molto distanti e per due di noi trasferirsi sarebbe costato troppo, e nessuna etichetta discografica era disposta a coprire le spese.
Hai spesso parlato di Lisztomania come di un progetto tanto folle quanto affascinante. Che esperienza è stata lavorare con un regista Ken Russell?
Russell era completamente pazzo, nel miglior senso possibile. Lisztomania è stata un’esperienza surreale, caotica, e per certi versi esilarante. Ken aveva visioni estreme, ma anche un incredibile senso visivo. Non sempre era facile capirsi, ma ci stimavamo molto. Io cercavo di dare una coerenza musicale a quel delirio visivo, e lui amava spingere tutto al limite. È stato un viaggio creativo irripetibile, e penso che quel film, pur così bizzarro, racconti bene la sua epoca.
Hai mai pensato di scrivere un’autobiografia definitiva, completa, ora che hai così tante storie e riflessioni da condividere?
Me lo chiedono spesso. In realtà ho già scritto alcuni libri, ma mai un’autobiografia “totale”. Il problema è che la mia vita è stata talmente piena che servirebbero dieci volumi (ride). Però sì, ci sto pensando seriamente. Voglio scrivere qualcosa che racconti non solo la mia carriera, ma anche la mia visione della musica, l’amicizia, la fede, il senso dell’umorismo. Tutto ciò che mi ha tenuto in equilibrio finora.
Durante la trasmissione inglese This Is Your Life a te dedicata hai detto di aver avuto tre attacchi di cuore prima dei 25 anni, due matrimoni e di aver perso 10 milioni di sterline all’inizio dei 30 anni.
L’ho detto davvero?! Wow, ho avuto una vita interessante, questo è certo (ride).
Hai anche aggiunto «Ma poi le cose sono migliorate».
Ero un grande bevitore, ma ciò che mi ha salvato la vita è non avere mai preso droghe, non ho nemmeno mai fumato uno spinello. Ho smesso di bere nel 1985 e ho smesso di fumare sigarette nel 1979. Sto con Rachel, la mia quarta moglie, da 24 anni e siamo molto felici.
Come ti sei sentito ad avere una serie di francobolli che celebrano la tua carriera? Te lo saresti mai aspettato?
Di certo no! Mi sento molto onorato. Sono rimasto sorpreso da ciò quasi quanto dal ricevere il titolo di Comandante dell’Ordine dell’Impero Britannico, di cui sono immensamente orgoglioso.
Hai degli eroi musicali?
Sergei Prokofiev. Conosceva tutte le regole e sapeva anche come infrangerle. Raccontava storie con la musica, e questa è una grande ispirazione per me in quello che cerco di fare.

Foto: Antonio De Sarno
Qualche anno fa hai pubblicato un album di canzoni dei Beatles. Quando hai sentito per la prima volta la loro musica, e quanto ti hanno influenzato?
Li ho sentiti come tutti, credo. Sono nato nel 1949 e ngli anni ’60 quando hanno pubblicato i primi dischi, da Love Me Do in poi, li ascoltavano tutti. Tutti sono stati influenzati dai Beatles, in un modo o nell’altro. Per me il loro grande segreto era la melodia. Tutto ciò che scrivevano aveva la giusta melodia. Anzi, direi due segreti: la melodia e George Martin. Il suo lavoro come produttore era straordinario.
Lo hai mai incontrato?
Certo, conoscevo bene George, ho pranzato con lui diverse volte e sapevo che capiva perfettamente cosa volessero i Beatles, soprattutto i due principali autori. Sapeva portare la loro musica a un livello superiore, e lo faceva in modo incredibile. Così a un certo punto mi è venuta l’idea di prendere alcune di quelle grandi melodie e farne un album strumentale che ho chiamato semplicemente Tribute, usando gli strumenti elettronici dell’epoca. È un album interessante, una testimonianza del suono di quel periodo, e mi sono divertito moltissimo a farlo.
Guardando indietro, c’è un momento che consideri il più importante o decisivo della tua carriera?
Difficile sceglierne uno solo. Forse il giorno in cui ho deciso di lasciare gli Yes la prima volta. È stata una decisione sofferta ma necessaria. Da lì ho capito che dovevo seguire il mio istinto, sempre. Anche quando è difficile o impopolare. È ciò che mi ha permesso di restare fedele a me stesso per tutta la vita.
Hai qualche sogno musicale che non hai realizzato?
Sì, molti. Mi piacerebbe scrivere una grande opera sacra. Qualcosa che unisca musica sinfonica, cori e voce narrante, ma senza essere un’opera tradizionale.
Sei ancora un ragazzo curioso, nonostante tutto.
(Ride) Spero di sì. La curiosità è ciò che ti tiene vivo. Appena smetti di essere curioso è finita. Io ho sempre mille idee in testa, e finché potrò suonerò, scriverò, registrerò. È l’unica cosa che so fare, e l’unica cosa che mi rende davvero felice.












