La storia dei veri Stillwater, la band di ‘Almost Famous’ | Rolling Stone Italia
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La storia dei veri Stillwater, la band di ‘Almost Famous’

Negli anni '70, sette rocker giravano il Sud degli Stati Uniti in cerca di gloria. Anche loro, come la band fittizia inventata da Cameron Crowe, erano quasi famosi. E anche loro si tuffavano in piscina da altezze improbabili

La storia dei veri Stillwater, la band di ‘Almost Famous’

Gli Stillwater in posa al Lakeside Park di Macon, Georgia, nel 1976

Foto: Herb Kossover/Mark Pucci Media

Uno s’è lanciato dal balcone di un hotel dritto in piscina. Un altro ha quasi perso il tour bus dopo aver bisbocciato un po’ troppo a fine concerto. Passavano del tempo con le groupie, movimentavano i viaggi con festini vari, finivano sui giornali accompagnati dal titolo “Stillwater Runs Deep”.

Sembra il ritratto degli Stillwater, la band fittizia protagonista di Almost Famous. Ma è anche la storia di un vero gruppo attivo negli anni ’70 e chiamato proprio Stillwater. Pochi li conoscevano, persino Cameron Crowe non ricorda granché di loro. Non viaggiavano su un aereo privato e non sono mai finiti sulla copertina di Rolling Stone, come quelli del film. Ma negli anni ’70 hanno centrato una hit minore e hanno pubblicato due album per l’etichetta di Allman Brothers Band e Marshall Tucker Band.

Proprio come i loro omonimi usciti dalla fantasia di Crowe, gli Stillwater hanno sfiorato il successo. «Eravamo quasi famosi, ecco che cosa ci accomuna a loro», dice il chitarrista Mike Causey.

Per com’era il rock negli anni ’70, gli Stillwater avrebbero dovuto ottenere più successo. Buona parte di loro veniva da Warner Robins, Georgia, una cittadina appena fuori da Macon nota per la base dell’aeronautica militare che ospitava. Si erano fatti le ossa suonando in gruppi rock e soul, adoravano i Doors ed Eric Clapton. È stato ascoltando Joe Cocker che il cantante Jimmy Hall ha capito quel che voleva fare nella vita.

È stato nel 1972 che Causey ha conosciuto il chitarrista Bobby Golden al Georgia College. I due hanno mollato la scuola e messo in piedi una band con Hall, il batterista e a volte cantante Sebie Lacey, il tastierista Bob Spearman e in seguito il bassista Allison “Al” Scarborough. Si conoscevano più o meno tutti dai tempi del liceo. Il nome Stillwater l’ha ideato Causey ispirandosi a quello di una vecchia band in cui suonava Golden, i Coldwater. «L’ho buttato lì mentre eravamo nella cucina di casa mia. Piaceva a tutti e ce lo siamo tenuti», ricorda Causey. «M’è venuto così, dal nulla».

Come da manuale rock’n’roll, gli Stillwater vivevano assieme a Kathleen, Georgia. Suonavano nei bar del posto, giravano con la Pontiac di Lacey. Sono poi diventati la house band dell’Uncle Sam, un club importante di Macon. Non potevano scegliere un momento migliore per cominciare a far musica: il rock sudista era al culmine della popolarità e la Capricorn Records ne era il centro nevralgico.

È stato proprio all’Uncle Sam, una sera nel 1974, che gli Stillwater hanno conosciuto il produttore Tom Dowd, che aveva lavorato con l’Allman e Clapton. Lo circondarono e lo pregarono letteralmente di produrre il loro demo. Down li portò in studio una mattina, ritagliando per loro un po’ di tempo prima di una session di una band locale piuttosto celebre, i Wet Willie.

Il demo non li portò da nessuna parte. Poco dopo la band ha aggiunto un altro chitarrista, nato in Germania. Con l’arrivo di Rob Walker erano ora un gruppo con tre chitarre, come i Lynyrd Skynyrd e gli Outlaws. Cominciavano a farsi notare. «Non suonavano il tipico rock sudista o il solito rock-blues», dice Jimmy Hall dei Wet Willie. «Usavano le chitarre come facevamo noi, la Marshall Tucker Band, gli Almann. Ma erano diversi e cool».

In un articolo di giornale intitolato “La rock band Stillwater alza un polverone”, Golden raccontava che la loro musica «non è basata sul solito Southern boogie che la gente associa a cappelli da cowboy, birra e casini vari». L’autore dell’articolo scriveva che la loro musica si collocava «da qualche parte fra l’hard blues e l’heavy metal». In quello stesso articolo si citava Cameron Crowe, riportando una sua battuta secondo cui avrebbero dovuto chiamarsi Wet Tucker Brothers, per via della somiglianza con altre band (Crowe non ricorda di averlo detto anche se ha basato i suoi Stillwater su molte band intervistate negli anni ’70 tra cui Led Zeppelin e Allman).

D’estate la Capricorn organizzava un barbecue. Era l’evento rock a cui andare. Capitava di vedere sul palco l’Allman Brothers Band o Elvis Bishop, ci si divideva l’erba che veniva fatta circolare gratuitamente, arrivavano celebrità come Andy Warhol e Bette Midler. Durante i festeggiamenti del 1976 la BBC filmò gli Stillwater da Uncle Sam per il loro programma Old Grey Whistle Test. A quel punto il capo della Capricorn, Phil Walden, era diventato il manager del gruppo, al fianco del padre di Golden, e loro incidevano per l’etichetta. Furono affidati al produttore Buddy Buie, che aveva centrato delle hit con l’Atlanta Rhythm Section (So Into You, Imaginary Lover) ed era co-autore dei successi anni ’60 Spooky e Stormy.

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Alla fine di quella session, Buie suggerì a Walker di scrivere una canzone sulla “chitarra parlante”, ovvero una chitarra suonata con l’effetto talk box che all’epoca usavano Peter Frampton e Joe Walsh. «Non sapevo che dire», ricorda Walker. «Era un’idea bella strana». I due scrissero Mind Bender, un blues con uno dei testi più strambi mai sentiti in un singolo pop: “Non ero fatto, non avevo bevuto quando ho sentito la chitarra dire…”. A quel punto arriva una parte cantata attraverso il talk box: “Papà era una Gibson, mamma una Fender, ecco perché mi chiamano Mind Bender”.

Nel luglio 1977 la Capricorn pubblicò l’album Stillwater che oltre a Mind Bender conteneva canzoni che mostravano l’ampiezza delle influenze del gruppo: il fingerpicking acustico in April Love, un po’ di R&B alla Boz Scaggs in Universal Fool, un pizzico di pop modello Atlanta Rhythm Section in Rock-N-Roll Lobster. I quasi 10 minuti di Sam’s Jam erano ispirati alle serate passate al club e mettevano in mostra la loro passione per gli assoli di chitarra senza fine.

Alla fine del 1977, l’Allman Brothers Band era collassata e i Lynyrd Skynyrd erano stati decimati da un incidente aereo. Qualcuno pensò che gli Stillwater avrebbero potuto riempire il vuoto. La loro agenzia, la Paragon, fece in modo che aprissero i concerti di Foreigner, Charlie Daniels Band e altri gruppi di grande richiamo all’epoca. Si pensava che sarebbero presto diventati headliner. «Diventeranno delle star», affermava l’Atlanta Journal-Constitution. «Ascoltateli finché siete in tempo».

Gli Stillwater al Peach Blossom Festival di Macon, Georgia, 1976. Foto: Herb Kossover/Mark Pucci Media

Ancor prima di affrontare un vero tour, gli Stillwater hanno vissuto qualche bella avventura. Come la sera in Florida in cui Lacey, non sapendo come ammazzare il tempo prima d’un concerto, decise di fare un tuffo in piscina… un piano alla volta. «Salivo e mi buttavo, risalivo e mi buttavo», ricorda. «Arrivato al terzo piano mi sono tuffato e grazie al cielo ho centrato la piscina, ma il botto mi ha spaccato il culo». Lacey sa che la cosa ricorda la scena del “dio dorato” di Almost Famous. «La gente mi chiede: chi eri nel film? E io: quello che si butta in piscina. Ero giovane e pazzo». S’è fermato solo quando una donna delle pulizie lo ha pregato, preoccupata, di non buttarsi da più in alto, per non farsi davvero male.

Quando s’è trattato di promuovere l’album, la band è andata in giro per il Paese a bordo di un tour bus. Oggi dicono che i racconti della vita on the road di Almost Famous sono veritieri. «Magari non la parte sul considerare i giornalisti dei nemici, ma le scene di backstage lo sono», dice Walker. «Il film racconta bene la dinamica interna alla band, le cazzate, i viaggi assieme, le scene sul bus. È tutto accurato». Niente cori su Tiny Dancer, però: per Walker è «troppo pop».

Gli Stillwater volevano suonare al meglio delle loro possibilità e perciò si ripromisero di sballarsi solo dopo i concerti, mai prima. Le band che incontravano trovano la cosa strana, ricorda Scarborough, ma loro avevano una gran voglia di farcela, anche se non rinunciavano alle, diciamo così, gratifiche post concerto. Un reporter del Tampa Tribune descriveva nel 1977 una scena vista nel backstage: «Si rifà viva un’amica, che in precedenza aveva invitato tutti quanti a una festa da qualche parte lì vicino. Alcuni membri della band rumoreggiano. “La vita sulla strada ha i suoi pregi”, dice uno di loro». Una notte, durante un viaggio di ritorno a casa, gli Stillwater hanno affiancato un’auto piena di ragazze. Hanno accostato, si sono scolati con le ragazze qualche birra e le hanno seguite fino a New Orleans. Avevano la loro Penny Lane? «Beh», risponde Lacey strascinando le parole, «avevamo la nostra versione di tante cose».

Un po’ come gli Stillwater di Crowe, anche quelli veri non hanno mai raggiunto il grande successo. Mind Bender ha sfiorato la Top 40, ma pochi giorni dopo l’inizio del loro primo tour, in apertura degli Outlaws, il camion contenente la loro attrezzatura è stato rubato a Chicago. Di tutta quella roba non restavano che un paio di scarpe da ginnastica di uno dei musicisti. Gli Stillwater tornarono a casa depressi e ci volle un mese per recuperare i fondi necessari a mettere assieme la nuova attrezzatura. «Che gran casino», dice Scarborough. «Avevamo una hit e non potevamo spingerla».

Come se non bastasse, poco dopo la pubblicazione di Stillwater, la Capricorn cambiò distributore, col risultato che in quel periodo non si trovava in giro il disco. Ben presto anche la promozione si fermò. «Suonavano da qualche parte, veniva da noi un rappresentante del primo distributore e ci diceva: “Ehi, ragazzi, mi hanno detto di andarci piano col vostro disco”». Né fu d’aiuto la stampa di alcuni singoli di Mind Bender con la scritta “Arte Stillwater”: qualcuno aveva male interpretato la scritta “Artist: Stillwater”. «Con la Capricorn si lavorava bene», dice Walker, «ma abbiamo avuto i nostri momenti alla Spinal Tap».

Se non altro, un parco divertimenti Six Flags ad Atlanta lanciò «le prime montagne russe al mondo con un triplo giro della morte» e le chiamò Mindbender. Gli Stillwater furono invitati a suonare al parco e a fare il giro inaugurale. «Siamo saliti sul Mindbender prima di suonare», ricorda Walker, un’altra scena degna di Spinal Tap. «Eravamo gli unici a bordo».

Gli Stillwater alzarono il volume per il secondo album, I Reserve the Right del 1978. Nella title track in stile Skynyrd e in Keeping Myself Alive le influenze sudiste erano meno evidenti a favore di suono hard rock più mainstream, con in più la potenziale hit Women (Beautiful Women) in stile yacht rock cantata da Lacey. «La disco music era sempre più popolare», ricorda Scarborough. «Cercammo di svecchiare il suono mescolando rock, soul e disco». Mentre aprivano per i Cars a Boston, capirono che il loro stile era tramontato. I fan erano gentili, ma di certo non entusiasti. «Aspettavano i Cars e basta. Forse non piacevamo».

L’album non andava granché bene e il declino della Capricorn non era d’aiuto. Con la crisi dell’industria discografica del 1979, l’etichetta non riusciva più a ripagare i debiti e dichiarò bancarotta. Alcuni membri degli Stillwater testimoniarono in tribunale. Furono costernati da quel che videro. «Pensammo: è tutto finito», dice Hall, che ha lasciato la band nel 1980. Sua moglie era incinta e doveva guadagnare più dei 100 dollari a settimana che metteva assieme con la band.

Il gruppo continuò con un nuovo batterista (David Heck) in modo che Lacey potesse cantare di più. Ma i problemi non erano finiti. Rifiutarono un contratto con una major con l’idea di firmare con un’etichetta del Colorado, dove si trasferirono brevemente. Ma quel contratto non è mai arrivato.

Una volta tornati a casa, i concerti diventarono più rari e tristi. Nel 1983 arrivarono a un locale per suonare, scoprendo che si trattava di un bar nel mezzo del nulla. «Dai club eravamo passati ai veri concerti e ora tornavano ai club e poi ai bar» dice Walker sospirando. Era finita e lo sapevano. Come dice Scarborough, era il momento di mollare.

A quel punto, le vite dei membri degli Stillwater divennero ben poco rock’n’roll. Con bollette da pagare e famiglie da mantenere, i musicisti hanno fatto di tutto. Hanno venduto pubblicità, prodotto imballaggi, posato moquette, fatto gli elettricisti e i postini. «Dovevamo trovare qualcosa d’altro da fare», dice Causey. «Eravamo delusi, ma avevamo dato il meglio. Eravamo tornati al mondo reale».

Per tenersi in forma e non abbandonare del tutto la musica, gli Stillwater hanno continuato a riunirsi una volta all’anno, suonando in un club locale. Nel 1998 hanno autoprodotto l’album Runnin’ Free composto in buona parte da materiale abbozzato prima dello scioglimento e rifinito dopo 15 anni. I master dei primi due album sono andati perduti e i dischi non sono stati più ristampati.

Nel 2000 Lacey, che allora (e tutt’oggi) gestisce un lavaggio a secco a Warner Robins, era a casa quando è arrivata una telefonata. In linea c’era una dirigente della DreamWorks. «Mi disse: stiamo cercando di entrare in contatto con i tipi degli Stillwater», ricorda. «Credevo fosse uno scherzo». Le chiese come l’aveva trovato. Rispose che non c’erano molte persone di nome Sebie Lacey a Kathleen, Georgia.

Quel che Lacey e i suoi ex compagni non sapevano è che in lavorazione c’era un film chiamato Almost Famous e che la DreamWorks voleva assicurandosi che fosse tutto ok sul fronte dei diritti. Avevano trovato la vera Penny Lane e avuto il suo benestare per l’uso del nome. Avevano fatto ulteriori ricerche scoprendo che c’era stata davvero una band chiamata Stillwater, come quella del film.

La notizia aveva sorpreso persino Crowe, che non ricordava la band e aveva scelto quel nome per altri motivi. «Evocava il fatto che la carriera del gruppo fosse stagnante», ricorda ridendo. «Mi piaceva l’idea che Russell Hammond suonasse con una band con quel nome. Lo trovavo divertente e ironico».

La DreamWorks rassicurò i veri Stillwater: il film non li avrebbe messi in imbarazzo e per provarlo inviò loro parti del copione. Alla band il film piacque, lo trovavano più autentico di quanto immaginavano. «La gente ci chiedeva se era basato su di noi», dice Causey. «Che strano essere legati a un nome per una vita e poi trovarlo in un film».

Non c’era speranza che la colonna sonora includesse almeno uno dei pezzi del gruppo: le canzoni, alcune delle quali scritte da Nancy Wilson delle Heart, erano già state decise. Se non altro, la band ha ricevuto un pagamento a fronte dell’uso del nome, anche se non esattamente hollywoodiano: 5000 dollari, da dividere in sette parti. «Non era granché, ma abbiamo pensato che avremmo ricavato un po’ di pubblicità», dice Lacey.

Avevano ragione. «Sempre più gente diceva: ho letto da qualche parte che era una vera band», ricorda Walker. «C’era molta disinformazione, ma era tutta pubblicità. Ed era eccitante. La gente sentiva parlare di noi per la prima volta». Gli Stillwater suonano ancora nella loro zona senza Spearman, che è morto di cancro nel 2003. Hall è sopravvissuto a un tumore e sale sul palco con loro solo di rado.

Nessuno dei membri degli Stillwater ha lasciato il proprio lavoro, ma i bei ricordi non mancano, come la volta in cui Gregg Allman ha versato per sbaglio un bicchiere di scotch in un loro amplificatore e si è offerto di ripagarlo (i roadies sono riusciti a ripararlo). O Cher, al tempo era la moglie di Allman, che li ha visti esibirsi dal lato del palco in uno dei barbecue della Capricorn. O ancora, suonare con Bo Diddley da Uncle Sam e farlo con tanto impegno da essere ricoverato il giorno dopo, così dice Lacey, per farsi rimuovere l’appendice. O la sera in cui si sono esibiti al Winterland di San Francisco in apertura di Charlie Daniels e la gente è andata fuori di testa. Come dice Lacey, «non abbiamo sfondato, ma in fondo non è andata malaccio».

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US