Rolling Stone Italia

La solitudine del numero Tre

Dopo il successo di ‘Ali’, arrivato al primo posto in classifica, il rapper romano Il Tre torna con un disco, ‘Invisibili’, in cui affronta demoni e tristezza: «La mia più grande paura è restare solo»

Foto press

Guido Luigi Senia ha una certa confidenza con la parola tristezza. Triste sarà l’aggettivo che userà più spesso, per presentare il suo nuovo disco Invisibili, senza timore di ripetersi. Non sembra temere nemmeno di apparire un po’ distratto, come se avesse fretta di rispondere alle domande, con l’aria di uno che ha molte cose da fare, e tutte più urgenti di questa chiacchierata via Zoom.

D’altronde Guido, che ha 26 anni appena compiuti e in arte è Il Tre, mi parla mentre manca solo una manciata di ore dall’uscita dell’album, che a differenza del suo nickname si porta appresso un altro numero, quello più temuto dai musicisti, quello leggendariamente più ostico, e cioè il due. Glielo chiedo, se ha la percezione che stia gravitando su di lui l’aura di questa sorta di creatura mitologica che è diventato il secondo disco, e ammette che, sì, la sente. In particolare, spiega, perché «questo secondo lavoro arriva dopo un debutto (Ali, uscito nel 2021, che s’è portato a casa quattro dischi di platino e due dischi d’oro, piazzandosi subito al primo posto della classica Fimi, ndr) che ora sta a più di 200 milioni di ascolti. Replicare, anche solo in termini di numeri sarà una bella impresa».

I numeri, parafrasando Nanni Moretti, sono importanti. Non lo nega Guido, che tuttavia fa non una questione di soldi, «ma di ego». C’è – e si intravede dietro i modi gentili, dietro la timidezza – un’ambizione grande di un ragazzo che punta parecchio in alto.

A fugare ogni dubbio sul fatto che nei due anni che sono trascorsi tra i due dischi Il Tre si sia preparato a fare il grande salto ci pensano le 12 tracce che compongono Invisibili. Che è un disco-ottovolante: si apre con Amen, traccia incazzatissima, e si chiude con Lettera a mio padre, la canzone più intima e dolce che più che raccontata va ascoltata. In mezzo c’è di tutto: dalle vibes anni ’90, con loop a cassa dritta di Blackout, il brano più sperimentale e caotico prodotto insieme a Mr Monkey, al rap puro e crudo delle origini di Coolin Break in cui butta in mezzo Nitro ed Enzo Dong, fino al pop scuro della title track, che mette in luce le doti di cantante de Il Tre. Un pezzo che sarebbe stato benissimo sul palco di Sanremo, per capirci, costruito «su una mia improvvisazione al pianoforte, attorno alla quale sono poi nate le strofe che parlano di quella che è la mia più grande paura, che penso sia condivisa dal 99, anzi dal 100% delle persone, e cioè la solitudine. La mia più grande paura era d’essere invisibile. Le persone fanno di tutto per non esserlo, comprano vestiti, gioielli o macchine costose per farsi notare da occhi che nemmeno conoscono. Io non volevo farmi notare, io volevo dimostrare a me stesso che la strada su cui stavo correndo era reale e catturare l’attenzione di chi non mi aveva mai degnato neanche di uno sguardo».

Non ha anche un significato politico, questa traccia, non racconta delle persone messe ai margini dalla società, ci tiene a precisarlo Il Tre, ma non perché se ne freghi della questione, ma per il fatto che si sente un artista più votato al racconto «intimo che non a quello, diciamo, attivista. L’essere invisibile, sentire il vuoto attorno di punto in bianco è il mostro contro cui combatto da sempre, di questo parlo nella title track».

Foto press

Quindi più che di perdere il successo il terrore è quello di rimanere solo? «Sì, che cosa te fai del successo se non lo puoi condividere con qualcuno? Anche nell’outro, che è Lettera a mio padre, oltre a esprimergli tutto il mio amore e la mia gratitudine perché come ho detto tante volte la mia è una storia di vita che si basa su una famiglia felice che è e sarà sempre il mio punto di riferimento, gli dico anche che ho tantissima paura di perderlo. Senza i miei genitori mi sentirei il più solo al mondo».

C’è un po’ di nodo in gola, e allora lo riporto a un viaggio che ha portato alla cover, al teaser e «molto altro che non vedo l’ora di poter condividere con i fan», a Invisibili. Un viaggio in Islanda, luogo amatissimo dai musicisti in cerca di ispirazioni e che a Guido ha regalato tutto quello che si aspettava da questo incontro. «Il disco è freddo, triste ma anche forte, rabbioso come l’oceano quando si incazza. L’Islanda era il posto perfetto per rappresentare visivamente Invisibili, anche per l’energia a volte malinconica, a volte cupa, che sprigiona la natura. Ci abbiamo passato parecchi giorni, abbiamo tanto materiale secondo me super figo che segna un punto di svolta per me, una crescita anche nel campo dei videoclip».

Un video, in questo caso molto legato alle origini de Il Tre, è già uscito e non poteva che essere quello del quarto capitolo della saga Cracovia. Se due anni fa aveva detto che non era certo che ci sarebbe stata una parte 4, oggi sappiamo che le aspettative dei fan della prima ora non rimarranno deluse. Extrabeat velocissimo, linguaggio crudo, barre perfette per chi ama Guido fin da suoi esordi (“sto mondo mi fa schifo, se penso che fuori c’è qualcuno che mi parla in corsivo”): Cracovia pt. 4 è «semplicemente il mio cavallo di battaglia. È da dove vengo io. Sono nato così, facendo quella roba lì (ha cominciato con le battle di freestyle, ndr). Ed è giusto che la porti avanti: un po’ perché mi piace, un po’ perché onestamente mi viene bene».

Gli dico che la cosa che mi ha divertita di più di questo lavoro non è stata tanto la parte action da videogame iperviolento che accompagna la traccia, ma l’inizio, recitato insieme all’attore Francesco Montanari, che punta su qualcosa di sempre meno presente nel rap: l’ironia.

«Ad oggi è vero» concorda Guido, «c’è un po’ di carenza di ironia tra i rapper. Se penso ai video di Eminem degli anni Duemila erano super ironici e anche per quello sono diventato un suo grandissimo fan. Però io come persona, sia su Instagram che durante i live, sono molto ironico, faccio battute, non m’atteggio, cerco di creare un’atmosfera famigliare. D’altronde ci sono ragazzi che sono letteralmente cresciuti con me, e io con loro. Ieri una ragazza mi ha scritto che mi segue da quando ha 13 anni, ora ne ha 18. Ecco, cose come questa allontano il fantasma della solitudine».

I suoi fan, gli faccio notare, s’aspettano tanto da lui e lo si capisce leggendo i commenti sotto ai suoi video: è solo una cosa esclusivamente positiva o porta con sé una certa pressione? «Per me è positivo che i fan abbiano aspettative alte nei miei confronti. Sanno che posso fare il pezzo super tecnico e quello super triste. Sanno che sono capace di parlare di loro. Come ho scelto di fare ne Il coraggio della paura, l’unico brano in cui non sono protagonista. Ho elaborato pensieri, parole per raccontare la storia di una ragazza che conosco e che ha una storia famigliare opposta alla mia, fatta di abusi, dolore e odio. Ha un valore importante, per il messaggio che può far arrivare, un messaggio di sofferenza e di denuncia».

Gli chiedo se pensa sia tanto più importante in un momento come questo, nel quale siamo inondati di notizie di cronaca che parlano proprio di violenza sulle donne. «Il periodo è quello che è, però vorrei che non si generalizzasse nei confronti dei maschi. Queste cose accadono, accadranno sempre, purtroppo non siamo tutte persone con la stessa educazione, con la stessa cultura basata su principi di rispetto e non violenza. E sì, sono felice che nel disco ci sia questo pezzo perché so che molte persone ci si ritroveranno e spero che anche in piccola parte le possa far sentire, tanto per sottolineare di nuovo il concetto».

L’ultima cosa che dico a Guido è che credo che si debba avere la speranza che quelle cose possano non accadere più, invece di arrendersi all’idea che siano in qualche modo inevitabili. Lui rimane in silenzio, non ribatte. Ora lo vedo, lo sguardo triste. Forse ce l’ho anche io, e ci salutiamo così.

Iscriviti