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La sfida di Colombre: uscire dal limbo della quarantena con un disco

Prende il nome da un racconto di Dino Buzzati, fa musica d'autore lontana dall'itpop, non ama i testi-slogan. E il suo nuovo album 'Corallo' è un concept sulle relazioni interpersonali

Foto: Guido Gazzilli

“Il Colombre” è il titolo di un famoso racconto di Dino Buzzati che dà a propria volta il nome a una raccolta, Il Colombre e altri cinquanta racconti, edita nel 1966. Quella del Colombre fatta da Buzzati è una rappresentazione, insieme, del colore e delle ombre, l’unione di un aspetto oscuro e di uno luminoso, in un contrasto che alla fine risulta quasi grottesco e straniante. E Colombre è il nome d’arte scelto da Giovanni Imparato che ha appena pubblicato il secondo album Corallo. Oltre a Pulviscolo del 2017, ha alle spalle due EP e un disco con i Chewingum e diverse produzioni per Maria Antonietta. Ha suonato la chitarra nella band di Calcutta durante l’ultimo tour estivo e ha continuato ad affiancarlo, con il resto del gruppo, anche nel più recente slot di date europee.

«Mi sembra quasi di essere stato chiamato a questa piccola sfida proprio a partire da questo nome che mi sono scelto, dal racconto di Buzzati, cioè la sfida di far uscire un disco in un momento come questo, provare a mettere nel mio piccolo qualcosa di luminoso in questo momento oscuro. Mi sento scisso, da un lato ho questo desiderio di far sapere che questo è un lavoro pieno di mie energie, intenzioni, tempo, però al tempo stesso mi faccio scrupoli a pubblicare un disco nella situazione che stiamo attraversando. Abbiamo pensato di accettare questa piccola sfida provando a gestire questo mix di sensazioni e spronarci a vicenda proprio a partire da queste canzoni per trovare una spinta, quella spinta che in questo momento sembra spesso venire meno anche perché la nostra fisicità è bloccata, siamo fermi, in un limbo».

Corallo è un viaggio nell’universo interpersonale, un concept album che è andato formandosi lentamente, non per scelta pregressa ma di certo non per caso, bensì grazie a una cernita accurata tra le tante tracce scritte e a volte registrate negli ultimi tre anni in cui, pur non avendo fatto uscire canzoni, Colombre non è stato fermo mai, continuando a suonare, arrangiare, scrivere. «Sono dell’idea che le canzoni debbano respirare, e che debbano muoversi nel mondo e dentro l’ascoltatore senza quelle ansie contemporanee di dover restare sul pezzo. Questi 8 brani sono rimasti tutti legati da questo pensiero delle relazioni interpersonali. Mi piacciono i dischi corti, anche se alla fine qui ridendo e scherzando sono comunque 30 minuti di musica. Lavoro a tutto qui, vicino a Senigallia, in un casale in campagna dove c’è una comunità per ragazzi con problemi psichici di varia natura, ho una stanza in questo posto dove faccio musica».

Il corallo, se lo tocchi, muore, ma lo puoi osservare a lungo, da angolazioni e prospettive diverse: è un mondo sommerso posato sui fondali, un mondo da esplorare in tutte le sue minuscole forme, le sue sottili diramazioni che prendono vie diverse e inattese. Il corallo, dunque, è la relazione con l’altro, anch’essa sommersa dal quotidiano ma vivace nel suo diramarsi imprevedibilmente con noi e davanti ai nostri occhi. Le canzoni di Colombre osservano questo universo sotterraneo, sono vere e proprie esplorazioni della relazione umana, fedelmente alla storia di Buzzati, anche nelle sue svolte più grottesche.

In queste otto canzoni, a partire già dal primo singolo Non ti prendo la mano, si parla tanto anche della fine dei rapporti, di quei risvolti emotivi delle relazioni che la storia della musica italiana recente ha raccontato meno, tutto ciò che è spiacevole e deludente, la chiusura dei rapporti, la riflessione sui rifiuti inferti e ricevuti. «Mi viene da dire che parlare della fine è molto più stimolante per quello che verrà dopo, perché la fine apre le strade a tutto quello che può succedere, forse è più difficile, ti costringe a confrontarti con le ombre, andando oltre il semplice fatto di soffrire per qualcosa, o di raccontare un fatto come l’amore che c’era e non c’è più, un’amicizia che è finita. Analizzare quello che accade ti porta oltre quello che accade. Non è semplice rivangare ciò che fa male, a me serve farlo nell’ottica del futuro. Se io guardo un rifiuto da vicino, lo immagino già riciclato, prendere in me una vita nuova, diventare altro».

Mai come ora è poi necessario vedere la relazione come una piccola parte delle grandi dinamiche collettive, una questione che attraversa più segretamente il disco, anche attraverso versi-manifesto che emergono da una scrittura ricca, che dà nuova nobiltà all’idea di verbosità in un panorama musicale spesso abitato da sloganistica spicciola. Colombre canta: “Ma per i sogni che hai è indispensabile / non pensare che gli altri siano da buttare via / come fossero avanzi”. «Le dinamiche del rapporto privato vanno a comporre le dinamiche della collettività, io tendo a essere mosso da una certa forma di speranza, senza retorica, credo autenticamente che in una forma di condivisione reale, laica ma sacra, condividere qualcosa di prezioso, spesso persino nascosto. In questo momento che stiamo vivendo per esempio stiamo scoprendo quanto il pensiero per l’altro sia anche la forza delle nostre speranze, del nostro futuro e quindi anche dei nostri sogni del domani».

A parte il pezzo di chiusura, la bellissima Anche tu cambierai che sembra rievocare un mondo italiano di arrangiamenti e aperture fine anni ’60 tra mood crooner e organi, Corallo è il disco di un cantautore che è soprattutto musicista accurato dove in modo inconsueto quella scrittura del testo piena e italianissima incontra luoghi sonori lontani dal terreno sacro del cantautore d’oggi, cioè da quella rievocazione della scuola italiana del passato; un disco che sembra dovere molto alla musica nata lontano da qui, in un felice incontro tra passati e presenti che superano i generi e le classificazioni e mettono insieme Ariel Pink e una certa scena statunitense, e poi il soul e il vaudeville inglese, tra Kinks e McCartney.

«Mi interessa mescolare mondi, Pat Boone, il crooning, la California, certo Mac DeMarco che fa quello che vuole, io ascolto molta musica non italiana anche se naturalmente la musica italiana è la mia formazione. A casa mia da bambino ascoltavamo un sacco Massimo Ranieri perché mio padre, che è di Gragnano, vicino a Sorrento, ha sempre cantato. Cantava nelle feste di piazza e una sera venne notato da uno della RCA che gli chiese di andare a Roma a registrare delle cose. Suo padre, mio nonno, non gli diede il permesso e quelle cose che gli avevano fatto ascoltare, alla fine, le incise Massimo Ranieri. Mio padre non è mai stato scontento di questa cosa. Mia madre suona l’organo in chiesa, suona cose psichedelicissime, con le anziane che cercano di cantare queste melodie che alle fine sono robe più alla Syd Barrett e fa tutto molto ridere. Mio fratello mi ha fatto ascoltare Beatles, Queen, Nirvana, io ascoltavo Discomania Mix e sono stato folgorato. Poi ovviamente da lì tanta roba. In Italia il mio preferito è Franco Battiato per il modo in cui ha attraversato generi e spazi sonori lontani».

«Qui dentro sono finiti ascolti diversissimi, da Isaac Hayes a Bill Withers, mi piace tutto ciò che mi sembra un mondo in cui finire, l’attitudine di Steve Lacy per esempio e il modo in cui vomita Prince. Nelle ultime settimane ho voglia di cose rincuoranti, cose che siano casa, che addolciscano, quindi alla fine ascolto Smile di Brian Wilson».

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