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La saggezza di Chef Rubio

Arriva su DMAX il film “Unto e Bisunto”, ovvero la storia di Chef Rubio, colui che ha portato lo street food in tv. L'abbiamo incontrato

Gabriele Rubini in arte Chef Rubio. Foto: Alessia Leporati

Gabriele Rubini in arte Chef Rubio. Foto: Alessia Leporati

Unti e Bisunti, il programma cult prodotto da Pesci Combattenti sullo street food, il prossimo Natale diventa un film per la tv dal titolo Unto e Bisunto – La vera storia di Chef Rubio, in onda su DMAX (canale 52 del DTT). Nell’ultimo giorno di riprese, siamo andati sul set a Passoscuro, Roma, per incontrare il protagonista, Chef Rubio, al secolo Gabriele Rubini. Il cuoco di Frascati si è presentato con capelli bianchi e un viso “crepato” di rughe e grinze. Invecchiamento precoce? Sbornia pesante? Nessuna delle due: solo, il film metterà in scena la vita dello chef, compreso il suo futuro, nel 2035.

Come ti vedi da vecchio?
Sicuramente non con questi capelli, calvo come un culo.

Unti e Bisunti da programma è diventato un film per la tv. Com’è successo?
Il primo motivo temo sia mio personale: mi annoio in fretta delle cose che funzionano. Abbiamo deciso di provare a fare qualcosa di diverso, di più compatto e intenso, cioè raccontare la storia di come è nato il personaggio di Chef Rubio e della sua ipotetica evoluzione. Una quadra di un viaggio che non ho fatto solo io, ma anche chi mi ha seguito.

Considerate le scene girate e rigirate, quanta roba te sei magnato durante le riprese?
Tanta e tanta. Ne ho pagato anche le conseguenze.

In che modo?
Ho distrutto il mio corpo, però ne è valsa la pena. Mi sono arricchito culturalmente di quello che prima avevo letto solo sui libri. Poi vabbè, c’ho ‘na pellaccia, però è stato impegnativo perché la quantità del cibo, seppur buonissimo, è stata smodata. E ci sono state situazioni poco piacevoli, ma ti risparmio i dettagli…

Ma ne è valsa la pena.
Sempre. Non potrò mai dire nulla di male su ciò che è costato sangue, fatica e soddisfazione a tutte le persone che c’hanno lavorato.

La cosa che mi è sempre piaciuta di Unti e Bisunti è il modo in cui il messaggio che volevate mandare si fondeva con lo stile, e questo messaggio era: lo street food non è qualcosa di serie B. Perciò avete scelto lo stile di B movies, kung fu e western, generi considerati minori fino a quando Quentin Tarantino non li ha rivalutati. Tu ti senti un po’ il Tarantino dello street food?
Beh, magari! Essero anche solo nominato vicino a Tarantino me fa ride. Però, con le giuste proporzioni, non hai detto una scemenza. La messa in scena alla Sergio Leone, con le inquadrature da duello, tra canovacci e coltelli, è pure un modo per tenere incollato lo spettatore sperando che carpisca il messaggio.

Uno degli elementi che mi ha sempre affascinato è il grado di coinvolgimento e di recitazione della gente, sia i cuochi che i passanti, insomma, la gente di strada. Come ci siete riusciti?
Semplice. Abbiamo fatto risentire tutti dei ragazzini. Se li fai parlare senza dirgli “me devi di’ questo, me devi di’ quello”, ma li lasci andare a ruota libera, t’aprono una finestra sul loro cuore e di conseguenza ti mostrano il meglio. Se non si divertono loro e non si emozionano, non mi emoziono io e neanche chi sta a casa. Se so’ presi quei momenti di gloria che sembrano eterni, perché ancora campano con le fiere di paese in cui li riconoscono come gli sfidanti di Unti e Bisunti. Alla fine grazie a loro ha preso voce un popolo.

Della marea di persone che hai incontrato, qual è la storia che t’è rimasta più impressa?
A livello personale mi tocca molto la scomparsa di un amico che purtroppo è morto durante il terremoto del 24 agosto. Era un personaggio della puntata di Amatrice, faceva l’apicoltore. E non parlo di lui perché non c’è più, ma perché mi aveva trasportato nel mondo delle api, un universo che non conosco benissimo, ma che neanche il più esperto conosce in pieno. È una società così ben strutturata e rodata, che sembra anni luce avanti alla nostra. Ci eravamo ripromessi di rivederci e purtroppo non sarà possibile, ma è così che va la vita.

Cosa intendi quando dici che la buona cucina è un nutrimento per il bene sociale?
È un’utopia, ma ci credo. Partiamo da questo: non è quella delle armi la più grande industria mondiale, ma quella alimentare, ed è questa che controlla il mondo. Più della Chiesa, più dei massoni, delle scie chimiche e dei rettiliani. Annientare il palato con sostanze grasse e zuccherine, piene di conservanti, annienta lo stimolo della persona a essere positivo: se mangi delle cose buone, sei sereno, sei propositivo col prossimo e ti unisci, non ti disgreghi. Invece, l’industria alimentare vuole la disgregazione e l’annientamento dell’individuo, un esercito di zombie. Basterebbe conoscere la materia prima, saperla utilizzare e comprarne meno possibile per non sprecarla. Già questo sarebbe un segnale totale. È un’arma che abbiamo, ma che non utilizziamo, perché alla fine non ce ne frega niente. Se ci risvegliamo, prendiamo le palle in mano e decidiamo di combattere, siamo ancora in tempo.

Pensi che il cuoco abbia delle responsabilità rispetto alla società in cui opera?
Credo di sì. È una missione che però portano avanti in pochi, perché sono in pochi a fare davvero il cuoco, intendo il cuoco per missione e vocazione. Lo fanno solo per lavoro. Se poi dovessero ricredersi e intraprendere la via della vocazione, io sarei contento. È fondamentale che il cuoco torni a ricoprire quel ruolo che aveva nelle antiche tribù. Era il guru, il medico, perché non c’erano i medici, perciò se mangiavi bene non ti servivano le medicine. È il cuoco il garante della società.

L’intervista è stata pubblicata su Rolling Stone di dicembre.
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