La rivoluzione parte dal teatro, Malosti: «C’è bisogno di affrontare l’ignoto, come ci ha insegnato David Bowie» | Rolling Stone Italia
Interviste Musica

La rivoluzione parte dal teatro, Malosti: «C’è bisogno di affrontare l’ignoto, come ci ha insegnato David Bowie»

Intervista al direttore artistico (e artista) che sta rilanciando il teatro partendo dall'Emilia Romagna: con ERT 100 titoli in programma, tra sperimentazione e grandi classici, il tutto nel segno di David Bowie che verrà omaggiato in 'Lazarus', l’opera con protagonista Manuel Agnelli

La rivoluzione parte dal teatro, Malosti: «C’è bisogno di affrontare l’ignoto, come ci ha insegnato David Bowie»

Valter Malosti

Foto: Laila Pozzo

Ha mai pensato di mollare? «Ogni giorno». Eppure Valter Malosti, direttore di ERT – Emilia Romagna Teatro, invece di gettare la spugna decide ancora di rilanciare. E stavolta l’ha fatto in grande stile presentando una nuova stagione mastodontica che prevede 100 titoli in programma in 11 spazi teatrali di 4 città (Modena, Bologna, Cesena e Vignola), dei quali 25 in prima assoluta e 9 in prima nazionale, 23 produzioni esecutive, 23 co-produzioni italiane e 5 internazionali. Insomma, se lo sconforto porta a queste reazioni, avercene di direttori che patiscono tali angosce. Non solo, perché oltre ai numeri il valore aggiunto sembra essere la qualità delle proposte, che vanno dai grandi classici («per salvaguardare i maestri come fossero dei “panda”») alla sperimentazione più estrema (uno spettacolo dura più di 5 ore), il tutto veicolato grazie a un atteggiamento inaspettatamente rock, almeno per l’ambiente del teatro italiano.

Non a caso a spiccare fra le varie rappresentazioni c’è Lazarus, ispirato all’opera rock di David Bowie – che debuttò poco prima della sua morte – che vede Malosti alla regia e protagonista Manuel Agnelli (insieme a Casadilego, vincitrice di X Factor 2020, l’attore e regista Roberto Latini e la danzatrice e coreografa Michela Lucenti). Debutterà al Teatro Bonci di Cesena il 22 marzo e proseguirà in una lunga tournée tra l’Emilia-Romagna e le principali città come Roma, Torino, Lugano, Napoli e Milano. Ma Bowie è un po’ il nume tutelare ti tutta la stagione 2023 di ERT, visto che il claim scelto è tratto da un verso di Changes, uno dei suoi brani più famosi: “Turn and face the strange” (voltati e affronta l’ignoto).

Dopo la pandemia, quindi, dall’Emilia Romagna parte una rivoluzione che ha l’intento di dare uno scossone un po’ a tutta la scena nazionale: «Non dobbiamo richiuderci ma reagire con energia e coraggio» ci ha spiegato il direttore artistico, che abbiamo raggiunto nel suo studio bolognese nel Teatro Arena del Sole per capire da cosa nasce questa voglia di sovvertire il modo in cui è percepito il teatro in Italia. Ne è emersa una intervista intima all’artista Malosti – che ha collaborato con Luca Ronconi, Franco Battiato, Ezio Bosso a riprova della sua poliedricità – e nello stesso tempo al responsabile di una grande azienda che a fine anno deve far tornare i bilanci e pagare gli stipendi a centinaia di persone: «La mia generazione non si sia mai presa abbastanza la responsabilità di governo». Sullo sfondo una stagione che si preannuncia memorabile: dalle tragedie di Pasolini, ai giovani da valorizzare partendo dalle scuole, fino ai progetti sperimentali e ai sogni nel cassetto che un giorno potrebbero diventare realtà: «Vorrei Diamanda Galas nei panni di Medea».

Direttore, una nuova stagione teatrale ispirata dal rock e dedicata a David Bowie. Viene spontaneo chiederle qual è il suo rapporto con la musica.
Io sono stato letteralmente salvato dalla musica quando ero ragazzo. È una passione che mi ha tolto dai problemi giganteschi di quel periodo, dalle droghe agli Anni di Piombo. Per fortuna circolava anche una grande musica e io a Torino andavo ai concerti e ho iniziato a collezionare dischi, c’erano delle bancarelle meravigliose, tesori inaspettati, e poi si trovava davvero di tutto, da Stockahusen ai Beatles al beat italiano, quindi erano perfette per me che sono onnivoro. Ma se devo restringere i miei riferimenti a tre idoli scelgo David Bowie, Demetrio Stratos e Carmelo Bene.

Cosa accomuna questi tre grandi artisti?
Una straordinaria energia scenica. Bowie è stato tra i primi nel mondo del rock che ha sfruttato appieno il teatro, continuando a trasformarsi quasi in maniera patologica, salvo poi uccidere quelle maschere alle quali però rimaneva legato. Infatti ogni tanto si ripresentavano.

L’omaggio a Bowie in questa stagione dell’Emilia Romagna Teatro parte già dallo slogan scelto: “Turn and face the strange” (voltati e affronta l’ignoto), un verso tratto da Changes.
Volevamo dare un segnale forte per questa nuova stagione verso l’inatteso, lo strano, l’insolito. Tutte categorie adatte a Bowie ma che anch’io apprezzo. A me piace avventurarmi in territori sconosciuti. Già lo facevo nel mio teatro, carico di energia ed emozioni, un po’ come nel rock.

Come si affronta in modo rock il teatro di oggi?
Dopo due anni ripartiamo con molte influenze esterne legate alla pandemia, alla guerra e alla politica, è necessario non richiudersi ma reagire con energia e coraggio. Le persone che vengono a trovarci a teatro non devono trovare un ripiegamento, ma la voglia di cambiare come ci hanno insegnato i grandi artisti del passato. E prendo spunto dal mio amore per i grandi sperimentatori della musica, da John Cage a Brian Eno, a Stockhausen. Guardiamo con attenzione a quel modo di ricercare incessante e anche al loro pensiero.

Anche Carmelo Bene, citato fra i riferimenti, ha sempre cercato la musicalità nel suo teatro.
E per me è importante unirla alla relazione con le persone. Siamo passati da anni di sperimentazione a anni in cui dominava il contenuto sociale. Ma se prendiamo le opere di Shakespeare, del quale ho tradotto per Einaudi i due poemetti Venere e Adone e Lo stupro di Lucrezia che usciranno a fine novembre, contengono grandi contenuti e storie che ancora oggi ci affascinano, ma nei suoi versi si dispiega la musica. E cioè il senso non è solo nel significato ma anche nel suono dove si sviluppa un altro, o meglio altri ulteriori sensi. Pensiamo a Dante, che sulla carta appare alle giovani generazioni incomprensibile, mentre ad alta voce improvvisamente emana degli “aromi” che riempiono l’aria di profumi insospettabili. Lui stesso parlava della “pantera profumata”, riferendosi alla lingua volgare. Una lingua che suona, appunto. Contenuti, stile tenuti insieme da qualcosa che va oltre. L’ignoto, appunto.

Una delle rappresentazioni più attese è Lazarus, tratto dall’opera che vide David Bowie nella sua ultima apparizione pubblica nel 2015.
Probabilmente, insieme all’album Blackstar, il suo testamento creativo che contiene tanti elementi misteriosi. È il rovello di un uomo che da anni vuole compiere questa impresa e che trovandosi di fronte alla morte ha una reazione non comune di grandissima energia espansiva. È la mente di un uomo che esplode e che ha dentro tutto il nero e il positivo delle nostre esistenze e conserva una luce di speranza. È come Bowie che anche nei periodi più estremi di abusi conservava una grazia e una magnifica luce. Inizialmente uno dei personaggi avrebbe dovuto essere Emma Lazarus. Un suo poema è alla base della Statua della Libertà a New York, un inno ai migranti e all’accoglienza. Incredibile, no? Siamo tutti migranti, siamo tutti stranieri, come il migrante interstellare, ma c’è un porto che ci aspetta e che ci può accogliere. La musica può aiutare molto.

Foto: Gavin Evans

E il protagonista sarà Manuel Agnelli. Una sfida nella sfida?
Manuel è stato molto coraggioso ad accettare. Ha tutto da perdere in un lavoro del genere. È curioso e intelligente, gli piacciono le sfide, mettersi in discussione. Sarà affiancato da artisti di grande valore. Dalla giovanissima e bravissima Casadilego, ad altri due grandi artisti come la danzatrice e coreografa Michela Lucenti e l’attore e regista Roberto Latini. Sarà un’opera molto rock, magmatica, libera, ora sto andando a Londra dal mio amico Enda Walsh per rifinire la versione italiana e guardarci insieme Moonage Daydream che si annuncia meraviglioso.

Dopo la pausa forzata dalla pandemia torna anche il prestigioso VIE Festival. In questo caso quali sono le sfide che vi stimolano di più?
È un appuntamento tradizionale al quale teniamo molto. La curatrice Barbara Regondi va in giro per il mondo a cercare i progetti più curiosi e di valore. Il programma è molto interessante. Come con Imagine del maestro polacco Krystian Lupa, uno spettacolo di oltre 5 ore dove si può uscire e rientrare, un po’ come nel teatro orientale, ma io non ne sono perso neanche un minuto quando l’ho visto a Varsavia! È diviso in due tempi, il primo è una specie di riunione di fantasmi del rock e della poesia del ‘900 dove compare anche John Lennon. Il secondo un viaggio che ricorda da vicino Tarkovsky. C’è molto corpo e ci sono degli attori meravigliosi. Oppure l’opera della giovane regista greca Argyro Chioti dedicata allo scultore Yannoulis Halepas, per la prima volta in Italia. Poi c’è una importante sezione di danza, che noi chiamiamo di drammaturgia fisica, a cura di Michela Lucenti, che debutta anche con il suo spettacolo Karnival, senza dimenticare le produzioni di giovani realtà indipendenti, come i Kepler-452 che debuttano con Il Capitale di Karl Marx e porteranno in scena tre operai della GKN, licenziati via mail. Ma il programma è fitto e invitiamo tutti a venire a vedere di persona che cosa si muove di nuovo nell’arte performativa.

Le giro due provocazioni di grandi del teatro ma di generazioni diverse. Qualche tempo fa i veterani Franco Branciaroli e Umberto Orsini ci dissero: «Il 90% del teatro di oggi è amatoriale». Mentre Leonardo Lidi, poco più che trentenne ci spiegò che «tutto è utile al teatro, ma allo stesso tempo non tutto è teatro».
Penso di essere il trait d’union fra tradizione e quella che viene chiamata ricerca. Sono convinto che in tutte le arti serva di base una grandissima tecnica. Quando ho diretto la scuola del Teatro Stabile di Torino, e Lidi era un mio allievo, ho cercato di dare ai ragazzi la possibilità di avvicinarsi alla grande arte attoriale, che è la nostra tradizione. Sulla base tecnica va poi innestata la curiosità di quello che è accaduto dal ‘900 fino ai giorni nostri. E non solo nel teatro, ma nella musica, nelle arti visive, nella scienza e in tanto altro. Troppo spesso parliamo a persone che la pensano come noi, invece i grandi artisti parlavano e parlano a tutti, scuotono, è questa la loro sfida da cogliere.

Come ci si riesce?
Io adoro mettere insieme persone originali. Bisogna mischiarsi. Non appiattirsi per diventare delle copie di qualcun altro. L’esempio classico è Picasso, considerato il nuovo Michelangelo per la sua sublime capacità nel disegno, e che è stato in grado di una svolta estrema alla pittura con la sua grande libertà unita a dei mezzi tecnici da gigante. Essere come John Cage che in una intervista ha detto di aver avuto l’illuminazione da quando decise di non essere solo un compositore, ma anche un ascoltatore, e capì che la musica era dappertutto, anche nei silenzi assordanti di una camera anecoica, dove Cage sentiva, nel silenzio, due suoni, uno alto e uno basso, e quando li ha descritti al tecnico incaricato questi gli ha spiegato che il suono ad alta frequenza era il suo sistema nervoso in funzione, quello basso era la circolazione del sangue. Sino alla fine dei miei giorni ci saranno suoni, dice Cage, e seguiteranno anche dopo la morte. Non c’è nulla da temere riguardo il futuro della musica. E del teatro aggiungo io.

Tutto questo dovrebbe iniziare, almeno in via preliminare, nelle scuole pubbliche?
Nelle scuole bisogna far arrivare esperienze di alta qualità. Non basta la passione, serve una selezione. È fondamentale il primo incontro e ci vuole attenzione. L’anno scorso ho fatto una tournée di Se questo è un uomo di Primo Levi con incontri nelle scuole. È stato bellissimo, perché le nuove generazioni che ho incontrato mi hanno consegnato una grande speranza, ci rivolgevano domande impreviste bellissime e profonde, vedevano il testo e il lavoro da punti di vista inaspettati. Questo mi fa capire che c’è la possibilità di un dialogo. A volte i giovani restano muti perché alcune proposte non parlano loro. Non li interrogano. Non li smuovono. E poi a teatro si aspettano l’uso delle nuove tecnologie, umanità unita a eccellenza tecnologica. Come nei loro telefonini. In più c’è che in teatro incontrano persone vere, in carne e ossa.

Nessun timore delle nuove tecnologie?
Tutte le tecnologie che si sono succedute si pensava che avrebbero ammazzato il teatro. Prima la radio, poi la tv, il cinema e invece siamo ancora qui. Sparirà prima il cinema del teatro, perché il teatro è un incontro di persone. Si mettono in comune temi, storie, emozioni e come in un assemblea ci si ritrova insieme a condividerle. Non è qualcosa che si fa per conto nostro il teatro, ha bisogno di una relazione, è un’arte che passa attraverso la relazione. È qualcosa di molto antico e di straordinariamente moderno.

Se lo immagina il teatro in streaming o nel metaverso?
Il teatro in streaming o nel metaverso non è teatro, perché sono immagini attraverso uno schermo. È televisione o cinema. A volte quando qualcosa non piace per far capire che è negativo si dice “sembra teatro”. Ecco, dobbiamo invertire questa tendenza. Tutto è interessante e utile al teatro, ma quelle sono espressioni di arti diverse che confinano con il teatro, possono essere fantastiche, può servire il teatro e l’esperienza del teatro per farle, però sono un’altra cosa.

Mi metto nei panni dello stereotipo della signora anziana impellicciata che da anni sottoscrive l’abbonamento in prima fila a teatro. Non crede possa pensare che queste proposte sono “troppo moderne” per lei?
La mia politica è che non c’è nessuno spettacolo che non può essere apprezzato persino dalla ipotetica signora impellicciata in prima fila. È vero che cerchiamo di raccogliere un pubblico nuovo, come già avviene, ma scorrendo gli spettacoli mi sembrano per tutti. Si passa dal voler salvare i “panda”, cioè i grandi del teatro di interpretazione come si autodefinisce Massimo Popolizio, alla comicità istrionica di Antonio Rezza. A loro uniamo artisti come Angélica Liddell, che porta sul palco l’aspetto del sacro, quando entra in palco lei vibra tutta la sala. Ecco, qui si ha a che fare con gli dei, quindi più che sconsigliarlo mi sento di consigliare di abbandonarsi. D’altronde il teatro è pericoloso. Dioniso, il dio del teatro, viene chiamato da Euripide “dolcissimo e terribile”. È la vita a essere così. Ma c’è anche grande attenzione ai giovani e agli adolescenti.

In che modo?
In diversi lavori legati al corpo che faremo andando ad incontrarli dentro le scuole. Per gli adolescenti, in particolare, che hanno sofferto le chiusure degli ultimi anni, per fargli riscoprire il valore del proprio corpo. Per contrasto ai social che li spingono verso zone dove viene mercificato o è tabù. Bisogna ripartire da lì. Senza dimenticare la voce, che è sempre corpo. Il tono musicale che influisce sul tono muscolare.

Avete poi deciso di produrre tutte e sei le tragedie teatrali scritte da Pier Paolo Pasolini affidandole a diversi artisti. Il progetto si intitola Come devi immaginarmi.
Questa è stata una vera follia. Pasolini è conosciuto per il cinema, per la vena polemica e per la sua morte scandalosa, un po’ come avvenuto per certe rockstar. E la sua figura è stata avvolta da un’aura di maledettismo. Noi vogliamo invece riscoprire i suoi testi teatrali puri, nati senza interesse commerciale, che sono sconosciuti ai più. Per farlo li abbiamo affidati soprattutto a giovani registi e interpreti. C’è una nuova generazione di attori che è pronta a schiudere significati nuovi di quelle parole che paiono così impervie rendendole concrete. Lo dico perché l’ho visto fare, mi aspetto molto da questo progetto.

Si torna all’importanza della formazione per i giovani.
Sì, con in più un aspetto che mi appassiona molto e cioè la ricerca sulla lingua italiana. Dobbiamo riscoprire le potenzialità acustiche ed espressive e questo si riesce a farlo con i grandi autori come Pasolini, e Testori. Nel progetto su Bestia da stile ci sarà invece un maestro francese, Stanislas Nordey, che condurrà il nostro prossimo cantiere di Alta Formazione e che ci porta la sua personale visione di Pasolini da parte di un artista straniero. Come vede mi contraddico subito. Inoltre con i ragazzi bisogna lavorare sulla pratica, devono incamerare ore di palcoscenico, così come devono rendersi conto di essere dei cittadini, devono conoscere ciò che gli accade intorno, non solo quello che accade nel nostro piccolo mondo autoreferenziale. Soprattutto noi italiani dobbiamo sapere che portata ha il nostro patrimonio culturale, sia materiale che immateriale. Insomma, in buona sostanza dobbiamo capire che quelle sono le nostre radici culturali e personali, rivendicare quella bellezza che è di tutti, così come deve rivendicarla il pubblico quando viene a teatro per poi portarsela nella vita.

E i giovani rispondono positivamente?
Certo, ci sono tantissimi ragazzi interessanti. Il nostro compito è di accompagnarli, di produrli e loro devono essere più coraggiosi. E poi è importante per noi guardarci in giro e trovarli, vedere molto essere curiosi. Ai giovani, infine, bisogna permettere di sbagliare. Noi lo potevamo ancora fare, meno dei nostri predecessori, ma potevamo farlo. Da un errore compreso o accettato può nascere qualcosa di creativo.

Senta, ma personalmente come vive un artista come lei il lavoro quotidiano della gestione di una realtà come ERT, che in fondo è una grande azienda.
Sono convinto che la mia generazione non si sia mai abbastanza presa la responsabilità di governo. Allora bisogna farlo e quindi, ogni tanto, anche gli artisti devono mettersi al servizio. Certo è una bella fatica, ma è importante che qualcuno di noi la faccia.

La burocrazia è un ostacolo?
È complicata e semplice nello stesso tempo. Sono meccanismi che si imparano. L’importante è costruire una squadra competente, come abbiamo noi, visto che da solo non potrei fare niente. Competente e giovane. E fatta per la maggioranza di giovani donne.

C’è mai stato un giorno in cui ha pensato di mollare?
Sinceramente? Ogni giorno. Ti scontri con le difficoltà, però se riesci puoi contribuire a cambiare qualcosa dall’interno. Tenendo conto di una percentuale minima di compromesso, che spesso è semplicemente lo scontrarsi con la realtà. Ma vuole sapere qual è la mia ambizione?

Mi dica.
Vorrei che si andasse a teatro come una volta accadeva nei cinema d’essai, cioè che ci si vada a prescindere dal cartellone perché è consapevole che ci si troverà qualcosa di interessante. Per questo cerchiamo di selezionare le proposte in base alla grande qualità. Vogliamo che il pubblico si fidi delle nostre proposte. Anche di quelle più giovani e nuove. E i giovani non devono aver paura di affrontare il grande pubblico, perché finché rimani nella tua nicchia non capisci mai quanto vali.

Con la critica com’è il rapporto?
Io ho avuto un rapporto di amore e odio con Franco Quadri che mi ha stroncato per anni, circa 14 di fila, salvo poi premiarmi. Ma era un critico militante che rispettavo. Lo pativo ma lo rispettavo. E ci litigavo. E poi mi riappacificavo. Inutile negare che dopo le brutte recensioni ci stai male, sarebbe sciocco negarlo. Ma ora prendo tutto con più filosofia. E poi la critica teatrale è praticamente scomparsa dai quotidiani e il web, tranne alcuni casi professionalmente esemplari, è un mare sconfinato in cui tutto dice tutto e il contrario di tutto. Come diceva Carmelo Bene, senza neanche troppa provocazione, che ci sarebbe bisogno che i critici “stessero con noi 24 ore al giorno”, lavorassero con noi. Solo così diceva avrebbero diritto di parola. Un paradosso ma che contiene la grande verità legata alla relazione, ormai così difficile. Se questo non è possibile, almeno occorre provare a costruire qualcosa insieme, frequentarsi, è importante che chi vuole fare critica, ma anche ricerca accademica, conosca il nostro lavoro “pratico”, sul campo, e che si sia vicendevolmente umili.

Oltre a questa stagione, c’è qualche sogno che prima o poi vorrebbe realizzare nel suo teatro?
Alcuni artisti mi incuriosiscono da anni. Per esempio sono 30 anni che vorrei far fare a Diamanda Galas Medea. A me piace molto spaccare il confine delle arti. Da direttore però devo cercare di andare oltre al mio gusto personale, accogliere proposte di qualità ma diversissime da me, proposte di cui si legga chiaramente il valore, benché lontane dal mio mondo.

Fra cento anni come se lo immagina il teatro?
È sopravvissuto a tutto, per cui se ci permetteranno di respirare ci sarà. In fondo non è cambiato rispetto al passato e i testi antichi straordinariamente ci interrogano ancora oggi. Ma noi abbiamo deciso di intraprendere una via sperimentale senza lasciare indietro i grandi maestri. Il giovanilismo a tutti i costi non è un valore aggiunto, perché rischia di farci perdere le cose davvero importanti che ci pentiremmo di far dissolvere.

Altre notizie su:  Manuel Agnelli Valter Malosti