La provincia, le relazioni, la tristezza: Erin canta la vita a 'Luce spenta' | Rolling Stone Italia
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La provincia, le relazioni, la tristezza: Erin canta la vita a ‘Luce spenta’

Un gruppo di amici si ritrovano in un seminterrato, nasce un collettivo musicale, uno di loro pubblica un EP che parla di «stare chiusi in una stanza al buio» con un linguaggio dark preso da film e serie tv

La provincia, le relazioni, la tristezza: Erin canta la vita a ‘Luce spenta’

Erin

Foto: Gherardo Stagi

Villanova, paesino di nemmeno 500 anime fuori Empoli: è qui, nell’entroterra fiorentino, che sono nate le 8 tracce dell’EP d’esordio di Erin Luce spenta. Più precisamente in uno studio dove Dario Lombardi – questo il vero nome del giovane musicista toscano – ama rintanarsi a qualsiasi ora del giorno e della notte per fare musica con l’approccio da autodidatta sperimentato negli ultimi anni con gli amici del bnkr44 (si legge “bunker44”), collettivo di ragazzi sulla ventina (gli altri sono Ghera, Caph, Fares, Faster, Piccolo e JxN) che dopo essersi costruito una fanbase diffondendo pezzi su Soundcloud ha riunito il tutto in un disco uscito su Spotify, 44Deluxe.

L’idea era di dar vita a un sound fresco, insieme di influenze pescate qua e là e intrecciate nel corso di sessioni di gruppo esplorative, ed è a partire da quel progetto che Erin ha messo a punto il suo stile, ora confluito in Luce spenta. Siamo all’incrocio tra (it)pop e (t)rap, le sue sono canzoni in cui un mood malinconico di fondo si unisce a una dolce leggerezza melodica e i beat elettronici a suoni atmosferici, riverberi, tastiere giocose, chitarre slabbrate, clapping, tocchi soul e un’estetica lo-fi. Ascoltandole vengono in mente Ariete e Franco126 (non a caso dietro ai due, come a Erin, c’è lo zampino di Bomba Dischi), ma anche tha Supreme, Venerus e, allargando lo sguardo alla scena internazionale, nomi come Benee e Gus Dapperton. Questo il terreno su cui si muove Dario con il suo personale immaginario di ragazzo del ’99 alle prese con la noia della provincia, le difficoltà relazionali, il timore di non essere all’altezza, vedi i singoli 100 scheletri e Lacrime rosse. «Fondamentalmente l’EP parla di stare chiusi in una stanza al buio», dice lui.

Il titolo Luce spenta si riferisce a questo?
Esatto, e rimanda ad Aquiloni, brano che ho pubblicato con i ragazzi del bnkr44, in cui c’è una mia strofa che si apre con i versi “luce spenta, tu mi lasci a casa senza dire niente”: non so perché, ma è rimasta impressa a tanta gente, in particolare quel “luce spenta” si è trasformato in un tormentone, dopo che il pezzo è uscito molti amici hanno iniziato a ripeterlo quando m’incontravano. Aggiungici che all’epoca stavo già lavorando a dei miei pezzi, che suonavano un po’ scuri, tristi…

Come mai? Cosa c’è dietro?
Di sicuro non l’intenzione di descrivere una condizione generazionale, anzi, non volevo rappresentare nessun altro se non me stesso. Si tratta semplicemente di brani nati tra quattro pareti, nel mio studio di due metri per due, in un 2020 in cui tra pandemia, lockdown e restrizioni varie non ho fatto praticamente nulla oltre a dedicarmi alla musica e in cui lo stato mentale non è stato dei migliori, almeno in alcuni momenti.

Dove si trova il tuo studio? È lo stesso spazio che usi con gli altri del bnkr44, il famoso “bunker” di Villanova?
Sì e no. Il bunker si compone, in realtà, di due studi. Uno è quello di bnkr44 e si trova in un seminterrato che Ghera ha recuperato dai suoi genitori, un tempo era il laboratorio di pelletteria di famiglia. L’altro è il posto dove lavoro quasi sempre io, che è una casetta piccolissima in mezzo a un campo.

La tua bolla, immagino. Che cosa ti ha spinto a infilartici dentro per scrivere queste canzoni decisamente pop, ma al contempo introspettive, non esattamente il ritratto di un ragazzo felice in un mondo felice.
Difficile da spiegare. Non la pandemia, questo è certo, tant’è che nell’EP non tocco proprio l’argomento. Penso che a questi brani mi ci abbia portato tutta la mia vita, così come l’ho vissuta finora. Qua dove sto e dove sono cresciuto, a Villanova, non c’è mai stato un granché da fare, i rapporti sociali sono sempre gli stessi, non ci si muove molto e l’umore di tutti non è dei migliori. E ripeto, non mi riferisco unicamente al periodo attuale: adesso è peggio, ma queste cose erano vere anche prima. Poi, non so, forse c’entra anche un’instabilità mentale che a volte mi fa essere contento, ma a volte no. Diciamo che è un miscuglio: la vita di provincia che annoia, un po’ di tristezza interiore, relazioni non sane con gli altri.

Forse anche la paura di inserirsi in un mondo degli adulti, del lavoro e delle responsabilità da cui ti senti distante?
Eh, sì, quello tantissimo. Mi ci avvicino sempre più, un passo alla volta, e fa paura. Tre mesi fa non mi sarei nemmeno sognato di fare quest’intervista, non sono abituato.

Erin - Lacrime rosse

La generazione dei nativi digitali di cui fai parte cresce in un flusso di informazioni costante e pervasivo che vi rende più consapevoli di ciò che vi aspetta là fuori, rispetto alle generazioni precedenti, ma che forse proprio per questo può spaventare: è questo che fa paura?
Il fatto è che sembra tutto troppo e contemporaneamente niente, abbiamo tutto intorno, ma spesso siamo soli. Quindi è strano, anche perché essendo in mezzo a computer, Internet e telefonini sin dalla nascita non so dire come sarebbe vivere senza questi mezzi di comunicazione, non so se sarebbe meglio. Mi viene da pensare che almeno durante la pandemia ci hanno permesso di restare in contatto con gli amici.

“Lasciateci riposare / troppa vita è sempre uguale / chiusi dietro mille porte / nessuno si sente forte”, canti in Sul cemento. La musica, in compenso, ti ha offerto un rifugio: quando l’hai incontrata la prima volta?
All’età di 5 anni, per cui posso dire che nella mia vita c’è sempre stata. Ho ricordi vaghi, ma so di aver iniziato con il pianoforte. Per gioco: da bambino avevo altri sogni, volevo diventare qualcosa tipo l’ingegnere meccanico, costruire macchine. Poi, dai 12 anni in avanti, in maniera sempre più seria e focalizzata. Anche se in una prima fase che ora considero brutta mi ero messo in testa di fare il dj. Solo dopo mi sono spostato sull’idea di diventare musicista o produttore, non sapevo bene. Fatto sta che Luce spenta l’ho scritto, prodotto e registrato io.

Con che musica sei cresciuto?
I miei mi hanno fatto ascoltare musica decente, devo dire. Mia mamma mi faceva sempre sentire i Radiohead, quando avevo 7-8 anni; ovviamente allora non li sopportavo (ride). Poi David Bowie, Crosby, Stills Nash & Young, Frank Zappa… Mentre la musica che sentivo io quando alle medie ho deciso che volevo diventare un dj era terribile: i miei modelli erano David Guetta, Bob Sinclar, se ci penso muoio! Per fortuna col tempo mi sono evoluto. Adesso ascolto Venerus, Calcutta, Frah Quintale, ma a parte questo non conosco molto la musica italiana, anzi, vorrei studiarmi un po’ di autori anche del passato, prima o poi lo farò.

Ma come mai David Guetta?
Me lo chiedo anch’io, vorrei non fosse mai successo, credo sia stato per alcuni amici che mi hanno influenzato. Però è con quella musica che ho imparato a produrre, con cose più dance, tutto sommato a qualcosa è servito.

A un certo punto tu, Ghera, Caph, Fares, Faster, Piccolo e JxN avete dato vita al collettivo bnkr44: cosa vi ha spinto?
È accaduto circa otto anni fa, ma ai tempi non eravamo un collettivo musicale, eravamo solo degli amici con un seminterrato che usavamo come punto di ritrovo per noi e altri ragazzi della zona. Però siccome io e Ghera facevamo musica, pian piano quest’ultima è diventata centrale.

Come descriveresti il famoso “bunker”?
Esteticamente è un mezzo centro sociale, un sotterraneo con muri pieni di scritte e disegni, c’è persino una Venere di Botticelli affrescata su un muro a grandezza naturale. Però non c’è politica, si fa musica e ci si ritrova con gente di ogni tipo, da ogni posto.

Erin / Lil Kvneki / Piccolo - Temporale

Nel 2020 come bnkr44 avete pubblicato su Spotify 44. Deluxe, ma è tutto materiale che era già uscito su Soundcloud: che ruolo ha giocato questa piattaforma per te e il collettivo?
Un ruolo importantissimo. In realtà in principio non dovevamo fare niente tutti insieme, ci sembrava una roba da boy band. Però un giorno, nel 2019, eravamo in studio e ascoltando i brani di altri ragazzi su Soundcloud, tra cui Lil Kaneki degli Psicologi, che conosciamo bene, abbiamo deciso di provare a fare un super veloce, in due giorni e basta, da pubblicare su quella stessa piattaforma. Così, a caso, senza pretese, senza nemmeno pubblicizzarlo. Faceva schifo, ma comunque è diventato il nostro primo lavoro ufficiale, cui ne abbiamo fatto seguire un altro due mesi dopo, che era migliore. E siamo andati avanti così, condividendo via via materiale e migliorandoci, mettendoci sempre più cura. Nel frattempo vedevamo il profilo crescere: la gente ha cominciato a scriverci grazie a Soundcloud, Bomba Dischi ci ha trovati grazie a Soundcloud… È diventata la nostra piattaforma di lancio.

Nei tuoi pezzi si nota un immaginario dal sapore vagamente horror, parli di scheletri, di lacrime rosse, di sorrisi storti…
È un linguaggio che deriva in parte da film e serie tv. Da un annetto avevo in testa di dedicarmi a un progetto molto scuro e con un un’ambientazione semi-infernale, un po’ horror appunto. Ma non horror pesante, semmai da cartone animato, da bambini. Forse il riferimento principale è stato Piccoli brividi (saga letteraria di Robert Lawrence Stine e serie tv, nda).

Chi sono i 100 scheletri del tuo primo singolo? Siete voi ragazzi?
In parte sì. Quella canzone ha una genesi un po’ complicata, avevo scritto un testo in un momento in cui ce l’avevo con una persona, era il testo di un pezzo che avrebbe dovuto intitolarsi Un amico, ma che non ho mai pubblicato e che ho ripreso in mano, riadattato e addolcito, in un momento diverso, in cui non ero più arrabbiato. Tant’è che canto “non mi ricordo cosa c’era di male”.

E di Mastico le mani cosa puoi raccontare?
Che è la canzone più descrittiva di qualcosa di reale che c’è nell’EP, parla di una relazione non sana con una persona e, in particolare, di una sera in un parco, a una festa, in cui avevo bevuto e non stavo benissimo fisicamente. Il giorno dopo mi è uscito questo brano.

“Ti senti un re, ma se piangi fai polvere”, recita Lacrime rosse. È mancanza di fiducia in te stesso o negli altri?
È paura del giudizio altrui, un tipo di paura che ho provato sin da piccolo. Non per colpa di qualcuno, semplicemente mi sono sempre sentito giudicato, in qualche modo. Infatti sui social non mi sono mai esposto, non postavo nemmeno foto su Instagram, così nessuno poteva dirmi niente. Adesso è diverso, mi sto aprendo, mi sono auto-imposto di non pensarci e in effetti non me ne frega più nulla. Vorrei solo essere quel che sono e scrivere canzoni che mi rispecchino. Non riuscirei mai a scrivere cose spensierate e gioiose, sono diverso da così.

Erin, il tuo nome d’arte, deriva da un manga, giusto?
Più o meno, è un incrocio di più nomi di personaggi di anime e manga. Tra questi uno che mi piace tantissimo, L’attacco dei giganti, il cui protagonista si chiama Eren, con la e. Poi ce ne sono altri che hanno per protagonisti degli Erin, a volte maschi, a volte femmine, dipende, non è un nome con un’identità precisa.

Lo hai scelto anche per questo?
Sì, perché non voglio scrivere né di maschi, né di femmine. Vorrei che nelle mie canzoni gli ascoltatori scovassero quello che vogliono, per questo nei testi uso sempre il neutro o il maschile, un po’ mi viene naturale, un po’ non voglio che qualcuno capisca a chi mi riferisco.

Non avendo alle spalle la classica gavetta fatta di concerti, che effetto ti fa pensare al palco? Ora c’è la pandemia, ma prima o poi…
Qualcosa dal vivo l’ho fatto, ma in effetti solo un paio di live come bnkr44, più un concerto con Piccolo a Milano, per la rassegna Cuori impavidi. Sì, è vero, niente di che. Ma mi piacerebbe fare dei concerti adesso, come Erin, non ho paura.

Intanto studi?
Sono iscritto a Filosofia.

Ottima scelta, benché controcorrente: cosa ti ci ha portato?
Non avevo nessuna intenzione di frequentare una facoltà che portasse a un lavoro tradizionale, perché tanto voglio fare musica. Però ci tenevo comunque a studiare e la filosofia già alle superiori mi piaceva. Essendo uno che si fa tante domande, mi sono detto: vediamo quali sono quelle degli altri.

E la provincia, la lascerai?
Ho sempre pensato che me ne sarei andato subito dopo il diploma. Ora non so, o meglio, da un lato vorrei ancora andarmene, ma dall’altro sono contento del lavoro di squadra che stiamo facendo a Villanova e sono convinto che possiamo farlo solo qua. Perché solo qua abbiamo gli spazi e i tempi per riuscire a lavorare tutti insieme in maniera decente, se andassi a vivere in un appartamento anche piccolo in una grande città costerebbe tutto molto di più e non avrei nemmeno lo spazio per farmi uno studio in casa. Invece qua viviamo a costo zero, senza spese.

In fondo la noia della provincia può avere risvolti positivi, no?
Vero, a questo non avevamo mai pensato, ma anche i ragazzi di Bomba Dischi ci hanno fatto notare che non avere tante cose da fare può essere un bene per chi vuole fare musica come noi. Ci dà la possibilità di concentrarci su una passione e di tirarne fuori qualcosa. O almeno di provarci.

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