La prima grande intervista a Neil Young
È il 1975 e il Loner risponde alle domande di un Cameron Crowe diciottenne e per niente intimorito. L’indipendenza, la morte, la droga, i conflitti, le canzoni: pagine storiche da rileggere per festeggiare gli 80 anni del canadese
Foto: Joel Bernstein/Warner
A un passo dai 30 anni, Neil Young è il più enigmatico delle superstar uscite dai Buffalo Springfield e da Crosby, Stills, Nash & Young. Le sue riflessioni spesso criptiche su disperazione e solitudine, e le sue canzoni anti-eroiche interpretate con voce tremolante hanno spinto molti a definirlo loner. L’ultima volta in cui ha trovato un equilibrio precario tra lodi della critica e successo commerciale è stato ai tempi di Harvest. Da allora i suoi dischi sono diventati via via più inaccessibili per il grande pubblico.
Questa è la sua prima intervista completa e arriva in quello che sembrerebbe un momento di svolta nella sua vita e nella sua carriera. Dopo essersi separato in modo amichevole dall’attrice Carrie Snodgrass, si è trasferito dal suo ranch nella California settentrionale al caos relativo di Malibu. Come dice un suo amico, sembra addirittura «vivace… di un umore da non credere». È talmente rilassato da affrontare una conversazione sulla sua carriera come un’esperienza potenzialmente «molto divertente».
L’ho intervistato percorrendo il Sunset Boulevard su una Mercedes rossa presa a noleggio e poi sotto al portico della sua casa sulla spiaggia di Malibu. È stato collaborativo e ha fatto un’unica richiesta. «Tieni giusto una cosa a mente», ha detto non appena ho spento per l’ultima volta il registratore, «domani potrei ricordarmi tutte queste cose in modo completamente diverso».
Perché hai deciso di parlare proprio adesso? Negli ultimi cinque anni ai giornalisti che chiedevano di intervistarti veniva risposto che non avevi nulla da dire.
Ho un sacco di cose da dire, ma non ho mai fatto interviste perché mi hanno sempre messo nei guai. Sempre. Non venivano mai fuori bene. Non mi piacciono, e basta. Più non le facevo e più la gente le voleva. Dicevo di più non dicendo nulla. Ma le cose cambiano, sai. Ora mi sento libero. Non ho più una compagna e penso che dipenda molto da questo. Sono tornato a vivere nella California meridionale. Non mi sentivo così aperto da un sacco di tempo. Sto uscendo e parlando con tanta gente. Sento che sta succedendo qualcosa di nuovo. Sono entusiasta della musica che sto facendo di nuovo coi Crazy Horse. Anche adesso, mentre parlo, ci sono canzoni che mi girano in testa. Sono eccitato. Penso che quello che ho fatto finora valga qualcosa, altrimenti non l’avrei pubblicato, ma mi rendo conto di aver fatto gli ultimi tre album di un certo tipo. So di essermi preso parecchie critiche. In qualche modo sento di essere riemerso dalle tenebre. E la prova sarà contenuta nel prossimo album. Direi proprio che Tonight’s the Night è stato l’ultimo capitolo di una fase che ho messo alle spalle.
Perché quel periodo buio?
Ah, non lo so. Probabilmente è iniziato con la morte di Danny Whitten (leader dei Crazy Horse e chitarrista/seconda voce di Young, ndr). È successo poco prima del tour di Time Fades Away. Doveva esserci anche lui nella band. Provava con noi (ovvero Ben Keith alla steel guitar, Jack Nitzsche al piano, Tim Drummond al basso, Kenny Buttrey alla batteria, ndr), ma non ce la faceva proprio. Non ricordava nulla. Era troppo fuori. Andato. Ho dovuto dirgli di tornare a Los Angeles. «Non va, amico mio. Non sei abbastanza centrato». Mi ha detto solo: «Non ho un posto dove andare. Come faccio a dirlo ai miei amici?» E se n’è andato. Quella notte il medico legale mi ha chiamato da Los Angeles e mi ha detto che era morto di overdose. Sconvolgente. Davvero sconvolgente. Gli volevo bene. Mi sono sentito responsabile. E mi toccava partire subito per un tour enorme, in posti grandissimi. Ero molto nervoso e… insicuro.
Perché allora pubblicare un album dal vivo?
Pensavo fosse buono. Time Fades Away è un disco nervoso, che è esattamente come mi sentivo durante il tour. Se uno si mette ad ascoltare tutti i miei dischi, capisce che c’è un posto anche per quella cosa lì. Non è che lo metti su tutte le volte che ti va di ascoltare musica, ma se ti interessa tutto il viaggio, è importante. Tutti i miei dischi compongono una sorta di autobiografia in via di realizzazione. Non posso scrivere lo stesso libro ogni volta. Ci sono artisti che lo fanno, pubblicano tre o quattro album all’anno e suonano tutti allo stesso modo, cazzo. E va bene così. C’è chi vuole comunicare con tante persone e dare loro la musica che vogliono sentire. Non io. Io voglio esprimere quel che ho in testa. Non mi aspetto che la gente ascolti la mia musica sempre. A volte è fin troppo intensa. Se vuoi ascoltare un disco alle 11 del mattino, non metti su Tonight’s the Night, metti su i Doobie Brothers.

Foto: Joel Bernstein/Warner
Time Fades Away è venuto dopo Harvest e quindi poteva essere potenzialmente un successone…
Se solo fosse stato commerciale.
È uno dei tuoi dischi solisti che hanno venduto di meno. Sapevi a cosa stavi rinunciando?
Probabilmente sì. Immagino che avrei potuto fare il sequel perfetto, un vero successo, ma era quello che la gente si aspettava. Ascoltandolo, avrebbero pensato di aver capito chi sono e per me sarebbe finita. Mi sarei messo da solo in un angolo. Il fatto è che non sono più quel tipo solitario, tranquillo, con la chitarra. Non più. Non voglio che la gente si aspetti che io sia in un certo modo. Nessuno si aspettava Time Fades Away e quindi non mi spiace averlo pubblicato. Non avevo bisogno di soldi, non avevo bisogno di fama. Devi continuare a cambiare: camicie, donne, tutto. Preferisco continuare a cambiare e perdere del pubblico per strada. Se è il prezzo da pagare, lo pago. Non me ne frega niente se imi seguono 100 oppure 100 milioni di persone, non fa alcuna differenza. La musica che vende e la musica che faccio sono due cose distinte. Se si incontrano, è per coincidenza. Voglio la libertà di pubblicare un disco come Tonight’s the Night, se mi va.
Sembri decisamente ubriaco, in quell’album.
Direi che è l’album più liquido che abbia fatto (ride), serve quasi il salvagente per arrivare in fondo. Ma, di nuovo, penso che la gente debba sentirlo, che debba sentire un artista in ogni circostanza se vuole farsi un ritratto completo di chi è. Tutti si sballano, amico. Tutti, prima o poi. Sei solo uno che finge se non lasci che la musica diventi liquida quanto lo sei tu quando sei strafatto.
È quello il senso dell’album?
No, no. Quello è solo il mezzo per arrivare a un fine. Tonight’s the Night è come una lettera da overdose. Parla di vita, droga, morte. Quando noi (Nils Lofgren a chitarra e piano, Talbot, Molina e Young, ndr) facevamo quella musica pensavamo a Danny Whitten e a Bruce Berry, due membri della nostra cerchia che sono morti per overdose. Per la prima volta dopo la morte di Danny durante le session di Tonight’s the Night quel che restava dei Crazy Horse si è ritrovato. Dovevamo trovare la forza per colmare quel vuoto. L’altra persona morta per overdose, Bruce Berry, è stata per molto tempo il roadie di CSNY. Suo fratello Ken gestisce la Studio Instrument Rentals, dove abbiamo registrato. Quindi c’erano molte vibrazioni, c’era un certo spirito. È buffo, ricordo quell’esperienza in bianco e nero. Arrivavamo allo S.I.R. verso le 5 del pomeriggio, cominciavamo a farci, a bere tequila e a giocare a biliardo. Verso mezzanotte iniziavamo a suonare. E in certo senso abbiamo accompagnato Bruce e Danny per tutta la notte. Non sono un tossico e non lo diventerò mai solo per sapere com’è… ma ci siamo sballati aprendoci a quell’umore. È stato inquietante. Probabilmente sento questo album più di qualsiasi altra cosa abbia fatto.
Perché hai aspettato a pubblicare Tonight’s the Night? Non ha quasi due anni?
Perché non era finito. C’erano solo nove canzoni, così l’ho messo da parte e ho fatto On the Beach. Ci è voluto Elliot (il manager Elliot Roberts, ndr) per finire Tonight’s the Night. Vedi, un po’ di tempo fa c’erano delle persone che volevano fare uno spettacolo di Broadway sulla storia di Bruce Berry e tutto il resto. Avevano persino scritto un copione. Stavamo preparando un nastro per loro e, mentre riascoltava le vecchie tracce, Elliot ha trovato tre canzoni ancora più vecchie che erano collegate a quel trip: Lookout Joe, Borrowed Tune e Come on Baby Let’s Go Downtown, un brano dal vivo di quando avevo suonato al Fillmore East coi Crazy Horse. In quella è Danny la voce principale. Elliot ha aggiunto quelle canzoni alle nove e le ha messe in sequenza creando una storia coerente. Ma io non avevo comunque alcuna intenzione di pubblicarlo. Avevo già un altro nuovo album pronto chiamato Homegrown. La copertina era finita e tutto (ride). Ah, ma quello non lo sentiranno mai.
Ok, ma perché no?
Ti racconto tutta la storia. Avevo organizzato una festa per far ascoltare Homegrown a una decina di amici. Eravamo completamente fuori di testa. Lo abbiamo ascoltato, però poi Tonight’s the Night si trovava per caso sullo stesso nastro e così abbiamo ascoltato anche quello, tanto per ridere, non per fare paragoni.
E quindi hai pubblicato Tonight’s the Night così, di punto in bianco?
Non perché Homegrown non fosse buono. Molti lo considererebbero probabilmente meglio dell’altro. So che la prima volta che ho riascoltato Tonight’s the Night mi è sembrata la cosa più stonata che avessi mai sentito. Tutti erano fuori tonalità e non lo sopportavo. Ma ascoltando quei due album uno dopo l’altro, al party, ho cominciato a vedere i punti deboli di Homegrown. Ho scelto Tonight’s the Night per la sua forza complessiva, per l’intensità dell’esecuzione e del sentimento. Il tema può essere un po’ deprimente, ma il sentimento generale è più positivo di quello di Homegrown. Pubblicarlo è una sorta di esperimento. Mi aspetto tranquillamente alcune delle peggiori recensioni che abbia mai ricevuto. Voglio dire, è il disco perfetto su cui sfogarsi e senza dubbio qualcuno lo farà e va bene così. A loro fa bene e a me piace vedere la gente fare passi avanti, fa bene alla psiche tirar fuori tutto (ride). Ho visto Tonight’s the Night tracciare una sorta di linea ovunque è stato suonato. Persone convinte che non avrebbero mai disprezzato nulla di quel che faccio si sono trovate dall’altra parte della barricata. E altri che non riescono a sentire la mia musica perché la trovano troppo triste o pensano abbia la voce strana ora mi ascoltano in modo diverso.
Sono sicuro che qualcosa di Homegrown verrà fuori in altri miei dischi. Ci sono cose bellissime con Emmylou Harris che fa le armonie. Non so. Forse quel disco è più vicino a ciò che la gente vorrebbe sentire da me adesso, ma era semplicemente molto triste, era il lato oscuro di Harvest. Molte canzoni parlavano della mia separazione, era troppo personale… mi spaventava. E poi avevo appena pubblicato On the Beach, probabilmente uno dei dischi più deprimenti che abbia fatto. Non voglio arrivare al punto di non riuscire più a tirarmi su. Voglio dire, ha un senso scendere laggiù e dare un’occhiata, ma non so se vale la pena restarci.

Foto: Henry Diltz/Warner
Non provenivi da una famiglia musicale…
Be’, mio padre un po’ suonava l’ukulele (ride). È successo e basta. Ce l’avevo dentro. Non riuscivo a smettere di pensarci. All’improvviso volevo una chitarra e basta. Ho cominciato a suonare nei community club di Winnipeg, ai balli delle scuole superiori. Suonavo il più possibile.
Con una band?
Sì, sempre con una band. Non ho mai provato da solo fino ai 19 anni. O 18 o 19.
Scrivevi già?
Ho cominciato scrivendo strumentali, le parole sono arrivate più tardi. Il mio idolo a quel tempo era Hank Marvin, il chitarrista di Cliff Richard negli Shadows. Era l’eroe di tutti i chitarristi di Winnipeg. E anche Randy Bachman, era in giro in quel periodo, suonava negli stessi locali. Aveva un sound fantastico. Usava un effetto eco a nastro.
Quando hai iniziato a cantare?
Cantavo i pezzi dei Beatles… la prima canzone che ho cantato di fronte a un pubblico è stata It Won’t Be Long e poi Money (That’s What I Want). Era alla caffetteria della Calvin High School. Il mio grande momento.
È stato diverso crescere in Canada rispetto agli Stati Uniti?
Tutti in Canada vogliono andare negli Stati Uniti o almeno lo volevano allora. Non vedevo l’ora di andarmene perché sapevo che la mia unica possibilità di farmi sentire era negli States. Ma non potevo andarci senza un permesso di lavoro e non ce l’avevo, così alla fine sono entrato illegalmente e mi ci è voluto fino al 1970 per ottenere la green card. Lavoravo illegalmente ai tempi di Buffalo Springfield e in parte di Crosby, Stillsm Nash & Young. Non avevo i documenti in regola. Non potevo ottenere la green card perché avrei sostituito un musicista americano nel sindacato. Per averla dovevi essere molto famoso, insostituibile, stare per conto tuo. Così ho ottenuto la card solo dopo aver raggiunto quel tipo di profilo, che non puoi ottenere senza essere qui… È una cosa ridicola: l’unico modo per entrare negli Stati Uniti è essere già qui, ma puoi essere qui se non ne hai il diritto e quindi vaffanculo. È tipo: butta la strega in acqua, se affoga non è una strega, se resta a a galla è una strega e allora la ammazzi. Stessa logica. Ma alla fine ci siamo riusciti.
Conoscevi Joni Mitchell in quel periodo?
Conosco Joni da quando avevo 18 anni. L’ho incontrata in una coffeehouse. Era bellissima, quella è stata la mia prima impressione. Sembrava fragile, fatta di niente, coi suoi zigomi ben scolpiti e i vestiti di raso e seta. Se le soffiavi addosso, la potevi far cadere, questo pensavo, eppure riusciva a reggere una Martin D18. Che talento incredibile. Scrive dei suoi rapporti in modo molto più vivido di quanto faccia io. Io metto come un velo sulle cose personali di cui scrivo. Ho composto canzoni altrettanto crude tipo Pardon My Heart, Home Fires, Love Art Blues… quasi tutto Homegrown. Non le ho mai pubblicate e probabilmente mai lo farò. Mi vergognerei. Sono un po’ troppo vere.
Cosa pensi col senno poi dell’esperienza dei Buffalo Springfield?
Esperienza fantastica. Erano giorni belli. Persone eccezionali. Tutti nel gruppo erano dei maledetti geni in quel che facevano. Un gruppo fantastico. Non ci saranno mai altri Buffalo Springfield. Mai. Tutti hanno preso strade separate adesso. Mi piacerebbe che ci si rivedesse tutti assieme con gli amplificatori e tutto, ma mi piacerebbe ancora di più non essere la persona che deve organizzare una cosa del genere. Mi piacerebbe suonare di nuovo con loro per vedere se c’è ancora quell’energia.
Vorrei chiederti di alcune leggende che ci sono sugli Springfield. Che mi dici della vecchia storia del carro funebre?
Vera. Bruce e io giravamo per L.A. col mio carro funebre. Mi piaceva. Sei persone potevano sballarsi e nessuno avrebbe visto alcunché grazie alle tendine. Il riscaldamento era ottimo. E il carrello… il carrello era fantastico. Aprivi la portiera e il carrello usciva sul marciapiede. Che c’è di più figo? È un gran modo di arrivare a un concerto tirando fuori l’attrezzatura in quel modo. Comunque, Bruce e io stavamo girando la California. La Terra Promessa. Stavamo andando a San Francisco. Stephen e Richie Furay erano in città a mettere insieme una band e giravano anche loro in auto. Stephen sapeva che avevo una carro funebre e non appena ha visto la targa dell’Ontario, ha capito che ero io. Ero felice di vedere loro, di vedere chiunque conoscessi. Ci è sembrato logico mettere in piedi una band. Quattro o cinque giorni dopo abbiamo preso Dewey Martin alla batteria, un’idea mia, mentre Stephen spingeva per prendere Billy Munday. Diceva: «Sì, sì, Dewey è bravo, ma Cristo, parla troppo». Avevo ragione io. Dewey era bravo, ma di brutto.
Quant’è stata utile negli anni la frizione fra te e Stills?
Penso che la gente esageri con la storia dei conflitti. Stephen ed io suoniamo bene insieme. La gente non capisce che possiamo suonare entrambi la chitarra solista nella stessa band senza litigare. Abbiamo un rispetto totale per la musica e ci stimoliamo a vicenda per perfezionarci. Abbiamo entrambi un carattere forte, ma fa parte del nostro rapporto. Ci piace così. Fa parte del lavoro. In questo senso, avere dei contrasti ha giocato a nostro favore. Stephen ed io abbiamo creato assieme della musica incredibile, soprattutto negli Springfield. Eravamo giovani, avevamo un sacco d’energia.
Perché hai lasciato la band?
Verso la fine non ce la facevo più. Non mi reggevano i nervi. Non stavo progettando una carriera solista, niente di tutto ciò, era una questione di nervi. Andava tutto troppo veloce, lo capisco ora. Stavo impazzendo a forza di uscire dal gruppo e rientrare e uscire e rientrare. Ho capito che non volevo più rispondere a qualcuno, obbedire a nessuno. Avevo bisogno di spazio. Era un problema nella mia testa, così mollavo, ma poi tornavo. Era un problema e non ero maturo a sufficienza per gestirlo. Ero molto giovane. Ci trattavano male, sembrava quasi che cercassimo anche noi di far andare male le cose e non andavamo da nessuna parte. Ma i pochi fan che avevamo all’inizio, e quelle persone sanno chi sono, erano speciali. Ci hanno dato la forza di fare quel che abbiamo fatto, con l’intensità con cui siamo stati in grado di farlo. Parlo dei pochi che erano lì fin dal principio.
Ultima domanda sui Buffalo Springfield: esistono album di materiale inedito?
Ho tutto. Ho i nastri.
Perché te li sei tenuti così a lungo? Cosa aspetti?
Di sentire gli altri. Vediamo se qualcun altro ha delle registrazioni. Non so se Richie o Dicky Davis (road manager del gruppo, ndr) hanno qualcosa. Io del materiale buono ce l’ho, canzoni fantastiche come My Kind of Love, My Angel, Down to the Wire, Baby Don’t Scold Me. Vediamo cosa succede.

Foto: Henry Diltz/Warner
Com’è stato dopo i Springfield?
Andava bene. Avevo bisogno di stare in campagna per un po’ e rilassarmi. Sono andato a Topanga Canyon e ho rimesso assieme i pezzi. Ho comprato una grande casa che dominava il canyon. Alla fine me ne sono andato perché non reggevo più tutta la gente che veniva. Ma di certo era un posto in cui si stava bene… Era il ’69, più o meno quando ho cominciato a vivere con la mia prima moglie, Susan. Donna bellissima.
Il tuo primo album da solista era una lunga canzone d’amore per lei?
No. Pochi dei miei album sono canzoni d’amore per qualcuno. La musica è grande, occupa molto spazio. Ho dedicato la mia vita alla musica. E ogni volta che ho trascurato questo e fatto altro, si è visto. La musica dura… molto più a lungo delle relazioni. Il mio primo album era un primo album. Volevo dimostrare a me stesso che potevo farcela. E ci sono riuscito, grazie alla meraviglia della tecnologia moderna: quel disco era pieno di overdub. È comunque uno dei miei preferiti. Everybody Knows This Is Nowhere è probabilmente il migliore che ho fatto, quello che preferisco. Ho sempre amato i Crazy Horse dal primo momento in cui ho sentito l’album Rockets su White Whale. La band originale che avevamo nel ’69 e ’70, Molina, Talbot, Whitten e io, era meravigliosa. E ora è tornato ad essere così. Tutto ciò che ho fatto con i Crazy Horse è stato incredibile. Anche solo per il feeling.
Perché allora sei entrato a far parte di CSNY? Già suonavi regolarmente coi Crazy Horse.
Per Stephen. Amo suonare con gli altri, ma suonare con Stephen è speciale. David è un gran chitarrista ritmico e Graham canta benissimo… merda, non devo certo spiegarlo io che quei ragazzi sono fenomenali. Sapevo che sarebbe stato divertente. E poi non dovevo avere sempre il ruolo di frontman, potevo stare un passo indietro, non dovevo essere sempre io al centro. Erano un gruppo grande e quindi per me era facile starci. Potevo anche continuare a lavorare coi Crazy Horse. Con CSNY ero fondamentalmente uno strumentista che cantava un paio di pezzi. Facile. E la musica era fantastica. CSNY, credo, sono sempre stati una cosa molto più grande per gli altri che per noi. La gente mi chiama sempre Neil Young di CSNY, vero? Non è il mio trip principale. È una cosa che faccio di tanto in tanto. Ho sempre lavorato sul mio trip da solo. E ora che i Crazy Horse sono di nuovo in forma, sono ancora più concentrato su me stesso.
E però, quanto del tuo successo da solista lo devi a CSNY?
Di sicuro hanno fatto girare il mio nome. Mi hanno fatto molta pubblicità. Ma, detto con modestia, After the Gold Rush, che è stato un po’ il punto di svolta, era un album forte. Lo credo davvero, è frutto di tanto lavoro, era tutto lì, il quadro era solido. After the Gold Rush rappresentava lo spirito di Topanga Canyon. Avevo capito di essere arrivato da qualche parte, in un certo senso. Entrato a far parte di CSNY continuavo a lavorare molto coi Crazy Horse… suonavo tutto il tempo. E mi divertivo. Subito dopo quell’album, ho lasciato la casa. È stato un bel finale.
Come hai gestito il tuo primo vero assaggio della fama?
La prima cosa che ho fatto è stato un lungo tour in posti piccoli. Solo io e una chitarra. Bello. Era una cosa personale, una cosa tra me e il pubblico. È stato più tardi, dopo Harvest, che mi sono chiuso. Ho cercato di stare lontano da tutto. Pensavo che l’album fosse buono, ma sapevo anche che qualcosa stava finendo. Sono diventato molto riservato. Non volevo uscire granché.
Perché? Eri depresso? Spaventato?
Ero abbastanza felice. Nonostante tutto, avevo la mia compagna e mi ero trasferito al ranch. In gran parte era per la schiena. Ho fatto dentro e fuori dagli ospedali nei due anni tra After the Gold Rush e Harvest. Ho un fianco debole e tutti i muscoli mi sono scivolati. I dischi della colonna vertebrale sono scivolati. Non riuscivo a tenere in mano la chitarra. Ecco perché ho fatto tutto il tour da solista da seduto. Non riuscivo a muovermi bene e sono rimasto a lungo disteso al ranch senza contatti. Indossavo un tutore. Crosby veniva a vedere come stavo, facevamo una passeggiata, ci mettevamo 45 minuti per arrivare allo studio, che era ad appena 400 metri da casa. Potevo stare in piedi solo quattro ore al giorno. Ho registrato gran parte di Harvest col tutore. È gran parte del motivo per cui è un album così morbido. Non riuscivo proprio fisicamente a suonare una chitarra elettrica. Are You Ready for the Country, Alabama e Words sono venute dopo l’operazione. I medici cominciavano a parlare di sedie a rotelle e cose del genere, quindi ho fatto rimuovere alcuni dischi. Ma per la maggior parte, ho passato due anni sdraiato sulla schiena. Ho avuto del gran tempo per pensare a cosa mi era successo.
Sei mai stato in analisi?
Intendi se sono mai stato da uno psichiatra? No (ride). Sono comunque tutti molto interessati a me. Mi fanno sempre molte domande quando li incontro.
Che domande?
Be’, ho avuto degli attacchi epilettici. Mi facevano domande su come mi sentivo, cose così. Ho raccontato i pensieri che ho e le immagini che vedo se svengo, cado o che. Ma non è importante.
Hai ancora convulsioni?
Sì, ancora. Vorrei non averle. Pensavo di essermele messe alle spalle.
È una cosa fisica o mentale?
Non lo so. Dell’epilessia si sa poco. Molto semplicemente fa parte di me. È dentro la testa, è parte di quel che succede là dentro. A volte è qualcosa nella testa che la scatena. A volte, quando sono molto fatto, avere una crisi è un’esperienza psichedelica. Scivoli in un altro mondo. Il corpo si muove da solo, ti mordi la lingua, sbatti la testa a terra, ma la mente è altrove. La cosa spaventosa non è quella, ma rendersi conto che sei a tuo agio in quel… vuoto. E questo ti riporta alla realtà. È un’esperienza disorientante. È difficile riprendere il controllo. L’ultima volta mi ci è voluta un’ora e mezza di camminata per il ranch con due amici.
Ti è mai successo sul palco?
No, mai. Ho avuto l’impressione che stesse per accadere un paio di volte, ma sono sempre uscito di scena. Divento troppo fatto o qualcosa del genere. È la pressione, sai. Ecco perché non amo troppo gli assembramenti.

Foto: Joel Bernstein/Warner
Come sono state le session per Déjà Vu? È stato uno sforzo collettivo, da band?
Dalle session con la band sono uscite Helpless, Woodstock e Almost Cut My Hair, canzoni di Crosby, Stills, Nash & Young insieme. Tutte le altre erano combinazioni, registrazioni fatte da una persona usando gli altri. Woodstock era fantastica all’inizio, una grande esecuzione live. Tutti suonavano e cantavano assieme. Stephen cantava da dio. Era magica. Poi hanno passato molto tempo in studio a perfezionare le cose e, come previsto, Stephen ha cancellato la parte vocale e l’ha rifatta, ma non era incredibile come la prima take. Hanno rifatto molte cose che, secondo me, erano meglio quando erano crude e vitali. Ma è una questione di gusti. Lo dico solo perché potrebbe interessare a qualcuno capire come abbiamo messo insieme l’album. Sono felice di tutto ciò che ho registrato con loro. È venuto bene. Niente rancore.
Sembri un po’ sulla difensiva.
Sai, tutti si concentrano su questa cosa che litighiamo tra di noi, ma è una cazzata, non sanno di cosa parlano, sono solo voci. Quando noi quattro siamo insieme è un’esperienza bella intensa. Quando hai quattro persone totalmente diverse con idee diverse su come fare le cose, la situazione si surriscalda. E a noi piace, ci divertiamo un sacco. La gente inventa tante storie. Ho letto così tanto gossip solo su Rolling Stone… Ann Landers impallidirebbe. Ma non ha nulla a che fare con quello che vogliamo far uscire. La stampa musicale scrive le cose più strane su di noi. È una perdita di tempo.
Di recente è stato detto che CSNY avevano provato a registrare un nuovo album, ma non ci sono riusciti perché tu ti «sentivi altrove».
Cazzate totali. Qualcuno ha solo cercato di inventare una bella frase da mettermi in bocca. «Sì, sembra qualcosa che Neil Young potrebbe dire». E bingo… come se fossero stati lì. Abbiamo fatto delle session e registrato delle cose. È successo questo e basta. Siamo andati al Record Plant di Sausalito, abbiamo affittato lo studio e siamo usciti con due pezzi.
Quali?
Una canzone di David e una di Graham, entrambe fantastiche. Stavamo cominciano a creare qualcosa di bello, ma nel frattempo stavano succedendo mille altre cose. Crosby stava per diventare padre. Alcuni di noi volevano starsene tranquilli per un po’. Stavamo tutti lavorando duramente. Ognuno ha un punto di vista diverso e ci vuole del tempo per metterli assieme, ma è un grande gruppo proprio per questo. Sono sicuro che ci sarà un momento in cui faremo di nuovo qualcosa. Abbiamo capito cose importanti durante quelle session, ma visto che sono durate solo tre giorni, la gente ha cominciato a inventare storie. Ci vogliamo bene, ma in questo periodo siamo concentrati sui nostri progetti. Stephen è in tour col suo nuovo album, Graham e David stanno registrando, io sono impegnato col disco coi Crazy Horse. A posteriori, forse sarebbe stato più saggio fare l’album prima del tour, ma ci sono altri momenti in cui possiamo registrare. La Atlantic ha ancora sotto contratto CSNY. Quando registriamo insieme, lo facciamo per Ahmet, il che è giusto. Ahmet Ertegun ha tenuto a galla i Buffalo Springfield finché è durata. È sempre stato fantastico. Lo adoro. Potrebbe uscire anche un live del tour dell’estate scorsa. So che ci sono almeno 25 minuti delle mie canzoni pronti per essere pubblicati. Abbiamo del materiale molto buono di quel tour. Il sound era ottimo.
Perché viaggiavi separato dagli altri durante quella tournée?
Volevo restare separato da qualunque cosa tranne che dalla musica. E ha funzionato. Partivo subito dopo ogni concerto con mio figlio, il mio cane e due amici. Ero rinfrancato e in ottima forma per ogni spettacolo.
Perché hai fatto un film?
Lo volevo fare. La musica, che è stata e sarà sempre la mia occupazione principale, sembrava indicare quella direzione. Volevo dipingere un quadro visivo di quello di cui cantavo.
Un critico ha scritto che il tema del film è «la vita è inutile».
Forse è quello che ha capito lui. Io ho semplicemente creato un feeling. È difficile dire cosa significhi il film. Penso sia un buon film per essere un primo film. Sì, un buon film. Non credo stessi cercando di dire che la vita è inutile. Però fa reagire in la gente. Non è stato fatto per intrattenere. Lo ammetto, l’ho fatto per me stesso. Qualunque cosa sia, è così che mi sentivo. L’ho fatto per me. Non avevo neanche una sceneggiatura.

Foto: Henry Diltz/Warner
Le recensioni negative ti hanno sorpreso?
Certo che no. La comunità cinematografica non mi vuole. Cosa se ne fanno di Journey Through the Past? (Ride) Non c’è trama. Nessun senso. Nessuna star. Non vogliono vederlo. Ma la prossima volta, ce la faremo. Ho l’attrezzatura, le idee e la motivazione per fare un altro film. Mi sto anche tenendo allenato come cameraman, lavorando col nome di Bernard Shakey. Ho girato uno spot per Hyatt House non molto tempo fa. Sono pronto (ride). Aspetto solo il momento giusto.
E la trama?
È molto semplice. Forse non è una trama, ma un feeling molto forte. Si basa su tre o quattro persone che vivono assieme. Niente musica. Non farò mai un altro film che abbia a che fare con me. Te lo assicuro. Era l’unico modo per fare il primo film. Volevo essere in un film e l’ho fatto. Ho sacrificato me stesso come musicista per farlo.
Quindi non consideri l’album della colonna sonora come un disco ufficiale di Neil Young?
No. C’è stata una sequenza di eventi sfortunata a proposito di Journey Through the Past. La casa discografica mi ha detto che avrebbero finanziato il film solo se avessi dato loro l’album della colonna sonora. Però poi hanno preso l’album, l’hanno pubblicato subito e hanno detto che non volevano il film perché non era… beh, volevano metterlo assieme ad altri film, io invece volevo farlo uscire da solo. Hanno fatto marcia indietro sul film perché lo trovavano strano, ma hanno preso l’album. È un argomento delicato. È l’unico caso di disaccordo che ho avuto con la Warner. Qualcuno ha sbagliato. Mi hanno fregato, questo è certo. Ma va bene comunque. Abbiamo trovato un altro distributore. Ha ammortizzato i costi. Anche se è stato vietato in Inghilterra, sai. Lo consideravano immorale. C’erano parolacce e riferimenti a Cristo che non sono stati ben visti.
Perché te ne sei andato dal ranch?
Era diventato troppo complicato. Negli ultimi anni succedevano troppe cose e nulla aveva a che fare con la musica. C’erano troppe persone attorno a me che non mi conoscevano. Erano parassiti. Vivevano di me, usavano i miei soldi, il mio telefono. Succhiasangue. Mi ha ferito rendermi conto di essere sfruttato. Non volevo crederci. Non mi piaceva fare il capo e dire «Vaffanculo, tutti fuori». Ecco perché ora ho case diverse. Quando arriva troppa gente me ne vado. Il mio ranch è più bello che mai, ma non è più l’unico posto in cui posso stare e sentirmi al sicuro. Ora mi sento molto più forte.
Hai già un titolo per il nuovo album?
Penso che lo chiamerò My Old Neighborhood. Oppure Ride My Llama. È strano, ho tutte queste canzoni su Perù, Aztechi e Inca. Roba di viaggi nel tempo. C’è una canzone chiamata Marlon Brando, John Ehrlichman, Pocahontas and Me. Suono molta chitarra elettrica ed è la cosa che preferisco. Due chitarre, basso e batteria. Sta prendendo forma. Ho scommesso con Elliot che uscirà entro fine settembre. Poi probabilmente faremo un tour autunnale in sale da 3000 posti. Di nuovo io e i Crazy Horse. Non potrei essere più felice. Questo, unito alla vita da scapolo… mi sento benissimo. È la prima volta in cui esco da una relazione e non ne cerco un’altra. Non cerco niente, sono felice come sto. È primavera. (Ride) Te ne vendo due bottiglie per un dollaro e 50.

Da Rolling Stone US del 14 agosto 1975.












