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La musica perduta di Jeff Buckley rinasce con Gary Lucas e The Niro

Il chitarrista e co-autore di 'Grace' racconta 'The Complete Jeff Buckley and Gary Lucas Songbook', una raccolta di tutte le canzoni scritte con Buckley e incise con la voce del cantautore The Niro

Foto: Paolo Soriani

«Jeff Buckley è il giovane musicista più dotato e di talento che abbia mai conosciuto». A parlare è il chitarrista americano Gary Lucas, già nella Magic Band di Captain Beefheart e co-autore di Grace e Mojo Pin, due tra i più celebri classici di Buckley, pietre miliari dal suo primo e unico disco, lo straordinario Grace del 1994, impreziosito dalla meravigliosa cover Hallelujah di Leonard Cohen. A ottobre è uscito The Complete Jeff Buckley and Gary Lucas Songbook (Esordisco), album che per la prima volta riunisce tutte le canzoni scritte a quattro mani da Lucas e Buckley, qui reinterpretate dal bravo Davide Combusti alias The Niro, cantautore romano noto per la dimestichezza con la lingua inglese.

In totale 12 pezzi riletti, se non reinventati, con il multistrumentista Francesco Arpino alla produzione. Potremo sentirli dal vivo a partire dal 19 dicembre, quando Lucas, The Niro e lo stesso Arpino gireranno l’Italia per una decina di date. In scaletta anche cinque titoli finora mai incisi in studio, di cui esistevano solo demo e versioni live: No One Must Find You Here, Story Without Words, In The Cantina, Distortion e Bluebird Blues. È su uno di questi che si concentra l’attenzione di Lucas quando lo raggiungiamo al telefono nella sua casa a New York: «Lo strumentale che avevo scritto per Story Without Words l’avevo intitolato Voluptuous Cruelty, ma non dirò perché. Adoro quel brano, è tra quelli che io e Jeff non abbiamo mai registrato a causa delle pressioni che la Sony e il suo manager stavano facendo su di lui. Ora ho reso giustizia sia a questo sia ad altri pezzi che non avevano ancora avuto il trattamento che meritavano».

Nel corso dell’intervista il musicista originario di Syracuse tornerà più volte sul rammarico provato per non aver potuto incidere molto del materiale composto con il giovane Buckley. «Ci si è messo di mezzo il music business, storie di contratti che ho raccontato nell’autobiografia Touched By Grace. Quando ci siamo conosciuti Jeff voleva cantare e a me quella formula, con il sottoscritto responsabile di armonie e riff chitarristici e lui ai testi e alla voce, era parsa vincente. Speravo avremmo proseguito così, ma è andata diversamente».

Il desiderio iniziale di Lucas era avere Buckley al microfono nel suo progetto Gods and Monsters. Riuscì anche a trasformarlo in realtà, ma per pochissimo: Buckley abbandonò quasi subito la band per dedicarsi alla carriera solista. «Ai tempi un po’ mi arrabbiai, ma sono orgoglioso del lavoro fatto insieme. Aver partecipato alla scrittura di Grace, canzone tuttora amata in tutto il mondo, è qualcosa di cui non si può non andare fieri». Era la primavera del 1991 quando conobbe l’allora 24enne Jeff: fu invitato a suonare con lui durante un concerto in ricordo del padre Tim Buckley, ucciso dall’eroina nel ’75. Da lì prese il via il loro sodalizio. «Grace originariamente era uno strumentale intitolato Rise Up To Be, mentre Mojo Pin si chiamava And You Will», rammenta Lucas. «Non dimenticherò mai il momento in cui Jeff venne da me, ci sedemmo sul divano – tra l’altro vivo ancora nello stesso appartamento, sono qui adesso! – e lui si mise a suonare la musica che avevo scritto per Grace cantandoci sopra le sue parole. Beh, era qualcosa di fantastico». Di lì a poco i due si sarebbero chiusi in studio a registrare il brano con Jared Nickerson al basso e Tony Lewis alla batteria. «Verso la fine Jeff iniziò a sussurrare ripetutamente “wait in the fire, wait in the fire…”: avevo la pelle d’oca. Che diavolo di musica è questa?!, pensai. Jeff mi sembrava un piccolo gnomo: un leprecauno, visto che era di discendenza irlandese. Era eccezionale, sapevo di avere in mano una bomba: questa roba farà esplodere il mondo, mi dissi». Non aveva tutti i torti e in tal senso The Complete Jeff Buckley and Gary Lucas Songbook è per il chitarrista statunitense un omaggio e un saluto a quello che definisce «il momento più bello della mia carriera».

Scelto per il suo timbro e l’ampia estensione vocale, The Niro ha accettato di partecipare all’operazione nonostante non fosse priva di rischi. «Ai tempi del mio esordio discografico in tanti mi accostavano a Jeff Buckley», spiega il 41enne. «In realtà nel periodo in cui ho scritto le mie prime canzoni non lo conoscevo; ho imparato ad apprezzarlo dopo, incuriosito da quei paragoni. Ma insomma, quando Lucas mi ha chiamato qualche dubbio l’ho avuto. Alla fine, però, mi sono buttato e sono contento: nelle recensioni si riconosce che non ho tentato di imitare Jeff». Nell’album compaiono anche il batterista Puccio Panettieri, il violoncellista Mattia Boschi e due bassisti, Maurizio Mariani e l’inglese Phil Spalding, quest’ultimo già al fianco di Mick Jagger ed Elton John. «È venuto fuori un disco dalla scrittura più complessa rispetto a quella che abbiamo conosciuto con l’album Grace, dentro c’è molto di Gary», osserva The Niro. «L’idea era di farlo solo chitarra e voce, poi i piani sono cambiati, ma in ogni caso abbiamo fatto nostri tutti i brani: sono diversi dalle versioni già note e i cinque inediti non riesco nemmeno a considerarli delle cover». Per il cantautore romano l’obiettivo era non scimmiottare Buckley e va detto che lo ha centrato. «Pezzi più duri come Cruel e Malign Fiesta mi hanno tirato fuori un’acidità di voce inaspettata», osserva. «In generale mi ha stimolato molto il fatto che ogni canzone attinge a un mondo sonoro diverso, dal blues alla psichedelia». E aggiunge: «Quando canti No One Must Find You Here sembra di stare sulle montagne russe: parti basso basso e arrivi fino in cielo!».

Oltre alle molteplici influenze che Buckley si portava dentro – dal jazz di Duke Ellington al punk dei Bad Brains, dal grunge ai Led Zeppelin fino alla spiritualità dei canti Sufi -, The Niro sottolinea come la voce del songwriter di Grace «sapeva trasformare qualunque canzone in qualcosa di magico». «Basti pensare alle cover di I Know It’s Over degli Smiths e di Calling You, il tema musicale del film Bagdad Cafè», dice. Non solo: «Un altro suo merito – continua Combusti – è stato quello di aver sdoganato la sensibilità maschile a livello vocale lasciando spazio, nell’interpretazione, a un tipo di sensibilità più femminile. Così facendo ha raggiunto vette emozionali impareggiabili e ispirato molti cantanti dopo di lui».

Da questo punto di vista i testi sono un elemento non secondario: in The Complete Jeff Buckley and Gary Lucas Songbook si spazia da una Story Without Words, in cui Buckley narra di una fidanzata che lo ha tradito con una donna (“there’s so much that you don’t know, life is in your hands, there’s so much that you can’t see while you’ve made your plans”) a In The Cantina, espressione del desiderio di rintanarsi in un posto sicuro con le persone amate e di lasciare il mondo cattivo fuori dalla porta. «Viveva intensamente le emozioni più differenti e non aveva paura di sviscerarle; non era a suo agio con la realtà circostante, ma sembrava comprenderla a fondo», commenta The Niro. E Lucas – che nel disco usa una Gibson J45 del ’42 che suonata con le corde da chitarra elettrica crea un suono inusuale, suggestivo – nella sostanza concorda: «Le canzoni di Jeff Buckley sono una miscela di tragicità e romanticismo in cui qualsiasi giovane di qualsiasi epoca può identificarsi. Negli anni ho riflettuto spesso su ciò che ha reso Grace e Mojo Pin delle pietre miliari e credo sia perché si alternano arpeggi in minore e maggiore e viceversa, il che dà vita a una dolcezza non banale e zuccherosa: un intreccio agrodolce di luce e oscurità».

L’ultima volta che vide Buckley fu il 4 febbraio 1997, a un concerto per i 10 anni della Knitting Factory, famoso locale di New York. «Nel backstage c’erano Lou Reed, Laurie Anderson, Lenny Kaye, Tom Verlaine, giornalisti e discografici. Suonava anche Jeff, che nel mezzo del suo set disse: “Se Gary Lucas non è troppo arrabbiato con me vorrebbe salire sul palco?”. Ero sorpreso e felice. Facemmo Grace, ci furono ovazioni, e lì mi resi conto che volevo davvero bene a quel ragazzo». Tre mesi dopo, il 29 maggio, Buckley annegava nelle acque del Wolf River, affluente del Mississippi dove si era tuffato per un bagno e in cui fu risucchiato da un gorgo provocato da un battello: aveva 30 anni.

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