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‘La musica è finita’, Motta può ripartire

È uscita oggi la canzone che dà il titolo all’album che uscirà in autunno. Francesco ne parla qui per la prima volta: nuovi suoni, nuovi collaboratori, nuovi punti di vista. Ma anche la voglia di sempre di ballare sopra la fine delle cose. Per una volta senza troppa malinconia

Foto: Pepsy Romanoff

Andare in cerca di un paesaggio sconosciuto per cambiare se stessi. A due anni da Semplice, il suo terzo album, Motta cambia squadra, management e co-produttore per «trovare nuovi stimoli e nuovi sguardi», per crescere come artista e spingere il proprio percorso in una nuova direzione.

Il disco è atteso per l’autunno, quando lo ritroveremo anche sui palchi (si parte il 27 ottobre dal The Cage di Livorno), ma nel frattempo è già stato svelato un primo estratto, Anime perse, e oggi esce il secondo, La musica è finita, ossia la title track. Due brani accompagnati da videoclip diretti da Pepsy Romanoff (i protagonisti di quello di La musica è finita sono Carolina Crescentini e Vinicio Marchioni, ndr) regista noto per il lungo sodalizio con Vasco Rossi, realizzati con la complicità di Tommaso Colliva, che sostituisce Taketo Gohara alla produzione artistica firmata come in precedenza anche dallo stesso Motta, e che vedono quest’ultimo affiancato nella scrittura, rispettivamente, da Danno dei Colle der Fomento e Francesco Bianconi.

Collaborazioni inedite che cambiano le carte in tavola, insomma, ma la bella notizia è che se nella musica sono tantissimi i casi cui è il produttore a condurre l’artista dove gli pare occupando il posto di guida e talvolta persino snaturandolo, qui la faccenda è parecchio diversa: la personalità del toscano Motta è così strabordante da vincere su tutto; la sua voce, la sua poetica e il suo sentire arrivano forti e chiari, ed è ciò che accade quando si ha davvero qualcosa da dire.

Lo abbiamo raggiunto su Zoom per parlare di ciò che è stato e di ciò che verrà nella sua vita di cantautore, di questi due nuovi pezzi e di quello che lui stesso descrive come un nuovo inizio. «Succede sempre, no? Si ricomincia ogni volta. Certo, non sempre con titoli come La musica è finita… Io la voglio proprio far pesare questa cosa».

Dopo ne parliamo, prima dimmi di Anime perse, visto che è stata la prima traccia dal nuovo disco che hai deciso di pubblicare. Chi sono le anime perse?
Per questa canzone io e Simone (Eleuteri, alias Danno, nda) ci siamo immaginati un rapporto tossico. metaforicamente e non. Soprattutto un abbraccio tra due persone che cercano in tutti i modi di amare, nonostante tutto, anche se da un punto di vista esterno non sembra possibile. Non mancano riferimenti alla mia vita, ma ben mascherati. Non che io abbia relazioni tossiche, non è quello, semplicemente nel testo ci sono frasi che riportano a mie esperienze.

È anche un tema d’attualità, quello degli amori tossici, laddove la paura di amare è una cosa molto tua, no?
Adesso non ho paura di amare. Ma non l’avevo nemmeno prima.

Però nelle tue canzoni qualcosa del genere affiora.
Diciamo che se prima c’era un puntino grigio in un cielo azzurro, io mi concentravo così tanto su quel puntino che riuscivo a far diventare il cielo nero. Adesso forse è meno così nel mio privato, ma scrivere canzoni è un’altra cosa, significa anche far emergere dei dettagli, mirare su singoli elementi anche sfocando il tutto di cui fanno parte. Altrimenti scriveremmo articoli di giornale.

Giusto, e vorrei farti notare che se finora nelle canzoni avevi sempre detto “io”, “tu”, “noi”, qui sei per la prima volta narratore esterno.
È che mi sono venuto a noia (ride). Questa cosa che dici credo sia frutto della co-scrittura con Danno del Colle der Fomento, con cui mi sono trovato benissimo, sarà che come me è un amante della parola, del testo. Ci ha presentati Mezzosangue per un’altra cosa che faremo insieme più in là. E a parte il fatto che mi sento più vicino ai Colle che ad altre cose che mi sono state accostate, probabilmente tra di noi è scattata una magia proprio perché non ci conoscevamo così bene: è come se, per trovare un punto d’incontro, avessimo unito i rispettivi sguardi in un punto di vista terzo. Esterno, appunto. Ma a te è piaciuta ‘sta cosa? Una volta vorrei intervistare io qualche giornalista.

Potrei approfittarne per dire un po’ di cose sul mio mondo. Ma siamo qui per parlare di te.
Certo. E confesso che a me le interviste aiutano spesso a comprendere cose sui miei dischi che da solo non comprenderei. Questo, tra l’altro, è un momento particolare, perché sono ancora nel mezzo della lavorazione dell’album, sto per finire, per cui non ho certezze nelle risposte. Per carità, ci penso sempre su un miliardo di volte alle mie canzoni e anche a come raccontarle, però a un certo punto capisci in che direzione portare le domande e quindi le risposte. Ora sono ancora in movimento, fai di me ciò che vuoi.

Evviva. Torniamo alla questione del narratore esterno?
Lì credo ci sia dietro anche una mia riflessione sul fatto che probabilmente con Semplice ho finito di dire certe cose, di esprimere certi concetti. Concetti che in futuro sono sicuro torneranno, benché in maniera diversa, perché banalmente se scrivi una canzone per il padre a 40 anni, sarà molto diversa da quella che avevi scritto a 30. Ma concetti che per ora mi pareva di aver esaurito, di avere già espresso in tutti i modi possibili. È ciò che mi sono detto prima di mettermi su questi nuovi brani, dopodiché aver lavorato con altre persone con cui non avevo mai collaborato prima ha indubbiamente stimolato un nuovo sguardo, anche se… A livello sonoro c’è sì un cambiamento, ma nessuno è saltato sulla sedia dicendo «oddio, Motta è impazzito».

Parlando di sound, quello di La musica è finita mi ha fatto pensare a band come Black Keys e White Stripes, mentre Anime perse ha dentro qualcosa di Woodkid. Ti sto dicendo le prime cose a cui ho pensato al primo ascolto, d’istinto. Cosa c’è dietro?
C’è molto più un processo di sintesi, mentre i brani precedenti erano pienissimi di tracce. Perché in studio io divento un pazzo che suona sui brani un sacco di roba che si stratifica e se questa cosa a volte ha funzionato, altre volte ha portato ad arrangiamenti che hanno ingolfato la chiarezza della canzone. Prima mi sembrava importante qualsiasi cosa, ma ho poi imparato, forse anche lavorando come produttore al disco di Emma (Nolde, nda), che tante convinzioni in cui un cantante si trincera nella fragilità di quel momento in cui scrive le sue canzoni e le arrangia hanno bisogno di respiro. Tradotto: troppi elementi e dettagli che ritieni importanti possono far perdere forza alla cosa più importante in assoluto, cioè la canzone. Quello che spero è che già dall’ascolto di questi primi due brani si percepisca che quello del nuovo album sarà un suono definito, perché si capisce quali tracce ci sono dentro e perché non c’è niente di più di ciò che dovrebbe esserci. Cosa che ovviamente sostenevo anche a proposito di Semplice, però là c’erano 150 tracce (ride).

E come mai hai avvertito l’esigenza di modificare anche tutto lo scenario attorno a te? Hai cambiato co-produttore passando da Gohara a Colliva, ma anche management lasciando Woodworm per approdare alla Circus dell’ex Velvet Pier Ferrantini. Non è che cambierai anche la band che ti accompagna dal vivo?
Alcune cose della band cambieranno, ma non posso ancora dirle.

Perché un tale rivolgimento?
Mi sembrava un percorso necessario. Potrei dire più libero di prima, ma lo dico a ogni nuovo album, dato che come si diceva ogni disco è un inizio. Di certo la co-scrittura è qualcosa di stimolante e il motivo è che autoanalizzarsi e andare in terapia sono due cose molto diverse, tutti dovrebbero farle entrambe. Non che per me sia una novità scrivere con altri, l’ho già fatto e non perché non avessi più niente da dire, anzi, è che a un certo punto uno si annoia di come le dice, le cose che ha in testa. E come in qualsiasi lavoro, spesso quando realizzi di saperlo fare, dopo qualche tempo ti ritrovi a essere come un criceto su una ruota che tenta in tutti i modi o di correre più veloce o di correre più lento, ma comunque un po’ imbrigliato in un automatismo al quale io ho sempre inteso e intendo sfuggire. Il punto à che per trovare nuovi stimoli e migliorarsi serve cambiare le cose attorno a sé. Il mio attuale manager è una persona con cui parlo sempre molto di musica, ci scambiamo musica e soprattutto mi manda affanculo se necessario, cosa fondamentale nel rapporto manager-artista. Più in generale è tutta una questione di curiosità. Perché figuriamoci, Taketo andava benissimo e lo stimo tutt’oggi, lavoriamo ancora insieme sulle colonne sonore che mi capita di realizzare. Lo stesso vale per altri collaboratori e musicisti. Si tratta, però, di scardinare alcune certezze per vedere cosa succede.

Con Bianconi e La musica è finita com’è andata?
Con lui la modalità è stata diversa, perché lì avevo già in mano un testo che mi piaceva, solo che mi sembrava troppo autoreferenziale. Così mi sono distaccato, distanziato da me stesso, per provare a vedere se si poteva trasformare il tutto in modo che il brano risultasse sì un cazzotto nello stomaco, ma meno mio e più di tanti. Perché per me un cazzotto nello stomaco rimane, questa canzone. Dunque Francesco ha lavorato a un testo che già c’era, ma in assoluta libertà, visto che gliel’ho consegnato dandogli carta bianca, dicendogli «vedi tu». Ci lega un’affinità in termini di amore per il disincanto, oltre al fatto che per entrambi se c’è una parola da usare è quella e basta. Ed è finita che due disincanti insieme hanno portato a una canzone piena di speranza.

Sul finale. Prima c’è il cazzotto, anche sonoro.
Sì, sì, speranza per come posso vivermela io…

Nei primi versi citi “la regina peste”, canti della musica che è quasi finita. C’entra la pandemia?
In realtà no. Avevo in mente l’idea del fuoco su cui ballare, ma mentre di solito per me i testi sono come un prato verde dove pian piano metto un sentiero per poi cambiare strada cento milioni di volte finché capisco dove voglio andare, in questo caso sapevo dove volevo andare: a quell’immagine del danzare sul fuoco.

E sulle macerie.
Ma come arrivarci? Una tragedia! Un po’ com’era successo per Dov’è l’Italia: anche lì era nato prima il ritornello delle strofe.

Esattamente cosa avevi in mente di dire?
Sai, io ho raccontato spesso la fine delle cose. Penso a La fine dei vent’anni o a Mio padre era comunista, dove dicevo “l’amore per loro è aspettare insieme la fine delle cose”. O ancora, a La nostra ultima canzone. Per cui è come se La musica è finita racchiudesse tutto questo, ma dalla prospettiva di uno che vuole cogliere quel preciso momento in cui le cose finiscono, fotografarlo e capire che può essere anche un’occasione per ballare sul fuoco che brucia, per ballare sopra alla fine delle cose, per esorcizzare e ripartire completamente daccapo. Cosa che a me dà gioia.

Quindi è un ballo liberatorio, catartico, quello che canti.
Hai presente Joker di Todd Phillips? Quando lui scende dalle scale e balla tu non lo giudichi come un pazzo, lo consideri libero. La sensazione che mi ha trasmesso quella scena lì esprime alla perfezione ciò che volevo dire con La musica è finita: il ballare sopra la fine delle cose non, però, con la malinconia che trapelava sempre nei miei album precedenti, ma con il desiderio di vedere cosa accadrà dopo. Con Semplice, ripeto, si è chiusa una storia e adesso sono curioso di raccontarne un’altra. E non ho paura, anzi, questo è il mio modo per conservare il senso di vertigine quando scrivo, quando sono sul palco. Semmai mi fa sorridere avere appiccato il fuoco su quanto vissuto finora. Anche in Del tempo che passa la felicità raccontavo del timore che la musica finisse, anche se tanti hanno fatto diventare quella canzone un’altra cosa, peraltro trasformandola in qualcosa di più intelligente di quanto non fosse. Ma qui volevo un altro finale: e adesso si riparte.

Colpiscono i riferimenti a quest’epoca desacralizzata, alla borghesia che va in estasi: si coglie la volontà di creare più livelli di lettura. O sbaglio?
Non sbagli, e nei punti che hai citato si sente che c’è più la mano di Francesco. Inizialmente ero spaventato all’idea di cantare certe parole, perché, per dirne una, il concetto di borghesia è cambiato profondamente negli ultimi 20 anni. Però è stata una sfida: è proprio grazie a quelle parole lì che la canzone si stacca ancora di più da me e questo mi piace tantissimo.

È così che una canzone diventa più universale. Io sentendo i versi che citavo prima ho pensato alla morte dei miti in un’epoca in cui si vive come in vetrina e all’estasi che vedo provare da molti di fronte alla scomparsa della musica diciamo “di qualità”.
Lo hai detto te.

Devo dirlo solo io?
No, ma i tuoi sono spunti che derivano proprio dal tentativo di infilare delle distorsioni in un testo, per poi tornare al tema centrale del brano. Tema che in questo modo acquisisce ancora più forza. Io stesso nella vita mi sono aggrappato a delle frasi che in certe canzoni in realtà erano secondarie per gli autori. Ed è giusto così.

Foto: Pepsy Romanoff

Che cosa faresti se la musica finisse veramente?
Godrei del fatto che per la prima volta penserei a qualcos’altro.

E hai mai pensato anche solo alla tua vita senza musica?
Sì. O meglio, c’è stato un momento, durante il secondo lockdown, in cui la musica mi trasmetteva delle vibrazioni negative. Guardavo la chitarra e mi veniva una tristezza infinita, per cui per un po’ non l’ho toccata. Così com’è capitato, per un periodo, che la musica diventasse secondaria nonostante si parlasse di musica. Responsabilità mia, perché a volte ho perso il fuoco e ho smesso di vedere la cosa più importante, quella che era comunque là indipendentemente da qualunque mio cambiamento, cioè che io sono un musicista, quindi esattamente come un artigiano che costruisce i suoi oggetti devo andare in studio a suonare e a scrivere a prescindere dalla fine che faranno le canzoni che scrivo. Facile a dirsi, ma a volte perdi il filo perché ci sono tante cose che ti distraggono. Adesso, però, ho capito che la musica che faccio è fondamentale, è la mia vita, non ne esco.

Nel 2022 hai dichiarato che l’esperienza del Festival di Sanremo del 2019 è stata una parentesi che ti ha fatto capire dove vuoi stare. Dunque anche dove non vuoi stare, aggiungerei. C’entra con quanto mi stai raccontando?
Sanremo è di sicuro un esempio di un momento in cui le distrazioni sono molte rispetto alla canzone in sé, e lì forse ho capito pure che mi riesce meglio scrivere canzoni che stare davanti a una telecamera. Che non vuol dire che non andrò mai più a Sanremo, non è detto.

Non intendevo questo, mi riferivo più a un sentimento che puoi avere provato in mezzo a tante distrazioni, della serie «io scrivo canzoni che cazzo mi frega», per citarti.
Eh, è ancora così. E in effetti nel nuovo album che uscirà in ottobre è riemersa quell’urgenza… No, l’urgenza c’era pure prima, ma quella voglia di cantarla in faccia, questa cosa, che è ciò che ho introiettato quando suonavo per la strada, dove non c’è nessuno che ti conosce e se qualcuno non si accorge di te passando, ti viene ancora di più la voglia di alzare la voce e urlargli in faccia. Non so se si chiama punk, questa cosa, ma nell’ultimo periodo un pochino l’avevo persa. Anche perché ero più chiuso in me stesso e forse mi è mancato un confronto con qualcuno che mi dicesse «ma che cazzo dici?», con qualcuno che mi mettesse alla prova. Sì, forse c’è stato un momento in cui le tante pacche sulle spalle ricevute mi hanno rallentato e fatto distrarre dalla voglia che deve esserci. Perché non è che il mondo stia aspettando le canzoni di Motta, per cui è importante che io alzi la voce per farmi sentire anche da chi non mi ascolta.

Nei giorni scorsi mi sono riascoltata tutti i tuoi dischi in ordine cronologico, ti ho analizzato…
L’ho fatto anch’io, per questo disco, ed è stata la prima volta.

Ebbene, ci sono alcuni temi che tornano. Per esempio: come sta andando con la paura di invecchiare?
Adesso ho più paura di tornare bambino. Alcune cose dell’invecchiare per ora mi piacciono, soprattutto sono felice che quella paura là mi abbia fatto riflettere tanto sulle canzoni che scrivevo, prima di pubblicarle. In futuro assumeranno un significato diverso, ma non vi troverò nulla di strano, anche La fine dei vent’anni credo sarà meraviglioso cantarla quando di anni ne avrò 60. Ammesso che a quell’età farò ancora questo mestiere.

Te lo chiedevo perché oggi da un punto di vista discografico va tutto così veloce che si è ritenuti già vecchi a 30 anni. Come te la vivi?
Come me la vivo… Io sono già 20 anni che rompo i coglioni (ride). Da un lato tutto mi fa piacere vedere che ci sono giovani che hanno un’attitudine punk che in quel modo puoi avere solo a quell’età, fondamentalmente; dall’altro noto che alcune cose sono andate fuori fuoco. Quando ho iniziato io nessuno parlava di soldi e di successo, nessuno si poneva il problema di cosa fosse un ufficio stampa: non ci interessava. Adesso è tutto l’opposto e un po’ mi spaventa, non tanto per me, ma perché penso a un ventenne che vuole suonare e… Voglio dire, un tempo se volevi suonare andavi in un locale e lo facevi. Non ti davano una lira? Andava bene lo stesso. Oggi quel tipo di spazi manca sempre più e questo fa sì che si spinga su altri canali. Però ci sono anche artisti, vedi Madame, che hanno fatto il loro primo concerto a Sanremo e hanno spaccato tutto. Il problema è dopo, quando fai un disco e poi ne fai due, poi tre: lì se qualcosa non va, viene fuori. Di mio intuisco già ora che ci sono progetti che sono esplosi e che resteranno, mentre altri no. Madame secondo me è tra i pochi che rimarranno, lo si avverte da subito anche se non ti piace: quello che ha fatto lei al suo primo Sanremo senza aver mai fatto un concerto prima io non l’avrei mai potuto fare.

Che cosa sognava il Motta adolescente e cosa sogna il Motta di oggi?
Ogni volta che raggiungo un obiettivo cerco di mettermi in gioco e cerco la via più difficile, il che spesso mi porta anche ad autosabotarmi. Però questa cosa mi tiene sempre lì, a non dare niente per scontato. Quando ho iniziato a suonare volevo diventare come i Violent Femmes e non come i Beatles, quindi già partivo con dei miti che in realtà non conosceva nessuno. Il problema è subentrato quando mia madre, che fino a quel momento era tutta preoccupata per il mio avvenire, a un certo punto è venuta a un mio concerto e mi ha detto «secondo me è lì che devi stare, sul palco». E se arriva a dirtelo tua madre diventa un casino, perché a quel punto non puoi nemmeno più essere arrabbiato perché ti senti incompreso. Quindi panico. In seguito ho attraversato dei momenti di solitudine, la band (i Criminal Jokers, nda) non c’era più e non ho avuto altra scelta che raccontare quanto mi era successo. Cosa che ho fatto con il mio primo album a nome Motta e il fatto che sia andata bene mi lascia un bellissimo ricordo, tant’è che quando mi sento preoccupato o triste ripensare al periodo in cui La fine dei vent’anni mi ha permesso di avviare questa mia carriera solista mi dà forza. Perché sono convinto che non sempre esista una meritocrazia, anzi, nella musica ci sono tantissimi esempi di artisti che sono stati capiti o rivalutati dopo la morte o dopo essere stati trattati male, e tra l’altro sono tra i miei preferiti, penso a Piero Ciampi, a Caligari, a Rino Gaetano, a Luigi Tenco, però sapere di potermi aggrappare alle canzoni mi aiuta molto.

Qua e là nelle tue canzoni ritorna anche una domanda: a chi racconteremo le nostre storie? Ora sai a chi racconterai le tue? Non voglio sapere se farai un figlio, ma anche il desiderio di paternità è qualcosa che emerge tra le righe di alcuni tuoi pezzi.
È vero. E c’è un parallelismo tra lo scrivere canzoni e il discorso di diventare padre, c’è un sottotesto che corrisponde a un desiderio di immortalità, fondamentalmente. Sono tutti modi per non morire mai.

Che musica stai ascoltando ultimamente?
Tante colonne sonore, Sharon Van Etten, Sleaford Mods. E Maria Chiara Argirò, una ragazza italiana che sta in Inghilterra e che sarà nel disco. Poi quando non so più cosa ascoltare finisco sempre sui Radiohead.

Un artista internazionale con cui ti piacerebbe collaborare?
Torno lì: Jonny Greenwood.

Quando hai pianto l’ultima volta?
A parte che piango sempre… L’ultimissima è stata pochi giorni fa al matrimonio di una coppia di amici a Parigi. E non ho pianto, ma mi sono commosso, nel vedere l’ultima puntata di Che tempo che fa. Perché è come se fosse finita un certo tipo di epoca, un certo tipo di libertà. Ho anche pensato che quel programma c’era da tantissimi anni, però mi sono preoccupato, sarà che non vedo niente di buono all’orizzonte.

La buttano sul discorso dell’egemonia culturale, ma qua rischiamo di finire in un discorso complesso…
Complesso fino a un certo punto: un certo tipo di libertà non dovrebbe mai mancare, specie nel servizio pubblico.

Ti ricordi quando dal palco dell’Alcatraz – credo fosse il tuo primo grande concerto, nel 2018 – urlasti che se c’era qualche fascista nel pubblico poteva anche andarsene?
L’ho detta in più occasioni, quella cosa, ai tempi. Così come ho chiarito spesso che Sei bella davvero parla di una donna transgender. Volevo chiarire che alle mie feste, diciamo così, non gradivo la presenza di un certo tipo di persone. Poi non credo che nessun fascista omofobo abbia mai sentito i miei dischi, ma non si sa mai, certe cose è bene dirle; sappiamo bene che Salvini ascolta De André, anche se evidentemente è rimasto in superficie e non lo ha capito.

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