La Middle America di Kevin Morby è un luogo triste, solitario e... confortante | Rolling Stone Italia
Interviste Musica

La Middle America di Kevin Morby è un luogo triste, solitario e… confortante

I grandi spazi e il deserto, la solitudine e la morte. 'Sundowner' è uno dei dischi più intensi pubblicati da un cantautore americano nel 2020. È malinconico, eppure consolante. «L'arte è terapia»

La Middle America di Kevin Morby è un luogo triste, solitario e… confortante

Kevin Morby

Foto: Johnny Eastlund

Per chi usa ancora etichette stilistiche un po’ vaghe come “cantautorato americano”, Sundowner di Kevin Morby è uno dei dischi più intensi usciti nell’ambito in questo anno disgraziato. Talmente impregnato dello spirito e degli archetipi del più classico songwriting yankee di frontiera e intimista da sembrare quasi un esercizio di stile, soprattutto se paragonato all’esuberanza del precedente lavoro di Morby. Non fosse che le canzoni sono troppo buone per definirlo in modo così limitante.

Ritrovatosi a passare il lockdown sperso nel nulla di quel Kansas in cui era da poco tornato dopo anni di nomadismo, Morby ha creato un piccolo gioiello fatto di racconti brevi dalla profondità quasi carveriana: storie minime, quotidiane, con sullo sfondo una Middle America immutabile e apparentemente impermeabile persino agli sconquassi che l’hanno attraversata negli ultimi dodici mesi. Spazi sconfinati e grandi solitudini, motel tutti uguali e strade che non portano da nessuna parte. Materiale narrativo che potrebbe sembrare usurato, ma che il trentaduenne musicista ha saputo impastare per creare alcune delle canzoni migliori della sua carriera. Come recita il titolo di un brano, mai sottovalutare il sole del Midwest americano.

Sundowner è stilisticamente molto diverso dal tuo precedente album Oh My God. Se quello esibiva diverse influenze musicali, questo è totalmente nella tradizione del cantautorato country folk. Si è trattato di un cambio di direzione calcolato o è stato più frutto degli eventi e delle condizioni in cui ti sei trovato mentre scrivevi e registravi?
È andata così. Ho scritto i pezzi mentre vivevo da solo nel mezzo dell’America e li ho registrati su un quattro piste. Dato che i brani sono venuti facilmente dopo aver finito Oh My God, volevo che andassero nel senso opposto, che fossero più minimali. Se Oh My God rappresenta il lato più appariscente del mio personaggio, quello che porto sul palco, Sundowner è un manifesto del me stesso più quieto, direi più isolato.

In effetti, diverse delle canzoni hanno a che fare con il tema dell’isolamento, della solitudine, della separazione fisica. I brani come dicevi sono stati scritti molto prima dell’esplosione della pandemia e dei vari lockdown, ma che sensazione ti ha dato vedere come casualmente hanno colto il mood globale del 2020?
Una coincidenza bizzarra. Appena finito il tour di Oh My God avevo deciso di tornare qui in Kansas, nella mia città di origine, per staccare da tutto. Una sorta di auto-isolamento consapevole, per ricaricare le batterie. Quando è arrivato il lockdown, rispetto al resto del mondo io ero già allenato. La sovrapposizione tra i temi dei brani e la situazione che chiunque nel mondo sta vivendo mi ha colpito profondamente, per cui ho voluto pubblicare il disco il prima possibile.

Sundowner è anche un disco che parla di luoghi. Luoghi fisici. I riferimenti geografici abbondano nei titoli e nei testi. Quanto è stata influenzata la tua scrittura da, non so, il Kansas, il deserto, oppure un motel lungo la strada? Non pensi che in tempi in cui anche le geografie sono diventate sempre più immateriali e virtuali questi riferimenti diano precisione, rendendo tutto più realistico e vicino all’esperienza delle persone?
Indipendentemente da dove ti trovi, se sei un artista l’ambiente che hai attorno ha un influsso profondo su quello che stai creando. Può entrare nei testi, ma anche nella musica. Quando mi sono ritrovato qui in Kansas dopo dodici anni mi sono meravigliato di quanto fosse tutto grande: il cielo, gli spazi aperti, il deserto, le distanze. Volevo che tutto quello spazio rientrasse nelle canzoni, sia dal punto di vista delle parole che del suono. Ho cercato di catturarlo, in qualche modo.

Ci sono anche distanze impossibili da colmare. Mi ha colpito molto la canzone Jamie, ne vuoi parlare?
Jamie era il mio miglior amico, è morto all’età di 25 anni quando io ne avevo 20. Era il mio fratellone, diverse canzoni che ho scritte nel corso degli anni hanno a che fare con lui o sono state ispirate da lui. Essendo passati dieci anni dalla morte di Jamie, ho voluto finalmente inciderne una che parlasse esplicitamente di lui.

Parlami del ruolo di Katie Crutchfield (Waxahatchee) nella genesi del disco. Possiamo ipotizzare un futuro per voi due alla Gram Parsons & Emmylou Harris o Richard & Linda Thompson?
Ah ah, perché no? Magari un giorno capiterà. Katie era con me mentre scrivevo i pezzi, mi ha fornito ispirazione per alcuni testi e mi ha dato una prospettiva diversa da cui guardare alle canzoni. Ma la cosa più importante è che è lei ad avermi suggerito il termine Sundowner.

Parlando di ispirazioni, cosa ascoltavi mentre lavoravi al disco?
Tre dischi soprattutto: Ease Down the Road di Will Oldham, Nebraska di Bruce Springsteen e l’omonimo di Bedouine.

Foto: Johnny Eastlund

Tu sei nato a Lubbock. Non voglio chiederti di Buddy Holly, quanto piuttosto di Terry Allen, altra gloria musicale locale. In certi momenti di Sundowner mi sembra di ritrovare quello spirito da trovatore honky-tonk, quel gusto per le minuzie e per il quotidiano che ha reso album come Lubbock (On Everything) dei capolavori del cantautorato americano. Sbaglio?
Assolutamente no. Adoro la scrittura di Terry Allen, e se è per questo anche Buddy Holly. A Lubbock ci sono nato ma me ne sono andato che ero davvero piccolo, tuttavia una connessione spirituale col Texas l’ho sempre sentita. Qualche giorno fa mi sono comprato la t-shirt di un memorial su Holly tenutasi l’anno dopo che sono nato. A Lubbock non ci torno da un sacco di anni, ma in un certo senso me la porto dentro.

Abbiamo sfiorato l’argomento lockdown. Come hai affrontato questo periodo traumatico? Sei ottimista sul dopo, anche per quel che riguarda la tua professione di musicista?
La mia filosofia è stata quella di sempre: un passo dopo l’altro, restando con i piedi per terra e senza farsi prendere dal panico. Come ho detto prima, non sono solitudine e isolamento a spaventarmi. Mi sono concentrato sulle canzoni del disco, su progetti anche minimi, ma utili per non impazzire e rimanere concentrati. Vado a correre, curo l’alimentazione, medito, insomma cerco di restare sano in un periodo drammaticamente malsano. Sul futuro sono ottimista, o voglio far finta di esserlo. Spero che riaprano i locali, spero che tornino i festival, spero che si torni tutti a vivere la vita di prima. Succederà. Non abbiamo alternative.

L’ultima canzone del disco, Provisions, è una delle più belle che ho ascoltato quest’anno, anche se non so decidere se è più triste o più confortante. Probabilmente entrambe le cose. Nel testo dici che non esiste un mattino che non ti piaccia o una notte che non vorresti rivivere. Quali sono, secondo te, le “provviste” che dovremo portarci dietro per superare questo inverno?
Libri, serie tv, vitamine, equipaggiamento per andare a correre col freddo e qualunque strumento possa servirci per fare arte. Che sia dipingere, suonare, disegnare, scrivere…non importa. L’arte è una terapia, la migliore che esista. E meditare. Tutti dovrebbero imparare a farlo.

Altre notizie su:  Kevin Morby